digital health

La “shared care” in sanità, cos’è e perché va resa fruibile: i vantaggi per medici e pazienti

Nella pratica della sanità italiana la cura condivisa (shared care) è purtroppo ancora un lontanissimo sogno, per ragioni non certo ascrivibili a questioni tecnologiche. Ecco cosa manca per renderla accessibile e farne godere i benefici ai cittadini e a tutti gli attori coinvolti

Pubblicato il 24 Giu 2022

Francesco Beltrame Quattrocchi

Ordinario di Bioingegneria Università degli Studi di Genova; Presidente di ENR - Ente Nazionale di Ricerca e promozione per la standardizzazione

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Il principio della continuità della cura (OMS) richiede la pratica della cura condivisa (shared care). Perché essa sia resa possibile è necessaria la trasmissione telematica di tutte le immagini acquisite, ma data la grande quantità dei dati, la posta elettronica con allegati, che quasi tutti sanno usare, non è strumento praticabile.

Quale soluzione allora?

Telemedicina e continuità di cura: perché il medico rimane insostituibile

La fotografia del settore salute vista dal cittadino

Da un lato, oggi il cittadino dispone di saperi e tecnologie biomediche, figli di sapienti e mirati investimenti in R&D di molti anni, con impatto decisivo a livello diagnostico, terapeutico e prognostico sulla malattia di una persona, peraltro oggi sul mercato a basso costo, impensabili fino a pochi decenni fa in Italia all’avvento del SSN. Dall’altro, si scontra con ritardi culturali formativi universitari e corrispondenti carenze professionali, a livello medico e di ingegneria biomedica che minano la fruibilità piena dei diversi livelli di cura e, soprattutto, della loro integrazione, al fine di efficacia clinica e sostenibilità economica.

Questa la fotografia del settore salute visibile da pratiche quotidiane vissute da ogni cittadino. Alzi la mano chi non si sia trovato nella condizione di vedersi prescritto un esame diagnostico radiologico, per esempio una TAC, finalizzato a rendere visibile una eventuale lesione del proprio corpo, e di essere tornato a casa con una busta contenente un pezzo di carta (il referto, vedi dopo) e un CD con memorizzate le decine di immagini acquisite, praticamente però invisibile agli occhi del malato e, ciò che è più grave, del curante che quell’esame abbia prescritto.

Si dirà: chiaro che quel CD deve essere letto da un PC! Peccato che la maggior parte dei desktop attuali non sia più dotata di lettore di CD incorporato: e allora occorre ricorrere a un dispositivo periferico lettore di CD esterno, reperibile per ora, ma non è detto fino a quando. Questo, tuttavia, non basta ancora: ammesso di avere/trovare sul mercato un lettore di CD da connettere al PC, occorre un programma capace di leggerlo, ossia di visualizzare le immagini in esso contenute, le quali dovranno ovviamente essere state memorizzate, in fase di acquisizione da macchine diverse, in un formato standard, che per fortuna (percorso faticosamente iniziato a metà anni ’80 con ACR-NEMA) oggi c’è ed è condiviso da tutti, e si chiama DICOM.

Bene, le immagini su CD sono memorizzate in DICOM e i programmi di lettura ed elaborazione, anche se non tutti uguali e quindi con necessità di imparare a usarli, sono offerti sul CD stesso e sono compatibili con i principali sistemi operativi, Windows, Android e iOS.

Una sanità non in linea con l’evoluzione tecnologica

Si pone allora naturale la domanda: perché non sostituire il CD con una chiavetta USB? La nebbia su questo punto è fitta: non è certo un problema di capacità e di costo. È una questione di disallineamento temporale e distrazione decisionale rispetto alle costanti di tempo molto veloci dell’evoluzione tecnologica, in questo caso a livello di hardware. Quando venivano consegnate le tradizionali lastre radiologiche, di certo l’accesso era immediato per tutti. Non si vuole con questo mettere in discussione la necessità ineludibile e il valore clinico delle bioimmagini digitali rispetto alle lastre su pellicola di un tempo, ma proprio la loro forte potenzialità urge a mutare rapidamente la loro disponibilità (tanto più ormai standardizzata DICOM, su CD) in fruibilità effettiva da parte di tutti gli attori coinvolti: medico curante, specialista radiologo, altri specialisti eventualmente coinvolti e, non ultimo, il paziente che vorrebbe “vedere” le immagini relative allo stato degli organi del suo corpo, per acquisire consapevolezza del proprio stato di salute, al di là dei sintomi provati.

Quali strumenti per garantire la trasmissione telematica di tutte le immagini

Si pone dunque con evidenza il problema di trovare gli strumenti adeguati per garantire la trasmissione telematica di tutte le immagini acquisite, di abbattere anche questa barriera, per esempio con tecnologia cloud, certamente anch’essa disponibile, ma non di immediata fruibilità per l’utente medio. Nasce così il ricorso a strumenti “di fortuna”, più o meno facilmente rintracciabili in rete: un esempio è l’applicazione We Transfer, gratuita per trasferimenti fino a 2 GB e poi con abbonamento a titolo oneroso. Come noto, We Transfer è capace di inviare via e-mail a una pluralità di indirizzi corrispondenti ad altrettanti attori interessati il link a un sito (in cloud) dal quale è possibile effettuare download abbastanza veloce delle immagini, però per un numero di giorni ovviamente limitato (di solito, 7 giorni). Scaduto tale termine temporale, il mittente deve ri-effettuare l’upload via We Transfer e il processo va ripetuto.

