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Il pensiero progettuale: cos’è e perché si deve insegnare a scuola

Il pensiero progettuale non mira a fornire la comprensione del mondo, ma è in grado di promuovere una migliore conoscenza, sebbene approssimata, di ecosistemi complessi e di elaborare soluzioni plausibili a problemi mal definiti. È dunque un framework mentale indispensabile a tutti gli individui per poter operare nel mondo

Pubblicato il 25 Ott 2022

Carlo Giovannella

ASLERD e Università di Roma, Tor Vergata

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Quanto è fondamentale il “pensiero progettuale” per la formazione delle future generazioni e perché è importante sostenere il suo sviluppo, sin dalla primaria, attraverso un apprendimento basato sulle competenze?

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L’attuale visione riduzionista del sapere

L’odierna misurazione del successo di un sistema scolastico (es. INVALSI e PISA) è incentrata essenzialmente sul “leggere, scrivere e far di conto”, ovvero sulle sole “arti liberali” reputate necessarie per potersi addentrare nel mondo delle “arti meccaniche” e per poter affrontare la progressiva specializzazione delle arti che, nel corso dei secoli, ha consentito la comprensione e, soprattutto, un dominio sempre più puntiforme del mondo naturale.

Di questa visione “riduzionista” del sapere – incentrata, per altro, quasi esclusivamente su conoscenze e abilità – tendono a farne le spese modalità di pensiero più sofisticate (come, ad esempio, quelle dialettiche) e integrative (come quelle filosofiche). Non a caso è sempre più frequente nei giovani, e sempre più tollerata dai docenti di ogni ordine e grado, la restituzione mnemonica del sapere, come sempre più diffusa è la pratica del “copia e incolla” acritico.

Tra le “arti” volte alla “pura” conoscenza del mondo sembrano ancora godere di buona salute (per quanto?) le “scienze dure” come la fisica perché il “pensiero sperimentale” figlio del metodo scientifico si pone a fondamento irrinunciabile delle “arti meccaniche” e, come evidenziato da Dewey, consente di costruire ponti verso lo sviluppo tecnologico, a causa della necessità-intenzionalità di procedere – tramite esperimenti sul campo – all’eventuale falsificazione dei modelli elaborati. Il successo e la diffusione del metodo scientifico, unitamente alla crescente specializzazione-parcellizzazione delle aree tematiche appannaggio delle “arti meccaniche” hanno spinto gli scienziati a incrementare progressivamente il livello di complessità dei problemi trattati, ma pur sempre rimanendo all’interno della zona di comfort rappresentata dai cosiddetti problemi ben definiti. Fuori di tale evoluzione restano, ovviamente, i problemi mal definiti.

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La differenza tra un problema ben definito e un problema mal definito

Ma qual è la differenza tra un problema ben definito e un problema mal definito?

Semplificando, nel primo caso si conoscono sia tutti gli elementi che compongono un sistema più o meno complesso e che assumono un ruolo in un determinato fenomeno oggetto di studio, che le regole che determinano l’interazione tra tali elementi che, infine, le condizioni al contorno che contribuiscono a determinare l’evoluzione del sistema. È importante sottolineare come le approssimazioni che si fanno nella definizione di un problema possono risultare più o meno soddisfacenti in base alla precisione con cui si intende descrivere un fenomeno. A volte però, pur risultando soddisfacenti non consentono, comunque, di prevedere l’evoluzione di un sistema che, in funzione delle condizioni al contorno, potrebbe assumere configurazioni imprevedibili seppur ripetibili, come accade in alcuni sistemi caotici.

Altre volte il numero degli elementi è talmente elevato da richiedere l’accettazione della propria ignoranza, dell’impossibilità di predire l’evoluzione di tutte le parti di un sistema, come nel caso di un sistema fluido cosicché ci si deve accontentare di predirne l’evoluzione in termini di valori medi (es. temperatura). Scopo della scienza, dunque, a conferma della sua natura di arte liberale, è quello di comprendere e descrivere il “mondo naturale” attraverso lo sviluppo di modelli sempre più dettagliati e, nei limiti del possibile – sempre più “operazionalizzabili”.

Dove nasce e si sviluppa il “pensiero computazionale”

Un’esigenza, quest’ultima che ha assunto una rilevanza sempre maggiore con l’avvento e lo sviluppo prorompente dei computer, al fine di poter utilizzare approcci numerici e statistici sempre più sofisticati, non implementabili da mente umana. Conseguenza ne è stato il progressivo demandare compiti ad automi, ovvero a macchine computazionali che con il tempo hanno acquisito la capacità di analizzare e operare su enormi moli di dati in tempi rapidissimi (probabilmente molti di coloro che staranno leggendo questo articolo ricorderanno la storia di Katherine Johnson raccontata dal film “Il diritto di contare”).

Possiamo affermare, quindi, che è proprio nell’ambito nella ricerca di soluzioni a problemi complessi, ma pur sempre ben definiti, che nasce e si sviluppa il “pensiero computazionale”, nonché la rappresentazione virtuale dell’evoluzione di sistemi complessi. Dove la mente umana non può arrivare ci si arriva, dunque, con un’ “intelligenza artificiale”, resa tale dalla capacità dell’uomo di trasformare algoritmi in codici eseguibili.

