tecno-capitalismo

Dalla privacy all’alienazione di sé: così i social ci hanno “mercificato”

Come e perché si è prodotta la mutazione antropologica che ci ha fatto rinunciare alla privacy e reso tutti lavoratori-produttori di dati personali, felici di trasformare la nostra vita nella “merce” per eccellenza per il profitto dei tecnocapitalisti. Una riflessione su come ci siamo trasformati da individui in dati

Pubblicato il 01 Mag 2019

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

tecnocapitalismo

Quella società che da due secoli difendeva la privacy come valore e come essenza dell’individuo moderno e liberale, si è ritrovata oggi a rinunciarvi in nome dell’innovazione per l’innovazione[1], del feticismo per l’innovazione (come ha scritto in un libro bellissimo il filosofo Fabio Merlini, a proposito di ipocrisia dell’innovazione) e dall’offerta di una vita user friendly[2], credendo di navigare gratis in rete e di vivere in social che promettevano l’amicizia.

Un rinuncia già evidente nel 2010, quando nessuno poi (o pochissimi) aveva contestato Mark Zuckerberg che aveva detto: “Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così è anche per la privacy” – senza capire che a modificare le norme sociali era stato proprio lui e le retoriche abilmente costruite sull’idea di social, mentre il capitalismo stava compiendo intanto un ulteriore passo verso lo sfruttamento totale/totalitario della vita umana, mettendo a profitto la sua innata socialità e quella tendenza alla esposizione di sé che già Leopardi criticava, lo stare in società risolvendosi allora nel passeggio, negli spettacoli e nell’andare in chiesa.

I nostri dati personali diventano la merce per eccellenza

Così permettendo – la differenza di oggi con il tempo di Leopardi è tutta qui, nella dimensione assunta dal fenomeno e dal suo sfruttamento capitalistico – che i nostri dati personali (cioè la nostra vita) diventassero una risorsa economica da sfruttare (apparentemente illimitata, a differenza, ad esempio del petrolio), ma anche una merce, anzi la merce per eccellenza.

Creando nuovi lavoratori come i data broker, ma noi tutti diventando invece lavoratori-produttori di dati personali, spogliandoci della nostra vita (che cederemmo ad altri, alienandoci da noi stessi, anche qualora volessimo essere retribuiti per questo lavoro). Ovvero, ciò che prima sembrava valore intangibile, forma della nostra soggettività e mezzo necessario per costruire la nostra individuazione – la privacy, appunto – è evaporato/svaporato, è divenuto un ferro vecchio. Perché al tecno-capitalismo – come ad ogni potere – serviva un uomo trasparente/di vetro e a controllabilità totale e continua[3]; ma anche – proprio perché indotto a spogliarsi della propria individualità/soggettività – uomo da cui estrarre il maggior valore possibile, mascherando questo lavoro di produzione di dati personali con le retoriche della condivisione.

Essere insieme materia prima, forza-lavoro e merce

Conseguentemente siamo ormai diventati – siamo stati costruiti, prodotti dal sistema come – materia prima (i dati della nostra vita) e insieme lavoratori-produttori volontari (o imprenditori di noi stessi, come recita il mantra neoliberale) di noi stessi come materia prima da trasformare in merce: un lavoro incessante e quasi felice (perché ludicizzato dallo stesso sistema, sempre per mascherare l’alienazione che comunque produce), a produttività crescente (perché questo è il fine del capitalismo) – divenendo ancor di più altro da noi (anche questa è alienazione), ma perfettamente funzionali al funzionamento del tecno-capitalismo. Cioè siamo materia prima, ma anche proletari del capitalismo delle piattaforme e degli algoritmi – innovatori di massa, innovatori in forma di folla/sciame[4] – dove cioè la vita intera dell’uomo è diventata materia prima & forza-lavoro & merce – ed è pluslavoro per garantire plusvalore al capitalismo. Realizzando quindi noi stessi, liberamente assoggettandoci, la nostra totale sussunzione (termine orribile) nel capitalismo e nella tecnica.