Tre fattori da considerare

Da quanto fin qui rappresentato, emergono tre considerazioni:

1) le tecnologie relative alle bioimmagini digitali sono di estremo valore a livello clinico, sia per ciò che esse sono capaci di “vedere”, sia per quello che “non riescono a vedere” per i limiti dovuti alla loro risoluzione spaziale e temporale: infatti, in caso di una lesione già nota, quello che conta è notare se sia in corso o meno progressione di malattia – anche limitata, perché “si vedono solo piccole cose in più” – perché tale circostanza può essere invece spia decisiva di moltissime e piccolissime alterazioni non visibili con quella certa tecnica e quindi far scattare l’allerta a intervenire con aggiustamenti/variazioni terapeutiche in tempo utile;

2) a fronte di quanto rappresentato in 1), pur con il grande passo avanti della standardizzazione DICOM, la parte hw, sw e di trasmissione telematica costituiscono ancora barriere facilmente superabili dal punto di vista tecnologico eppure ancora troppo diffuse – con responsabilità non piccole riferibili a gestori della sanità e a ingegneri biomedici impegnati sul versante clinico e dei loro rispettivi formatori – per dispiegare tutta la potenzialità dei tanti dati-immagine acquisiti ( e a costo rilevante, sia nel pubblico sia nel privato);

3) la resilienza della maggioranza dei medici curanti (generali e specialisti, ovviamente radiologi esclusi) ad acquisire un minimo di cultura radiologica per imparare almeno a grandi linee a “leggere” tali immagini, tanto più che sono proprio essi i prescrittori di tali esami diagnostici, e si presume dunque sia in loro il desiderio, quasi spontaneo, di verificare con quelle immagini la validità del loro ragionamento clinico sul caso che hanno in carico.

Cosa accade ai medici, a livello formativo e in pratica

Se le prime due considerazioni sono facilmente condivisibili e chiare, la terza considerazione merita un approfondimento, articolato su due livelli: quello che accade ai medici a livello formativo (all’università e nelle scuole di specializzazione) e quello che succede nella pratica.

A livello formativo, l’università pecca di frammentazione del sapere medico, privilegiando (pur non senza qualche ragione) la verticalizzazione specialistica a discapito del raggiungimento da parte dei medici-chirurghi di una visione clinica di tipo olistico del paziente. Sempre più rari e preziosi i medici disposti a fare da hub clinico responsabile, disposti a mettere in gioco tutte le loro esperienze acquisite a vantaggio del paziente che hanno davanti in modo integrato, a visitarlo clinicamente in modo completo, ad andare in visita a domicilio, specialmente nel caso di persone fragili.

Prevale in loro la tentazione del rifugio nella nicchia specialistica, quale nido protettivo da accuse diverse di sconfinamento in domini di competenza altrui, nel timore di assumersi responsabilità a tutto tondo del malato, in qualche modo diminuendo il valore della loro missione così come concepita, peraltro fin dall’antichità, da Ippocrate.

A livello di ciò che accade in pratica, a titolo di esempio paradigmatico, basti proprio osservare ciò che accompagna il CD di cui sopra si è discusso, ovvero il referto (tipicamente cartaceo), opera del radiologo diagnosta. La prima cosa da notare è osservare come esso venga concepito (contenuto) e redatto (la sua struttura, il suo formato). La generazione dei contenuti avviene attraverso un complesso procedimento mentale del radiologo che parte dalla visione attenta in sequenza di tutte le immagini (operazione eventualmente ripetuta più volte), volta a notare scostamenti dalla normalità delle forme e della intensità/densità presenti nei diversi distretti anatomici oggetto di indagine.

Il radiologo ha necessità di tradurre immediatamente in parole tutto ciò che vede e non può farlo scrivendo direttamente: perderebbe concentrazione. Parla invece con sé stesso, tipicamente registrando la propria voce, grazie a un qualche più o meno sofisticato dispositivo di registrazione. Quindi, in via sincrona, impiega la vista e la voce. Successivamente, in via asincrona, riascolta sé stesso, quindi usa il senso dell’udito e notando le parti significative fermando il registratore più volte, scrive (usa la mano) tutte quelle parti che vanno a costituire il contenuto del referto, redatte secondo la terminologia e il “dialetto” radiologico della medicina, appreso negli anni della specialità in radiologia. Al termine, effettua una sintesi in un capitolo denominato “conclusioni”, con lo scopo sia di evidenziare i fatti di rilievo osservati, sia di rendere comprensibile ai più tutto quello espresso nel corpo del contenuto, assai più ricco di informazioni e spesso utili ove vengano intese ai fini di decisioni operative a valle circa la parte terapeutica in carico al curante.

Dunque, nella pratica, le centinaia di immagini – pur standardizzate DICOM proprio al fine di shared care – vengono memorizzate su dispositivi (i CD) in progressiva obsolescenza, vengono trasmesse e condivise grazie a tecnologie cloud non del tutto assestate e comunque di non immediato accesso (tipo We Transfer), chi le riceve e non è radiologo non si cura neppure di dar loro un’occhiata (quanti hanno mai visto un curante cui il paziente pur rechi a mano il CD e abbia il lettore prendersi cura di visionarle?) e vengono “collassate” in un referto cartaceo che il curante medio prende sì nelle proprie mani, ma dalla cui lettura comprende solo le conclusioni. Pare evidente che nella pratica shared care sia purtroppo ancora un wishful thinking – ovviamente pur con lodevoli eccezioni – e, soprattutto in Italia, forse addirittura un lontanissimo sogno, per ragioni non certo ascrivibili a questioni tecnologiche.

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