Una donna, ripresa in un video musicale mentre era in pubblico con l’amante, ha chiesto ed ottenuto il risarcimento danni per violazione della sua riservatezza.
Sono rare le sentenze di questo tipo, quindi, è molto opportuno fornirne una dettagliata analisi per estrapolarne i principi generali.
I fatti
Prima i fatti: una casa di produzione gira un video a un noto cantante nel centro di Napoli.
In queste riprese, alle spalle della celebrità, compare una signora in atteggiamenti intimi con uomo che non era suo marito e con il quale aveva una relazione sentimentale clandestina, senza che nessuno le avesse chiesto il previo consenso a divulgare la propria immagine.
La donna fa quindi causa alla casa produttrice (la Sony) e, in primo grado, esce sconfitta in quanto, secondo il giudice di prime cure, il consenso della donna deve presumersi come tacito se non addirittura superfluo ai sensi dell’art. 97 della legge sul diritto d’autore trattandosi di registrazione “in occasione di eventi svoltisi in pubblico”.
Riservatezza e diritto d’immagine
Sin da subito possiamo rilevare come manchi del tutto una menzione del GDPR, essendo la causa stata inquadrata come mera violazione del diritto d’immagine della signora.
Questo in effetti non stupisce in quanto, molto spesso, capita che il diritto d’immagine venga in qualche modo confuso e sostituito ai diritti di cui al Regolamento europeo. Il motivo è da ricercare, ancora una volta, nella bassissima cultura privacy italiana nonché nel fatto che diritto alla riservatezza e diritto all’immagine si sovrappongono e si mischiano in alcune situazioni.
L’utilizzo di un’immagine è del resto anche l’utilizzo di un dato personale, e gli obblighi di informativa e consenso sono simili in entrambe le situazioni, motivo per cui non è sempre semplice operare una corretta distinzione.
Non è quindi un caso se, come vedremo, una causa avente ad oggetto il diritto all’immagine, sia diventata una causa avente ad oggetto la violazione di riservatezza di una persona.
In tal senso la Corte d’Appello, nel secondo grado di giudizio ha evidenziato che il giudice di primo grado aveva erroneamente escluso “una lesione ai diritti di riservatezza e alla reputazione lamentati dall’attrice” in ragione della configurabilità di un suo consenso tacito e della “riconducibilità della fattispecie alla L. n. 633 del 1941”, poiché per il combinato dell’art. 10 c.c. e art. 97 della Legge sul Diritto d’Autore “la divulgazione dell’immagine altrui è abusiva (non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona, ma anche) senza il concorso delle circostanze” legalmente idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza – notorietà, necessità di giustizia o polizia, scopi scientifici, didattici o culturali, collegamento a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico circostanze tutte da escludersi, compresa l’ultima, “posta la finalità esclusivamente commerciale della pubblicazione e comunque permanendo il divieto di esposizione dell’altrui immagine, in difetto di consenso“, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritrattata.
Si noti sul punto che il secondo comma dell’art 97 della Legge sul Diritto d’Autore non cita la riservatezza tra i limiti della divulgazione delle immagini in presenza di consenso.
L’art 97 recita infatti: “Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata.”
Onore, reputazione e decoro. Nessuna menzione della riservatezza. Non è un caso. La Legge sul Diritto d’Autore, del resto non riguarda questo ambito il quale, come noto, è disciplinato compiutamente dal Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati.
Ciononostante, la Corte d’Appello ha ritenuto di poter fornire una estensione interpretativa di tale norma venendo a comprendere anche una sorta di tutela della riservatezza.
Consenso implicito
La Corte di secondo grado ha quindi escluso la configurabilità di un consenso tacito, non potendosi parlare di un evento pubblico e non rinvenendosi in atti la presenza di una preparazione scenografica o della allocazione di mezzi di ripresa che lasciavano chiaramente individuare il campo delle riprese e la finalità del video. Non solo, pur ritenendo verosimile che l’attrice si fosse accorta di essere stata inquadrata, per avere soffermato lo sguardo verso lo strumento di ripresa per alcuni istanti, la Corte d’Appello ha ritenuto che da tale sguardo non potesse desumersi il suo tacito consenso alla ripresa, né, soprattutto, alla divulgazione della sua immagine a tal fine occorrendo una piena consapevolezza.