Escludendo, da illuministi, che questa mutazione antropologica sia effetto della magia di una strega cattiva (anche se la velocità con la quale si è prodotta sembra davvero l’esito di una magia, di una mela avvelenata – la tecnica e il neoliberalismo – che abbiamo morsicato con voluttà, entrando poi in una sorta di sonno della ragione e del pensiero critico), vediamo di analizzare il come e i perché si è prodotta. Lo faremo ri-costruendo, usando gli strumenti di Michel Foucault, la genealogia di questa trasformazione e di questa ulteriore nostra alienazione (i saperi e i poteri che le hanno prodotte, nulla avvenendo mai per caso); e ri-partendo dallo scrittore William Faulkner (1897-1962), premio Nobel per la letteratura nel 1950 e da un suo scritto intitolato appunto Privacy, del 1955 – di cui era uscita un’edizione fuori commercio nel 2001 per iniziativa di Stefano Rodotà, Garante per la protezione dei dati personali e poi edita da Adelphi nel 2003.

Faulkner e l’inizio della fine dell’individuo moderno (parte prima)

Faulkner richiamava – è l’incipit del suo scritto – quello che è o era definito come sogno americano: “un asilo sacro, un santuario in terra per l’uomo in quanto individuo: una condizione nella quale egli potesse essere libero non soltanto dalle vecchie istituzioni gerarchiche del potere arbitrario, chiuse e corporative, che lo avevano oppresso in quanto massa, ma libero da quella massa nella quale le gerarchie della chiesa e dello stato lo avevano costretto e tenuto schiavo come individuo e, come individuo, impotente”[5].

Ed erano europei – quegli uomini – che partivano in cerca di una nuova terra dove essere liberi: “dove l’uomo possa presupporre che ogni individuo – non la massa degli uomini ma gli uomini in quanto individui – abbia il diritto inalienabile alla dignità e alla libertà individuale all’interno di un tessuto di coraggio individuale, di lavoro onorevole e di responsabilità reciproca. (…). E così fu, così avvenne”[6]. Di più: questo individuo “non avrebbe neppure dovuto preoccuparsi di essere pari ai re perché adesso era libero da re e da simili congerie; libero non soltanto dai simboli ma dalle stesse vecchie arbitrarie gerarchie che quei simboli fantoccio rappresentavano – tribunali e governi e chiese e scuole – agli occhi dei quali egli aveva sempre avuto valore non in quanto individuo bensì in quanto numero…”.

Poi qualcosa accadde – e “lo perdemmo, quel sogno”[7]. E noi – prima di ricordare quello che per Faulkner era stato un sintomo di questa perdita – non possiamo non dire, aggiornando il pensiero dello scrittore, come quell’individuo da sogno americano si era in realtà sì liberato dai re e da altre congerie, ma per farsi poi – e da lungo tempo – obbediente suddito di una tecnocrazia del denaro e dell’innovazione tecnica (il nuovo sovrano), schiavo di nuovi simboli-fantoccio e di nuove gerarchie (il denaro, l’innovazione-feticcio, la competizione, l’egolatria narcisistica che cancella ogni individualità, la forza militare e l’industria culturale, la razionalità calcolante invece della ragione, il capitalismo come forma e norma di vita) che hanno rovesciato quel sogno in quello che oggi possiamo definire un incubo.

Conservandone però la sacralità (il dio-denaro, il capitalismo e la tecnica come religione, l’individuo-fedele, la teologia del tecno-capitalismo, le cattedrali del consumo, i catechismi comportamentali), ma soprattutto riportando l’individuo che si credeva libero dentro a una massa (o a uno sciame) di individui (di lavoratori, di consumatori, oggi di nodi della rete e di produttori di dati – che sono massa anche quando credono di essere liberi professionisti, consumatori sovrani per beni personalizzati, egoarchi di sé stessi, liberi navigatori della rete). Tornando, soprattutto e nuovamente, ad essere numero, oggi dato, profiloun non-individuo datificato, reificato da un algoritmo, valorizzato in termini meramente matematici e capitalistici – e il cui obiettivo “è solo lo sguardo specializzato, uno sguardo che anziché aprirsi alla pluralità del mondo lo riduce al solo spazio d’esercizio della sua competenza”[8], incessantemente formandolo e formattandolo (nel senso di dargli una forma) secondo le necessità del capitale e della tecnica.