I problemi mal definiti

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai problemi mal definiti ovvero problemi dai contorni non definiti, in cui non è possibile individuare tutte le variabili in gioco, e tanto meno le relazioni che determinano l’evoluzione dinamica di un sistema (basti pensare a tutte le problematiche di carattere sociale). In alti termini, tali sistemi – o meglio ecosistemi – sfuggono all’operazionalizzazione. In tali casi è l’osservazione costante e continua delle tracce lasciate dalle componenti degli ecosistemi, che può consentire di effettuare il “problem setting” o, addirittura, di identificare i problemi.

È opportuno sottolineare come nella fase di “problem setting” sia anche possibile effettuare una riduzione del livello di indefinizione della descrizione del problema, ma non sarà mai possibile eliminarla del tutto (altrimenti si ricadrebbe nella tipologia dei problemi ben definiti). Molto probabilmente è pensando a questo tipo di scenario che Claude Lévi-Strauss affermò: “scienziato non è colui che sa dare le vere risposte, ma colui che sa porre le giuste domande.”

Vale la pena osservare che nelle discipline in cui si ha a che fare con problemi ben definiti la competenza del “problem setting” è poco praticata e si tende a prediligere la competenza del “problem solving” mettendo gli studenti davanti a problemi già definiti di cui si chiede la soluzione corretta (ovvero l’elaborazione di un modello falsificabile).

Nei problemi mal definiti non esistono soluzioni giuste o sbagliate ma solamente peggiori o migliori, soluzioni che dunque possono essere “verificate” solo sul campo per gli effetti che producono, soluzioni di cui si può tentare di prevedere i possibili effetti ben sapendo che non si sarà in grado di immaginare tutte le possibili evoluzioni della geodetica dell’ecosistema; una logica conseguenza dell’impossibilità di definire a priori tutte le variabili e le relazioni in gioco. I problemi mal definiti ci costringono ad accettare, senza drammi, l’indeterminazione!

Alla categoria dei problemi mal definiti appartengono a pieno titolo tutti i problemi in grado di sviluppare il “pensiero progettuale” (“design thinking”), ovvero tutti quei problemi che richiedono quale soluzione un progetto finalizzato alla modifica “ottimale” – per uno specifico contesto (località e unicità della soluzione) – dello “status quo” dell’ecosistema, o di sue parti.

Tre gli aspetti importanti da sottolineare a questo riguardo:

  • la differenza nelle finalità tra una scienza quale, ad esempio, la fisica e il design; come già visto, nel primo caso lo scopo è l’identificazione della soluzione del problema finalizzata alla comprensione e alla spiegazione del “mondo naturale”, nel secondo caso è fornire una risposta al problema tramite la modifica del “mondo naturale”;
  • il design, dunque, è l’ambito in cui viene immaginato e realizzato l’ “artificiale” (Herbert Simon), il possibile e, per questo, è di fondamentale importanza anche per l’innovazione;
  • il “pensiero progettuale” va considerato a tutti gli effetti come un framework mentale integrativo, dal momento che i problemi mal definiti sono sempre caratteristici di ecosistemi “complessi” e che le fasi di setting e solving di tali problemi richiedono quasi sempre il ricorso a metodiche proprie di diverse arti meccaniche e liberali; uno dei pochi, se non l’unico, in grado di ricomporre, almeno parzialmente, sotto un unico ombrello la frammentazione del sapere che è derivata dalla richiesta di una specializzazione sempre più spinta.

Il design è un’arte liberale?

A causa di questa sua caratteristica, in un recente passato c’è anche chi ha avanzato la proposta di considerare il design quale nuova arte liberale (Buchanan). È davvero tale? La mia opinione è che in parte potrebbe esserlo e in parte no.

No, perché la finalità ultima del design, molto pratica, lo rende apparentabile a un’arte “meccanica”. D’altra parte, quantunque il “pensiero progettuale” non miri a fornire la comprensione del mondo, di fatto è in grado di promuovere una migliore conoscenza, quantunque approssimata, di ecosistemi complessi e di elaborare soluzioni plausibili a problemi mal definiti.

Dal momento che questi ultimi sono i problemi con cui ci confrontiamo più frequentemente nella nostra vita, sia professionale che privata, ne segue che il “pensiero progettuale” è un framework mentale indispensabile a tutti gli individui per poter comprendere al meglio gli ecosistemi e la loro complessità e, quindi, per poter operare nel mondo. A causa di ciò il “pensiero progettuale” assume la stessa rilevanza delle “arti liberali” canoniche, pur non essendo tale. Il “pensiero progettuale”, dunque, è il complemento perfetto del “pensiero sperimentale” che ha dato vita al metodo scientifico, e per questa ragione la scuola ne dovrebbe stimolare lo sviluppo in tutti gli studenti sin dalla più tenera età. In questo modo l’individuo verrebbe abituato a considerare l’indeterminatezza (e dunque l’imperfezione) non come un limite invalicabile oltre in quale non è possibile andare (usualmente non operiamo su dimensioni di rilevanza quantistica!) ma, bensì, come uno stimolo per continui miglioramenti, siano essi di carattere incrementale che dirompente (ovvero veri e propri cambi di paradigma/prospettiva).

