Il principale problema che oggi l’economia continentale deve affrontare, secondo la Commissione europea e non solo, è la mancanza di un uso strategico dell’innovazione nelle politiche pubbliche ai diversi livelli di governo.
Assieme ad altri fattori, questa carenza ha influito negativamente sulla capacità di crescita del sistema determinando, specie in paesi quali il nostro, un progressivo rallentamento delle dinamiche di sviluppo registrate negli ultimi anni.
Tutto questo impone una riflessione sulle politiche fino a qui adottate in materia di innovazione. In particolare, considerato che quelle di incentivo all’offerta si sono dimostrate insufficienti, è evidente la necessità di un cambio di rotta: oltre agli incentivi per le imprese che innovano serve favorire la domanda di innovazione e, nello specifico, servono politiche volte a usare il procurement pubblico come strumento per intervenire sui limiti di mercato che ostacolano l’introduzione e la diffusione di prodotti innovativi derivanti tanto dall’assenza di mercati dedicati a prodotti innovativi a elevate potenzialità, quanto dall’insufficiente articolazione della domanda relativa agli stessi prodotti. L’idea è che quando una pubblica amministrazione acquisisce un bene-servizio innovativo per l’esecuzione di una propria funzione, questa acqusizione può costituire l’occasione sia per la creazione – e la diffusione su scala sufficientemente ampia – di soluzioni non esistenti, sia per il manifestarsi di innovazioni di tipo incrementale tramite cui prodotti esistenti vengono via via adattati all’evoluzione della domanda. In aggiunta, una domanda pubblica fortemente connotata dal punto di vista tecnologico favorisce l’instaurarsi di un ambiente dinamico, dato l’affermarsi di una maggiore propensione all’innovazione lungo l’intero ciclo di vita delle tecnologie e dii maggiori investimenti dovuti alla riduzione dei rischi e delle incertezze del mercato.
Il punto di riferimento per questo tipo di politiche è rappresentato dalle esperienze in questo campo fatta in alcuni paesi.
L’esempio piú noto è quello degli Stati Uniti, dove da sempre gli appalti pubblici sono usati come strumento di promozione tecnologica in settori quali la difesa, la sicurezza, l’aeronautica, l’informatica e la ricerca spaziale e dove queste politiche pubbliche sono alla base di alcune delle principali innovazioni tecnologiche del ‘900 quali il GPS (Global Positioning System) e la tecnologia IP (Internet Protocol), entrambe frutto di programmi di spesa pubblica nati inizialmente per scopi militari.
Un altro caso famoso è quello del Giappone, dove il mondo pubblico e il settore privato hanno dato vita a consorzi misti per lo sviluppo tecnologico in settori-chiave. Oppure quello della Svezia, con una pubblica amministrazione e un sistema di grandi imprese, operanti nei settori strategici, che hanno dato vita a partnership di sviluppo, finalizzate alla realizzazione di grandi infrastrutture tecnologiche.
Per anni, in Italia, la possibilitá di avviare politiche come queste si è scontrata con un sistema di norme fortemente orientato a garantire – quantomeno sulla carta – un procurement pubblico impostato sul principio della libera concorrenza.
Il punto però è che la concorrenza funziona, e assicura esiti ottimali, lì dove si tratta di produrre beni e servizi standard, non quando chi compra chiede un’innovazione. In questi casi non siamo di fronte a qualcosa di definito da comprare al prezzo più coneniente: siamo nella situazione in cui il compratore sa che gli serve qualcosa in grado di risolvere il suo problema ma non ha chiare le specifiche tecnico-prestazionali della soluzione che cerca.
Oggi però anche questo problema non esiste più. Un po’ per effetto dell’azione dell’Unione europea, un po’ grazie alle regole introdotte dal nuovo Codice degli appalti (specie nella sua versione “corretta”), ciò che impediva alle pubblica amministrazione di dare vita azioni di procurement orientate all’innovazione è venuto meno.
Non ci sono piú scuse: gli strumenti ci sono. Ora bisogna fare in modo che vengano usati!