Cos’è il potere. Forme e norme di normalizzazione

E questo perché – aprendo una parentesi – il capitalismo (con la tecnica) è un biopotere, cioè agisce cioè fin da subito della sua storia sulla e nella vita dell’uomo: dall’etica calvinista che trasforma il lavoro da mezzo per vivere in Beruf esistenziale[9], al neoliberalismo novecentesco con l’uomo che diventa capitale umano nella forma dell’impresa (imprenditore di sé stesso), vivendo di competizione e di valorizzazione solo capitalistica di sé (il proprio capitale umano, invece del conosci te stesso).

Perché il capitalismo, fin dai suoi inizi – lo ha sintetizzato bene Michel Foucault[10]“non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione e grazie a un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Ma ha richiesto di più: gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento così come la loro utilizzabilità e la loro docilità; gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza pertanto renderle più difficili da assoggettare”.

Ieri (dal XVII secolo in avanti, tra discipline e biopolitica[11]) erano lo stato e la sovrastruttura marxiana ad essere biopotere e a garantire il mantenimento e poi il rafforzamento dei rapporti di produzione e a produrre (ancora Foucault) gerarchia sociale e rapporti di dominio fino a determinare processi di egemonia, ma soprattutto “l’articolazione della crescita dei gruppi umani con l’espansione delle forze produttive”.

Ma oggi il biopotere di tecnica e capitalismo non ha più bisogno dello Stato ed è esso stesso struttura & sovrastruttura, è mezzo di produzione & mezzo di produzione dell’immaginario collettivo necessario, è esso stesso norma particolare che normalizza e legge astratta, è cioè superstruttura[12] che produce le proprie biopolitiche disciplinanti[13] e – grazie a queste – si garantisce la propria riproducibilità.

Una biopolitica disciplinante – con Foucault, ma un po’ oltre Foucault – come potere-sapere che “fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana”[14] – e sono le forme e le norme di normalizzazione/adattamento con cui il capitalismo (con la tecnica) si è tradotto in agente di produzione e poi di incessante trasformazione della vita umana, portandola ad assecondare le esigenze, ritenute prioritarie e predominanti, della rivoluzione industriale/capitalismo. Se siamo passati da una società che conservava le cose e la vita a una società che deve consumare sempre più in fretta le cose e la vita (un’altra mutazione antropologica indotta dal capitalismo), questo dipende non solo dalla natura dell’uomo come soggetto infinitamente desiderante in sé e per sé, ma dalla sua costruzione biopolitica in funzione solo dell’accrescimento incessante del profitto capitalistico (via consumismo e attivazione eteronoma di desideri di consumo) rimuovendo ogni desiderio umano di costruire invece una propria soggettività autonoma, uscendo dalla minorità/infantilizzazione prodotta dal tecno-capitalismo via feticismo tecnico e feticismo delle merci; il capitalismo cioè permette un essere se stessi solo attraverso l’avere (Erich Fromm) oppure, come oggi, attraverso un fare compulsivo e mediato e attivato dall’apparire/mettersi in vetrina.

Quindi, nessuna autonomia, nessun individuo libero, ma una continua eteronomia/eteronormazione dell’individuo, vieppiù integrato nella e dalla forma/norma organizzativa di una vita capitalistica. Nessuna soggettività, nessuna possibilità di individuazione (intesa come costruzione libera e consapevole di un sé autonomo, capace di interagire con gli altri senza perdere la propria soggettività), ma funzionalità assoluta di ciascuno e dell’insieme rispetto alle esigenze di funzionamento del tecno-capitalismo. Al quale non serve un soggetto/individuo autonomo (anche se è quello che ci fa credere di volere), ma un (s)oggetto funzionale a sé e a produttività crescente di lavoro, consumo e oggi produzione di dati. Il sogno americano, quindi; ma di nuovo trasformato in incubo.

In nome della privacy, per produrre però una minimizzazione di privacy (e una maggiorazione di narcisismo), necessaria a far introiettare a ciascuno il massimo del controllo su di sé da parte del sistema (per il massimo della propria docilità e integrazione nell’organizzazione). Perché, ancora Foucault: “Il potere è tollerabile a condizione di dissimulare una parte importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi [di potere] che riesce a nascondere”[15].

Industria culturale, società dello spettacolo, gamification/ludicizzazione, condividere in rete, e marketing e organizzazione del lavoro – sono tutti meccanismi di potere con cui il sistema tecno-capitalista riesce a dissimulare sé stesso e la sua azione biopolitica/eteronormante, illudendo di una apparente libertà e a catturare noi stessi portandoci a condividere il proprio immaginario capitalistico[16].