Da ciò ne deriva che, in ogni caso, non si può parlare di evento pubblico per il solo fatto che ci sia una telecamera in luogo pubblico, dovendosi desumere tale elemento da una serie di circostanze. SI tratta in tal senso di una impostazione condivisibile. Un evento pubblico è un evento come, ad esempio, un festival musicale, una maratona, ma non un cantante che gira per le strade ripreso da una telecamera. Quello non è un evento pubblico, bensì una mera ripresa di un videoclip. Non agisce quindi l’eccezione al consenso obbligatorio che ritroviamo nell’art 97 l.d.a. comma 1 in cui si afferma “Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”.
Competenza della sezione speciale
Uno degli elementi attorno a cui ruota il giudizio è il fatto che il Tribunale di Benevento, in primo grado, non abbia riconosciuto la competenza delle sezioni speciali in quanto non trattasi di diritto di immagine bensì di diritto di riservatezza.
Torniamo quindi al problema principale: se la causa ha avuto ad oggetto un diritto diverso da quello previsto nel 97 l.d.a., perché nessuno, in tre gradi di giudizio ha mai nemmeno menzionato il GDPR o il suo predecessore Codice Privacy? La risposta è semplice e l’abbiamo già fornita.
Assistiamo così a ragionamenti giuridici molto complessi che compiono iperbole e opere di interpretazione, il tutto solo per estendere l’art. 97 così da tutelare anche la riservatezza della donna, come se non esistesse una norma in tal senso. Come se il GDPR (o il Codice Privacy, già emanato nel corso del primo grado di giudizio) fosse totalmente estraneo a chi ha giudicato il caso in esame.
Si legge nella sentenza: “il diritto leso non è, a ben vedere, l’immagine in sé, bensì la riservatezza dell’odierna controricorrente. Invero, al di là della formulazione letterale delle difese dell’attrice – laddove si fa riferimento alla astratta possibilità di trarre un utile economico da un ipotetico consenso, il cui rilascio si porrebbe però in frontale e perciò illogico contrasto con il pregiudizio effettivamente lamentato oggetto del presente giudizio non è lo sfruttamento economico della sua immagine (criterio utilizzato dalla Corte territoriale ai fini della quantificazione, peraltro non dovuta, del danno patrimoniale), nè tantomeno la contestazione dell’altrui diritto di autore, ma il risarcimento del danno derivatole dalla diffusione non autorizzata della propria immagine”.
Da qui emerge come, il legale della donna abbia in realtà correttamente inquadrato la vicenda, limitandosi alla richiesta di danni all’immagine, mentre le Corti abbiano voluto portare la questione su una strada totalmente estranea andando a parlare di riservatezza.
Perché è a parere di chi scrive importante questo passaggio?
Il motivo è semplice. L’intera sentenza si basa difatti sul concetto di consenso inteso come il consenso previsto nella Legge sul Diritto d’Autore, tuttavia, come ormai sanno anche i sassi, parlando di riservatezza e di GDPR, il consenso non è l’unica base giuridica utilizzabile.
Da qui la domanda principe: se, come dice la Cassazione, il vero oggetto della causa non è l’immagine ma la riservatezza, la Sony avrebbe potuto trattare il dato immagine in forza di altre basi giuridiche?
Non solo, anche qualora il consenso fosse la base giuridica utilizzabile, chi ha deciso la causa sapeva che, in materia di consenso privacy, tracciano i caratteri necessari di una simile espressione di volontà?
SI tratta di domande lecite in quanto, ancora una volta la riservatezza è stata trattata in modo spannometrico senza nemmeno inquadrare correttamente il fatto applicando le norme corrette.
Conclusioni
Insomma, come se il consenso all’immagine fosse equiparabile al consenso privacy. Certi discorsi sono a parere di chi scrive accettabili dall’uomo della strada, ma non da chi dovrebbe essere il più alto conoscitore delle norme di un ordinamento giuridico.
Con questo, sia chiaro, non si dice che l’esito della causa doveva necessariamente essere diverso. Ci si limita ad evidenziare che sono diversi gli errori giuridici ivi rinvenibili, circostanza dalla quale si desume ancora una volta la poca conoscenza della norma di settore da parte della magistratura. Forse il risultato finale è simile a quello che si sarebbe ottenuto applicando le norme del Codice Privacy prima e del GDPR poi, ma il dubbio è che ciò sia avvenuto per un puro caso.