FORMAZIONE

Perché il Piano Nazionale Scuola Digitale è opera incompiuta

il PNSD è oggi indubbiamente una delle iniziative istituzionali più significative e strutturate, il cui patrimonio di elaborazione e la cui implementazione vanno recuperati con decisione e coraggio, con la consapevolezza dei punti deboli e delle criticità ancora da superare. Come nel campo della formazione del personale

Pubblicato il 07 Lug 2017

Mario Pireddu

Università Roma Tre

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Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) è stato presentato nel 2015 come pilastro fondamentale della Legge 107, definita con enfasi dai suoi promotori “Buona Scuola”. Nei piani di chi vi ha lavorato, doveva coincidere con il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana “per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale” (qui il documento di indirizzo del MIUR).

Da quanto dichiarato all’epoca e fino a oggi, al centro della strategia vi erano e vi sono l’innovazione del sistema scolastico e le opportunità offerte da quella che viene definita “educazione digitale”. Nel PNSD si fa riferimento a pratiche quotidiane di supporto allo sviluppo di competenze di cittadinanza e per la vita degli studenti, e alle figure del Dirigente Scolastico e del Direttore Amministrativo viste non come meri esecutori di procedure amministrative ma come protagonisti della “scuola digitale”. Protagonisti affiancati da una nuova figura, l’Animatore Digitale, il cui ruolo è stato concepito e definito come abilitante.

La formazione relativa al PNSD, partita nel 2016 con una tempistica decisamente non comprensibile (la formazione dei DS, a cui spettava la scelta ponderata degli AD in base agli indirizzi del Piano, è partita solo in seguito alla nomina e alla formazione degli stessi AD), si è articolata su scala regionale e in modi molto diversi. In alcune regioni le scuole capofila per la formazione hanno privilegiato un approccio più disciplinare, costruito su singoli moduli relativi ai molti – forse troppi – ambiti del PNSD (coding, sicurezza e TIC, byod, banda larga, etc.), mentre in altre si è optato per un approccio più orientato allo sviluppo di metacompetenze e soft skills indispensabili per le nuove figure di sistema individuate dal Piano.

Per via delle modalità scelte – centralizzazione verticale a livello locale (in alcune regioni un solo Polo formativo per tutta la formazione iniziale relativa agli AD) e elevata autonomia e differenziazione tra le varie regioni – ci si è allontanati molto dall’obiettivo di una armonizzazione nazionale della prima fase di formazione al PNSD. In altre parole: a seconda del luogo e delle scelte fatte, i risultati ottenuti sono stati molto diversi, sia in termini di soddisfazione dei soggetti coinvolti che in termini di ricaduta sulle prassi didattiche e organizzative delle scuole.

La seconda fase della formazione ha visto la presa in carico dei percorsi da parte di più istituti a livello regionale, con la conseguente moltiplicazione delle differenze tra le modalità di selezione dei formatori, l’organizzazione della didattica e degli incontri, le impostazioni teoriche e pratiche, etc. A ciò si è aggiunto un eccessivo ricorso alla logica dei bandi PON e MIUR per poter ottenere finanziamenti, che da una parte ha indubbiamente incentivato la creazione di reti (anche con soggetti extrascolastici), e dall’altra ha però messo al lavoro – con tempistiche spesso faticose da gestire – moltissimi operatori scolastici che hanno sottratto tempo prezioso alle regolari attività scolastiche.

Quella della fatica nella gestione delle tempistiche non sembri una questione marginale, perché riguarda la gran parte dei soggetti coinvolti e riguarda anche lo stesso MIUR che pure richiede ad altri il rispetto preciso delle scadenze: come esempio basti citare quello dei materiali per la formazione forniti in ritardo o quello degli Schoolkit, modelli di buone pratiche replicabili (che chi scrive ha avuto modo di presentare in Inghilterra nell’ambito di un progetto europeo dedicato alle competenze digitali) resi disponibili dal Ministero non proprio in anticipo sui tempi previsti, da mesi fermi al numero di tredici.

In conclusione, alle difficoltà non solo iniziali segnalate da molti operatori coinvolti (formatori, Dirigenti, AD), relative alle tempistiche impossibili da rispettare e all’inefficienza delle piattaforme ministeriali (un esempio qui), si sono aggiunti poi nel tempo i timori di una sostanziale caduta della spinta propulsiva iniziale. La mancanza di linee operative – pur ripetutamente annunciate – su diversi ambiti, così come la mancanza di un adeguato monitoraggio dei percorsi di formazione e dei risultati (si veda anche qui), lasciano la sensazione di un insieme di scuole abbandonate a se stesse nello sviluppo di percorsi decisivi per il presente e il futuro dell’educazione pubblica.

Eppure il PNSD, con tutte le difficoltà elencate, a oggi resta indubbiamente una delle iniziative istituzionali più significative e strutturate, il cui patrimonio di elaborazione e la cui implementazione andrebbero recuperati con decisione e coraggio (come ha recentemente sottolineato Gabriele Benassi qui su AgendaDigitale). Con la speranza che in un futuro prossimo non si debba ancora usare l’aggettivo “digitale” per la scuola, così come già accade per altri comparti. Più che sulle definizioni – l’apprendimento digitale è apprendimento! – dobbiamo concentrarci sulle buone pratiche e le esperienze, in un ecosistema formativo e didattico che sarà sempre più, e inevitabilmente, plurimediale e di rete.

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