Perché – come riconosceva Hannah Arendt – la forza e l’essenza del totalitarismo è nell’organizzazione. E ogni organizzazione ci vuole integrati in sé, ma soprattutto partecipi esistenzialmente degli obiettivi dell’organizzazione, rinunciando ai nostri obiettivi personali. Se l’organizzazione (capitalismo) ha la possibilità di estrarre valore dalla vita dell’uomo e non solo dal suo lavoro separato dalla vita, ecco che l’organizzazione deve produrre in noi la rinuncia/rimozione della privacy.

Faulkner e l’inizio della fine dell’individuo moderno (parte seconda)

Ma torniamo a Faulkner. L’evento che lo aveva portato a riflettere sulla privacy era molto personale: “Più o meno dieci anni fa un noto critico letterario e saggista (…) mi disse che un ricco settimanale illustrato di grande diffusione gli aveva offerto parecchi soldi per scrivere un pezzo su di me – non sul mio lavoro o le mie opere, ma su di me in quanto privato cittadino, in quanto individuo. Io dissi di no e spiegai il perché: la mia convinzione [era] che soltanto le opere di uno scrittore siano a disposizione del pubblico, aperte alla discussione, allo studio e al commento, in quanto lo scrittore stesso le ha rilasciate al dominio pubblico nel momento in cui ne ha proposto la pubblicazione e in cambio ha accettato del denaro (…). …finché lo scrittore non commette un delitto o si candida a un pubblico ufficio, la sua vita privata è unicamente sua; e non soltanto egli ha il diritto di difendere la sua privacy, ma il pubblico ha il dovere di fare altrettanto in quanto la libertà di un uomo deve cessare esattamente là dove comincia quella del prossimo; e ritenevo che qualsiasi persona con un minimo di buon gusto e senso di responsabilità avrebbe convenuto con me”[17].

Ma l’amico di Faulkner rispose: “Ti sbagli. Se faccio io il pezzo, lo faccio con buon gusto e con senso di responsabilità. Ma se tu rifiuti, prima o poi lo farà qualcun altro il quale non starà a preoccuparsi del buon gusto e nemmeno del senso di responsabilità e al quale importerà di te solo come merce, come bene economico: che va venduto per aumentare la tiratura e fare un po’ di soldi”[18]. Ecco, il problema della perdita del sogno americano e della privacy è tutto qui: nell’avere trasformato la vita dell’individuo, scrittore o non scrittore che sia, in pura merce da cui trarre profitto.

Il capitalismo divora cioè l’individuo su cui dice di fondarsi, lo mette al lavoro come produttore e consumatore e ora generatore (risorsa) di dati, ma sempre trattandolo come merce (Marx docet). “La cosa terrificante” – continuava Faulkner – “(non scandalosa: non possiamo scandalizzarcene dato che ne abbiamo permessa la nascita, l’abbiamo guardata crescere, l’abbiamo avallata e convalidata e perfino usata individualmente, quando necessario, per i nostri fini privati) è che sia potuta accadere nel modo in cui è accaduta”. E mentre il cattivo gusto “è stato convertito in un bene commerciabile” ed esposto alla pressione delle lobby commerciali “che nello stesso tempo creano il mercato” del cattivo gusto “e il prodotto per soddisfarlo”, ormai in America, in nome della libertà di stampa e di impresa, “chiunque può postulare a proprio favore la completa immunità riguardo alla violazione dell’individualità” e della privacy individuale, “senza la quale l’individuo non può più essere tale e senza la quale individualità egli non è più nulla che valga la pena essere o continuare a essere”[19]. Riducendo l’individuo “ad un ennesimo numero senza identità, in quell’anonima massa priva di identità e di privacy che sembra costituire il nostro obbiettivo finale”[20], appunto la massa dell’individuo massa, che si comporta secondo la massa, pur restando separato dagli altri (Anders[21]).

