la giurisprudenza

Il valore probatorio dei contenuti social: così i nostri post vanno a processo

La prova estrapolata dai social ha la stessa dignità formale delle classiche prove documentali; spetterà al giudice, caso per caso, stabilirne la rilevanza, la pertinenza e la verosimiglianza. Occhio, quindi: ciò che postate sui social potrà essere usato contro di voi (con le dovute tutele del Gdpr)

Pubblicato il 22 Gen 2020

Stefano Saglimbeni

Avvocato, presso studio legale Pacchiodo & Associati in Torino

Giustizia digitale

La rete è ormai il luogo immateriale nel quale gli utenti disseminano, il più delle volte inconsapevolmente, (anche) evidenze di tipo probatorio potenzialmente utilizzabili a loro danno in sede processuale, arrivando a commettere, in una casistica sempre crescente, veri e propri atti illeciti se non addirittura reati.

In particolare, lo sviluppo dei social network ha condotto ad una esponenziale condivisione di contenuti concernenti opinioni personali e fatti storici della vita: informazioni spesso tali da incidere sulla realtà giuridica oggettiva e/o soggettiva della persona interessata.

Il giurista, pertanto, non può ignorare la quantità e la qualità delle informazioni provenienti dai social network, risultando le stesse, spesso e volentieri, potenzialmente dirimenti in ordine alla soluzione di una controversia.

Si pensi, ad esempio, alla condivisione su Facebook o su Twitter di un’opinione personale del dipendente diffamatoria o comunque gravemente lesiva dell’immagine della propria azienda piuttosto che alla pubblicazione su Instagram di una fotografia sulle piste da sci ritraente il dipendente assente da lavoro per asseriti motivi di salute.

Commissione di atti illeciti sul web, la giurisprudenza

Con particolare riferimento alla commissione di atti illeciti sul web, la giurisprudenza di legittimità conferma giustappunto l’irrilevanza del mezzo (sia esso una pubblicazione stampata su carta o la “rete”) non potendo la diversa natura del canale rendere lecito o meno un contenuto intrinsecamente antigiuridico. (Cass. pen., Sez. V, 29 luglio 2010, n. 30065 – sul reato di diffamazione -).

D’altro canto, a quanto pare, la stessa Agenzia delle Entrate si avvale, tra i vari strumenti a propria disposizione, della rete di internet al fine di reperire un quadro indiziario quantomeno indicativo in ordine alle reali condizioni economiche dei contribuenti. Resta in questo caso salva, va da sé, l’esigenza di necessari ulteriori accertamenti, peraltro doversi alla luce di un diffuso e patologico utilizzo dei social spesso mirato ad una rappresentazione virtuale amplificata rispetto ad una realtà effettiva talora più modesta.

Con riferimento al processo civile – incluso il rito del lavoro – tale tipologia di prova, ovviamente introdotta con allegazione di parte, viene materialmente prodotta attraverso il supporto fotografico dell’immagine impressa sul monitor/display ovvero tramite screenshot (estrapolazione della schermata video). Naturalmente, possono essere altresì introdotti in giudizio supporti video, allo stato dell’arte del processo telematico solo attraverso supporti esterni (CD e chiavi USB).

Trattandosi di vere e proprie immagini, non vi è dubbio che si tratti di prove documentali tipiche (espressamente previste e “nominate” dalla legge) riscontrabili nell’elenco di cui all’art. 2712 c.c. quali riproduzioni o rappresentazioni su supporto cartaceo o informatico di fatti e di cose.

In ragione di ciò, la produzione delle stesse soggiace alle medesime preclusioni e decadenze legate alle comuni produzioni documentali (termini delle memorie istruttorie ex art. 183, VI comma cpc) e si espone alle normali eccezioni processuali e sostanziali della controparte (art. 115 cpc: “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”).

La parte contro la quale è allegata la prova proveniente dai social network, al fine di eliderne l’efficacia e la prerogativa istruttoria, ha dunque l’onere di contestarla immediatamente, nel primo atto processuale utile, attraverso rilievi specifici, motivati e verosimili; non è dunque sufficiente una mera contestazione generica.

Ad esempio, in caso di contenuto manomesso (ad esempio una foto manipolata), sarà opportuno addivenire alla produzione della versione originale dell’elemento mentre, in caso di essenzialità della data e dell’ora della produzione, laddove non sia possibile allegare l’incertezza sulle stesse in quanto, magari, indicate specificamente nell’immagine stessa, sarà opportuno provare la riconducibilità del contenuto ad un tempo diverso da quello affermato dalla controparte (si pensi ad una fotografia condivisa su un profilo social in un momento successivo alla data dello scatto). Ancora, in caso di disconoscimento dell’elemento offerto come prova, sarà opportuno fornire indicazioni verosimili sul possibile intervento di terzi (si pensi ad un commento effettuato da un terzo non titolare del profilo ma in possesso delle credenziali di accesso).

A fronte della contestazione specifica, va da sé, al fine di conservare la portata istruttoria del mezzo, potrà rendersi necessario il supporto della prova testimoniale, attraverso l’escussione dell’autore del contenuto o, magari, di un terzo citato o rappresentato nello stesso.