Pensiero computazionale, progettuale e sperimentale

Come si posiziona il “pensiero computazionale” rispetto all’insieme armonico di “pensiero sperimentale” e “pensiero progettuale”? Nel caso del “pensiero sperimentale” abbiamo già visto come il “pensiero computazionale” tenda a diventare un sine qua non con l’aumentare della complessità del problema; nel caso del “pensiero progettuale”, invece, non è mai indispensabile ma sempre utile. In altre parole, assume un ruolo strumentale che può contribuire sia a rendere più precisa la definizione del problema che a migliorare la concettualizzazione di una soluzione che, infine, a ottimizzare il processo di design nel suo insieme.

Le competenze digitali

Alla luce di quanto sopra le competenze digitali – la cui introduzione nei curricula scolastici è divenuto il principale obiettivo per molti – non devono essere viste come un fine ma piuttosto come un mezzo; uno strumento attraverso il quale è possibile amplificare altre competenze, altri framework mentali. Sarebbe altresì opportuno fare una netta distinzione tra competenze digitali “soft” (utili ad amplificazione altre competenze) e competenze digitali hard (ovvero utili e significative per i professionisti del settore). E sarebbe ancora più opportuno definire e fare costantemente riferimento a uno spazio integrato delle competenze (vedere fig.1) da utilizzare come framework a partire dal quale impostare lo sviluppo armonico degli individui. Uno sviluppo in cui convivano, integrandosi e completandosi, il “pensiero sperimentale” e il “pensiero progettuale” sostenuti, a seconda delle necessità, dal “pensiero computazionale”.

Operativamente, per realizzare un tale sviluppo armonico sarebbe opportuno adottare come approccio privilegiato per l’apprendimento il P3BL (ovvero il “problem, project and process based learning” – C. Giovannella), in cui si andrà a porre l’accento sui problemi ben definiti nel caso del “pensiero sperimentale”, mentre il focus verrà ad essere ripartito su tutte e tre le “P” nel caso del “pensiero progettuale”. Per lo sviluppo di quest’ultimo si renderà necessario, inoltre, anche il pieno recupero delle dimensioni dialettica, critica e integrativa. Le attività legate allo sviluppo del “pensiero progettuale” sono anche quelle che meglio si prestano allo sviluppo delle cosiddette “life skills” (vedere fig.2) che solo parzialmente possono essere sviluppate dalle “arti liberali” (o da ciò che ne resta nella programmazione scolastica). Inevitabilmente, dunque, un approccio P3BL non può che sposarsi, in maniera naturale, con un’organizzazione dell’apprendimento basato sulle competenze e, possibilmente, collaborativo.

Conclusioni

Per chiudere un’ultima considerazione: nel corso di questi ultimi anni la UE, attraverso un suo centro di ricerca (JRC), ha proposto una serie di framework di competenze che lentamente stanno assumendo il ruolo di standard. In realtà, la definizione di un framework di competenze è uno dei problemi “peggio definiti” tra quelli con cui ho avuto a che fare nella mia vita e l’invito, dunque, è quello di non assumere la proposta di tali framework come la “soluzione” al problema. È solo una delle possibili soluzioni che, per altro, al suo interno contiene un certo numero di criticità che non abbiamo tempo/spazio di discutere nel dettaglio in questa sede. Di fronte a una proposta di soluzione di un problema mal posto, il consiglio è sempre quello di attivare la propria capacità di analisi critica e considerare la soluzione proposta come superabile sia a seguito di una migliore definizione del problema stesso che del possibile ricorso all’utilizzo di una diversa prospettiva. Se poi non si fosse in grado o non si avesse voglia di affrontare lo sforzo di effettuare un’analisi critica del setting, allora vorrà dire che non resterà che adottare acriticamente le soluzioni proposte da altri accettandone anche il grado di imperfezione … evitandosi, così, anche lo sforzo del problem solving (necessario se si vuole essere costruttivi e utilizzare la propria competenza per produrre nuovi “oggetti” del sapere e contribuire a far crescere la nostra base di conoscenza!).

Bibliografia

R. Buchanan, Wicked Problems in Design Thinking, Design Issues, Vol. 8, No. 2, Spring, 1992, pp. 5-21

J. Dewey, “By Nature and By Art,”Philosophy of Education (Problems of Men) (1946; rpt. Totowa, New Jersey: Littlefield, Adams, 1958), pp. 291-292

C. Giovannella, “Beyond the Media Literacy. Complex Scenarios and New Literacies for the Future Education: the Centrality of Design”, IJDLDC, vol. 1 N. 3, 2010 pp. 18-28

H. Simon, The science of the Artificial, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1996

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