Ma la malattia, continuava Faulkner “risale a molto addietro. (…) al momento della nostra storia in cui decidemmo che le antiche, semplici verità morali sottoposte all’arbitrato e al controllo del buon gusto e del senso di responsabilità erano diventate obsolete e andavano buttate a mare; (…) al momento in cui ripudiammo il significato che i nostri padri avevano stabilito per la parola libertà; (…) al momento in cui sostituimmo alla libertà la licenza. (…). In quell’istante anche la verità scomparve. Non fummo noi ad abolire la verità. (…) Semplicemente ci lasciò”[22].

E quell’America che un tempo “era l’empireo dei diritti civili”, oggi è divenuta una grande cappa di piombo (parlando di capitalismo, anni prima Max Weber aveva usato la metafora della gabbia d’acciaio), il cui scopo è quello di distruggere “l’individualità dell’uomo in quanto uomo grazie alla distruzione delle ultime vestigia di quella privacy senza la quale l’uomo non può essere un individuo”[23].

Ed è dall’architettura che, secondo Faulkner, bisognava partire (ricordando che oggi l’architettura della società e il luogo dove vivere, è la rete): “Un tempo, attraverso i muri delle nostre case non si poteva vedere, né da dentro né da fuori. Oggi, attraverso i muri, si può vedere fuori, ma non ancora dentro. Presto potremo fare entrambe le cose. Allora la privacy sarà davvero scomparsa; chi è abbastanza individuo da esigerla anche soltanto per cambiarsi la camicia o per fare il bagno, verrà bollato da un’unica, universale voce americana come sovversivo del sistema di vita americano e della bandiera americana” – ed è appunto e purtroppo ciò che si è realizzato dopo appena mezzo secolo, confermato da Mark Zuckerberg e dai poteri forti della rete (l’unica, ormai universale voce americana, che dice sovversivo del sistema di vita tecno-capitalista chiunque rivendichi ancora la privacy per sé e la democratizzazione della tecnica[24]), per i quali ormai la privacy è appunto cosa del passato e nessuno deve vivere come problema l’essere diventato assolutamente trasparente davanti a un potere tecnico e capitalista (assolutamente opaco e non trasparente), che appunto non solo lo spoglia dei suoi vestiti o lo vuole vedere mentre si cambia di camicia e fa il bagno, ma lo spoglia anche del proprio Sé, della propria intimità/soggettività e vita di relazione – altrimenti non potrebbe estrarre per sé come tecno-capitalismo quel valore generato dai dati che ciascuno è indotto (eteronomia, biopolitica, società amministrata) a produrre attraverso la sua socialità via rete.

Ovvero e ancora una volta, il sistema produce il tipo di uomo di cui ha bisogno (Adorno), per continuamente riprodursi e accrescersi: oggi un uomo privo di individualità ma molto individualista, solipsista ma incapace di costruire la propria individuazione, assolutamente trasparente (un uomo di vetro) come è nel desiderio di ogni totalitarismo, dal nazismo al tecno-capitalismo.

La matematizzazione dell’individuo e l’uguaglianza degli zeri

Diventare numeri/dati, da individui che si era. Esito inevitabile di un sistema basato su una presuntuosa razionalità calcolante ma in realtà assolutamente disumanizzante. Paradossalmente, il capitalismo (e non il comunismo) e la tecnica realizzano il massimo dell’uguaglianza tra gli uomini ma lo fanno mediante l’azzeramento della loro soggettività (e quindi anche dell’uguaglianza). È l’uguaglianza falsa degli uomini azzerati e reificati in numeri/dati. È il portare a niente anche l’uomo. È nichilismo, è alienazione per azzeramento dell’individuo come soggetto, è il suo dover divenire altro da sé ma annullandosi totalmente in un numero/dato, divenendo appunto uno zero/uno come individuo/soggetto, ma ad alto valore economico (la sua produzione massiva – appunto: pluslavoro – di dati, da cui poi estrarre plusvalore per il capitale).

E oggi – con la trasparenza di noi stessi attraverso la nostra produzione di dati a profitto del capitale (il lavoro di produzione di dati nel capitalismo delle piattaforme/fabbrica-rete) – siamo oltre la vetrinizzazione di sé, oltre il mettersi in vetrina (anche e soprattutto in rete) di cui aveva parlato Vanni Codeluppi. Anche se ne è una conseguenza inevitabile, poiché se mi metto in vetrina per farmi comprare (prostituzione del corpo), ne discenderà che metterò poi sul mercato, senza problemi (senza ribellarmi alla violazione della mia privacy più intima), anche la mia vita psichica e sociale (prostituzione dell’anima).