Sul piano processuale, in sintesi, la prova proveniente dai social ha dunque la stessa dignità formale delle classiche prove documentali; spetterà al giudice, caso per caso, la valutazione concreta sulla stessa ai fini di stabilirne la rilevanza, la pertinenza e la verosimiglianza sia con riferimento alla prova dei fatti sia alla decisione stessa.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, nella sentenza 5 dicembre 2017 – 13 marzo 2018, n. 6047 ha riconosciuto la legittimità del licenziamento ai danni del lavoratore, dichiaratosi sofferente di lombosciatalgia, anche sulla base di “una foto sul profilo facebook che evidenziava che il lavoratore suonava la fisarmonica in piedi”.

Il secondo profilo di interesse del tema concerne il diritto alla Privacy.

L’affermarsi dei social network come normali strumenti di comunicazione nella vita quotidiana ha rivoluzionato l’originario concetto di privacy, un tempo sostanzialmente orientato al principio di riservatezza. Attraverso tali canali l’utente si produce, infatti, in una costante e volontaria condivisione, talvolta pubblica talvolta circoscritta ad una limitata cerchia, di opinioni, esperienze e dati di carattere personale in merito ai quali si ritiene, correttamente, venire meno l’esigenza di protezione della riservatezza.

D’altro canto, il grado di visibilità e pubblicità dei contenuti condivisi dall’utilizzatore attraverso i propri profili social è conseguenza diretta delle scelte da questi operate nell’ambito delle impostazioni privacy offerte dal portale: sicché, pubblicando sul profilo personale foto, video, informazioni, altri contenuti multimediali, si acconsente che tali contenuti possano addivenire a conoscenza di terzi e dunque utilizzabili in sede giudiziaria.

Sul punto, vi è l’intervento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (decreto 13.6.2013), anche in merito all’interessante distinzione tra la produzione di chat private e contenuti tratti dai social: “Le fotografie e le informazioni pubblicate sul profilo personale del social network “Facebook” sono utilizzabili come prove documentali nei giudizi di separazione. Infatti, a differenza delle informazioni contenute nei messaggi scambiati utilizzando il servizio di messaggistica (o di chat) fornito dal social network, che vanno assimilate a forme di corrispondenza privata, e come tali devono ricevere la massima tutela sotto il profilo della loro divulgazione, quelle pubblicate sul proprio profilo personale, proprio in quanto già dì per sé destinate ad essere conosciute da soggetti terzi, sebbene rientranti nell’ambito della cerchia delle c.d. “amicizie” del social network, non possono ritenersi assistite da tale protezione, dovendo, al contrario, essere considerate alla stregua di informazioni conoscibili da terzi”.

Le produzioni documentali relative a contenuti tratti dai social network debbono dunque ritenersi astrattamente lecite anche sotto il profilo privacy e dunque ammissibili in giudizio.

D’altro canto, lo stesso art. 21 del Regolamento UE 679 del 2016 (GDPR), nell’ipotesi in cui vi sia esigenza di difendere un diritto in sede giudiziaria, postula la prevalenza del diritto di difesa ripetto al diritto di opposizione al trattamento dei propri dati personali, riconosciuto all’interesssato. Di tale avviso anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite (Sentenza n. 3034/2011) la quale considera il diritto di difesa speciale rispetto al diritto alla riservatezza.

La tutela della privacy

Svolta tale doverosa premessa, risultando la produzione di contenuti tratti dai social un vero e proprio trattamento di dati personali, è il caso di esaminare le modalità necessarie ai fini di una pratica corretta sotto il profilo delle tutele privacy, posto peraltro che, come ritenuto da molti, la parte processuale che introduce in giudizio dati personali di terzi è considerata responsabile del trattamento degli stessi – opinione, ad avviso dello scrivente, criticabile.

Si applicano, in merito a ciò, i principi generali del GDPR, per effetto dei quali le produzioni dovranno essere veritiere, esatte, reali e complete, non dunque frutto di manipolazione o di una riproduzione parziale ad esclusivo vantaggio della parte che se ne avvale.

Segue il fondamentale principio della “minimizzazione” del trattamento: le risultanze prodotte in giudizio dovranno essere apportate nella misura minima necessaria, essere pertinenti e commisurate al diritto invocato; sono dunque da evitare produzioni di dati personali irrilevanti e/o sovrabbondanti rispetto all’oggetto del giudizio.

In tale ottica è consigliabile evitare fotografie, laddove irrilevanti, ritraenti minori o terzi non di interesse ai fini del giudizio, magari limitandosi ad oscurarne il volto o il nominativo laddove trascritto.

In ultima analisi, la difesa in giudizio tramite produzione di dati personali ricavati dai social network impone il rispetto dei doveri di pertinenza, rilevanza, misura e correttezza da valutarsi sulla base di un costante bilanciamento di prevalenza tra l’esigenza difensiva e l’interesse alla riservatezza.

La violazione di tali principi può comportare l’inammissibilità del mezzo in ragione della violazione di norme imperative (prova illecita) nonché l’applicazione delle sanzioni previste dalla normativa per la tutela dei dati personali a carico della parte che se ne è avvalsa.

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