Perché, se vetrinizzarsi (Codeluppi) “non è un semplice mostrarsi – che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé, di difendere la propria dimensione interiore” – ma è l’individuo “che si espone allo sguardo dell’altro e non può sottrarsi a tale sguardo. Tutto deve essere esposto e non è possibile lasciare nascosti sentimenti, emozioni o desideri”, divenendo “un obbligo sociale che non può essere evitato”[25], allora il cedere i propri dati è molto di più e molto di peggio, anche se è diventato anch’esso un obbligo sociale (il nostro dover condividere). È sempre mercificazione di sé, questa volta in cambio di una apparenza di gratuità delle nostre navigazioni in rete (ma in rete, nulla è gratis, come ricordava Ippolita, perché il prezzo siamo noi) e lo sarebbe anche in caso di retribuzione in qualche forma di questo lavoro – e quindi è alienazione di sé, da sé, dalla privacy, cioè dalla propria intimità, di ciò che un tempo consideravamo appunto come la parte più preziosa e privata di noi, è la reificazione e insieme l’azzeramento totale di sé proprio perché individuo-non-più-individuo.

E se una volta, prima della rete iper-capitalista, le informazioni “venivano scambiate unicamente tra individui che si osservavano reciprocamente in modo diretto e ravvicinato”scambiate quindi non come merce, ma come via per la costruzione di relazioni sociali, oggi la tecnica ha appunto abolito (ben oltre l’architettura di Faulkner vista sopra) ogni distinzione tra privato e pubblico, o tra scena e retroscena secondo Erving Goffman[26] richiamato da Codeluppi. Ma poi ha fatto molto di più: ha fuso/ibridato l’io individuale (che resta isolato dagli altri, solo davanti al suo pc o al suo smartphone) nel noi organizzativo/organizzante/integrante dell’apparato tecnico, della rete-social (replicandosi sempre la legge ferrea del tecno-capitalismo, prima isolare/individualizzare per poi meglio integrare/totalizzare ciascuno nell’organizzazione); e poi ha completato l’opera di modificazione antropologica dell’uomo trasformandolo in merce/risorsa dopo averlo prodotto come produttore e poi come consumatore (dalla società dei produttori alla società dei consumatori, secondo Bauman; e oggi alla società degli innovatori[27] o del lavoro in forma di folla/sciame secondo Byung-Chul Han).

Al capitalismo e alla tecnica – totalitarie per vocazione – serve un uomo funzionale, un uomo integrabile al massimo della sua auto-alienazione/docilità, un uomo omogeneo e congruo con le esigenze del capitale – come visto sopra con Foucault o rifacendoci alla Teoria critica della Scuola di Francoforte. Vetrinizzarsi era importante ma ancora insufficiente, l’uomo doveva diventare tecno-capitalista in tutta la sua essenza interiore, non bastava la sua esteriorità (il corpo in vetrina e ciò che esso rappresentava agli altri); serviva anche la possibilità di sfruttare per sé la sua interiorità, appunto la sua vita intera. La sua totale e totalitaria sussunzione nel capitale e nell’apparato tecnico, identificandosi con l’apparato e il capitale.

Un obiettivo facile da ottenere, dopo la lunga azione di modificazione antropologica svolta sull’uomo e sulla società, per più di due secoli, dal tecno-capitalismo: dopo averlo costruito biopoliticamente come produttore, consumatore e come merce che si deve mettere in vetrina, facendogli accettare la rinuncia alla privacy e lo sguardo/spionaggio sul suo corpo (e facendogli credere che, se è spiato è perché è importante, autentico, e soprattutto ha valore; ma anche, che non è solo se gli altri lo guardano[28]), è stato un gioco da ragazzi denudarlo anche della sua interiorità e metterlo al lavoro come produttore/lavoratore-risorsa di dati.

La retribuzione non è la soluzione

Non è quindi – di nuovo – retribuendo questo lavoro che si elimina lo sfruttamento integrale dell’uomo (semmai, lo si legittima) o si cancella la sua alienazione anche in questo lavoro capitalistico di produzione di dati (semmai la si maschera meglio). Piuttosto occorre vietarlo come un tempo si era vietato il lavoro dei bambini e si era vietato lo schiavismo esplicito.

La sfida implicita nel restiamo umani è evitare appunto la totale sussunzione dell’uomo nel tecno-capitalismo. Recuperando invece e a contrario una vera libertà dell’individuo, smascherando quella falsa libertà prodotta dal sistema ma utile – come i falsi bisogni di Marcuse per creare l’uomo a una dimensione – al sistema per legittimarsi e replicarsi all’infinito. Ritrovando quindi un uomo capace di essere individuo, cioè un io che difende la sua privacy dallo sguardo interessato e sfruttatore del capitale e della tecnica (perché sorveglianza e controllo sono parte integrante da sempre dell’organizzazione totalitaria tecno-capitalista e il capitalismo della sorveglianza odierno secondo Shoshana Zuboff è solo l’ultima esasperazione di una lunga storia[29]); e che poi, in quanto io autonomo e consapevole di sé possa costruire una società umana (un noi collettivo e democratico, senza il quale l’io non esiste) e non una società in forma e secondo le norme di mercato o della tecnica. Resistendo cioè alla tentazione del tecno-capitalismo di sovrapporre (Anders) le forme (ma anche le norme) tecniche e di mercato alle forme/norme umane e sociali.

Il neoliberalismo contro l’individuo

Resistendo quindi anche alla uccisione dell’individuo da parte di un falso individualismo tecnico e neoliberale. Il concetto di privacy[30] nasce infatti con l’idea moderna di individuo, nasce con l’illuminismo e con il liberalismo (ma anche Marx era molto interessato all’individuo). Ma non è un effetto della privatizzazione e della chiusura dell’io dal mondo, semmai è la autonomizzazione dell’io da un noi oppressivo degli stati, delle chiese, delle comunità premoderne. Non è un effetto – anche se qualcuno lo pensa – della recinzione dell’io così come avvenuto con la recinzione delle terre comuni in Inghilterra (le famose enclosures), che avevano permesso di creare quel proletariato e quell’uomo forza-lavoro necessari alla nascente rivoluzione industriale. Il concetto liberale di proprietà privata non ha nulla a che fare con la privacy dell’individuo, perché non è una sua proprietà, ma la premessa per il suo essere individuo libero. Ne è la condizione, come aveva appunto scritto Faulkner.

La privacy, scriveva a sua volta Lewis Mumford, era stata, nel periodo medievale, “privilegio esclusivo dei solitari, di quelle sante persone che cercavano di sfuggire ai peccati e alle distrazioni del mondo esterno, per il resto potevano aspirarvi solo i grandi signori. Nel Seicento essa si identificò [invece] con il pieno appagamento dell’io individuale”[31], per svilupparsi poi ancora di più con l’idea illuministica di un individuo autonomo (con Kant che distingueva appunto tra autonomia ed eteronomia, che voleva un individuo capace di servirsi della sua propria intelligenza, senza essere guidato da altri – altri che oggi sono il mercato, la tecnica, i social, gli algoritmi, i guru della Silicon Valley). Un individuo capace di fare della sua vita una costruzione propria, anche se non solitaria, perché l’uomo era individuo ma diventava anche, proprio perché uomo/individuo, cittadino. E se è vero che il concetto di privacy è un concetto soprattutto borghese e liberale, virtuosamente separando sfera privata da sfera pubblica (la borghesia dell’Ottocento “ha saputo erigere un muro intorno alla propria intimità domestica. Viveva in modo confortevole e possedeva patrimoni. Le sale di ricevimento erano separate dal rifugio della famiglia. Dietro la porta d’ingresso era situata l’anticamera, dove venivano selezionati e trattenuti gli ospiti. Chi non era invitato non andava oltre”[32] – mentre le case avevano persiane per evitare che dall’esterno si guardasse dentro), occorre riconoscere in questo uno dei (pochi) meriti (di civilizzazione[33]) della borghesia. Senza dimenticare che questo stile divenne poi progressivamente stile di vita anche della piccola borghesia e dei ceti medi, almeno in apparenza.

Oggi il sistema ha rovesciato tutto. Tutti abbiamo messo in vetrina noi stessi, tutti abbiamo accettato di essere sorvegliati in massa (sedotti dal nostro poter sorvegliare gli altri a nostra volta, il sistema sfruttando – potenziandola n volte a fini di profitto – la tentazione umana di stare con gli altri e di sapere di loro anche oltre il buon gusto), tutti abbiamo cancellato la separazione tra sfera privata e sfera pubblica (il fine – ancora – di ogni società totalitaria e di ogni organizzazione). Ma è evidente che producendo zero privacy si hanno anche zero individui e zero cittadini. Ma anche il massimo di egoismo, di egolatria, di narcisismo, di irresponsabilità – e di integrazione/sussunzione.

Uccidere l’individuo e la sua privacy era stato fin da subito – come si è cercato di dimostrare – l’obiettivo del capitalismo e della tecnica come apparato/sistema. Perché se l’individuo neoliberale di oggi è un non-individuo, posto che deve adattarsi incessantemente alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro (che oggi si ha anche nel lavoro di produzione di dati, ciascuno lavoratore/produttore separato dagli altri ma connesso appunto con gli altri nello sciame della fabbrica-rete), analogamente lo era l’uomo prodotto dal capitalismo liberale fin dai suoi inizi (supra, ancora Foucault e le discipline e le biopolitiche; e poi la società amministrata secondo i francofortesi). Dalla Sezione sociologica di Ford del 1914 al paternalismo imprenditoriale fino alla psicologia del lavoro – è sempre stato un crescendo di tecnologie di dominio e di meccanismi di cattura della psiche dell’uomo, fino a voler oggi gestire e controllare e mettere a profitto tutti i dati della sua vita – con la speranza di governare/amministrare l’uomo e la società con un semplice algoritmo predittivo/machine learning e un globale IoT.

La difesa della privacy – e quindi della libertà dell’individuo ma anche di un noi sociale consapevole di sé e delle sue capacità e possibilità di creare e di immaginare – passa quindi attraverso la nostra volontà di dissentire rispetto alla biopolitica o alla società amministrata tecno-capitalista, evitando almeno di essere ancor più sussunti/integrati/identificati e prodotti solo secondo le forme e le norme del sistema.

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  1. L. Demichelis (2018), La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano
  2. F. Merlini (2019), L’estetica triste. Seduzione e ipocrisia dell’innovazione, Bollati Boringhieri, Torino
  3. Sorvegliati e contenti: così i social hanno realizzato la forma di controllo perfetta
  4. L. Demichelis (2019), cit.
  5. W. Faulkner (2003), Privacy, Adelphi, Milano, pag. 11
  6. Ivi, pag. 12
  7. Ivi, pag. 17
  8. F. Merlini (2019), L’estetica triste, cit. pag. 91
  9. M. Weber (1977), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze
  10. M. Foucault (2001), La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, pag. 124
  11. M. Foucault (2011), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino; Id. (2005), Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano; Id., (2005), Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano
  12. L. Demichelis (2015), La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis, Milano, pag. 80
  13. L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit., pag. 20 e segg.
  14. M. Foucault (2001), La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, pag. 126
  15. Ivi, pag. 77
  16. P. Bartolini–S. Consigliere (2019), Strumenti di cattura. Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista, Jaca Book, Milano
  17. W. Faulkner (2003), Privacy, cit., pag. 19
  18. Ibid
  19. Ivi, pag. 25 e 26
  20. Ivi, pag. 29
  21. G. Anders (2003), L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino
  22. W. Faulkner (2003), Privacy, cit., pag. 19
  23. Ivi, pag. 32
  24. L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit.
  25. V. Codeluppi (2012), Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Roma-Bari, pag. 93
  26. E. Goffman (2011), La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna
  27. L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit. pag. 29 e segg.
  28. V. Codeluppi (2012), Ipermondo, cit. pag. 96
  29. https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/sorvegliati-e-contenti-cosi-cosi-i-social-hanno-realizzato-la-forma-di-controllo-perfetta/
  30. In proposito è sempre fondamentale: S. Rodotà (2005), Intervista su privacy e libertà, Laterza, Roma-Bari
  31. L. Mumford (1996), La città nella storia, III° vol., Bompiani, Milano, pag. 481
  32. W. Sofsky (2007), In difesa del privato, Einaudi, Torino, pag. 79
  33. Cfr., N. Elias (1998), La civiltà delle buone maniere, il Mulino, Bologna

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