Raccomandazioni e paletti

La social media policy aziendale ai tempi del coronavirus: cosa c’è da sapere

In questo momento di emergenza, le aziende dovrebbero integrare le loro social media policy soprattutto in vista del momento in cui si tornerà a lavorare negli uffici e nelle fabbriche, nonché chiarire ai dipendenti i limiti e le condizioni per essere brand ambassador

Pubblicato il 21 Apr 2020

Diego Fulco

Direttore Scientifico Istituto Italiano per la privacy e la valorizzazione dei dati

social smartphone

Negli ultimi anni, molte aziende si sono dotate di una social media policy volta a promuovere un uso responsabile dei canali social da parte dei propri dipendenti. Di solito, la policy si concentra sulla corretta gestione di profili “professionali” in LinkedIn e Twitter. Spesso, però, è arricchita da raccomandazioni per un uso appropriato dei riferimenti all’azienda nei profili “privati” in Facebook, WhatsApp, Instagram e simili.

Tuttavia, poiché non possiamo astrarci dal momento che stiamo vivendo, segnato dall’emergenza coronavirus, proviamo a vedere in che modo un’azienda possa e/o debba integrare la sua social media policy, soprattutto in vista del momento in cui si tornerà a lavorare negli uffici e nelle fabbriche.

La social media policy, in generale

I contenuti più frequenti di queste social media policy sono l’invito a un comportamento pubblico rispettoso nei confronti dell’azienda, la precisazione che nessun dipendente può esprimersi in nome dell’azienda se non è titolato a farlo, la raccomandazione di non divulgare informazioni aziendali riservate, l’obbligo di rispettare la privacy dei colleghi astenendosi dalla condivisione di informazioni e di immagini che li riguardano senza averli avvisati o senza tenere conto di una loro eventuale ritrosia o contrarietà.

Per aiutare i dipendenti a comprendere che l’uso dei social può avere implicazioni legali, di solito nelle social media policy si rimarca che:

  • i contenuti pubblicati in rete e sui social hanno un arco di vita potenzialmente illimitato, oltre a essere accessibili ovunque (ciò che viene pubblicato, difficilmente potrà essere cancellato);
  • l’uso scorretto dei canali social aziendali può danneggiare anche gravemente la reputazione dell’azienda e, di conseguenza, delle figure professionali che vi lavorano; può esporre a sospensioni o cancellazioni del profilo; può esporre anche a danni diretti, come sanzioni per violazione delle norme sulla protezione dei dati personali, o a richieste di risarcimento, ad esempio nel caso vengano pubblicati contenuti lesivi del diritto d’autore o della proprietà intellettuale di terzi.

La social media policy, in tempo di coronavirus

Anzitutto, sarà importante consigliare ai dipendenti prudenza quando pubblicheranno sui social informazioni riferite alla presenza o allo stato di salute di altre persone (es. colleghi). Occorre chiarire che – mettendo a disposizione queste informazioni – potrebbero violare la loro privacy, oppure anche involontariamente ledere il loro pudore i sentimenti loro o di persone a loro care. Occorre fare presente che la diffusione di notizie sullo stato di salute delle persone può tradursi in un danno grave per loro o per le loro famiglie, esponendole a discriminazioni o isolamento che non hanno nulla a che fare con le misure di prudenza (come la quarantena) che minacciano di restare necessarie a lungo per fini di salute pubblica.

Inoltre, un’azienda che abbia le carte in regola per farlo (ad esempio un’industria che ha aggiornato il suo documento di valutazione dei rischi e che ha adottato misure di distanza, di sanificazione ambientale, ecc.), può ricordare ai suoi dipendenti l’impegno profuso per la salute sul lavoro anche e soprattutto nel contesto dell’emergenza, e, sempre se ha le carte in regola, può fare presente che è interesse sia dell’azienda sia dei suoi lavoratori che questa informazione passi correttamente anche nei loro interventi personali sui social.

Quanto visto è focalizzato su ciò che si può raccomandare di non fare o su ciò che si può permettere di fare. Tuttavia, negli ultimi tempi ci si sta interrogando molto anche sulla praticabilità di politiche aziendali che spingano i dipendenti a diventare – essi stessi – tramite “virale” della comunicazione aziendale.

Il dipendente, brand ambassador dell’azienda: i limiti

Già adesso, è frequente che nelle social media policy si chiarisca che i dipendenti sono liberi di condividere sui social i contenuti ufficiali già autorizzati dall’azienda e pubblicati negli spazi digitali aziendali “ufficiali” (sito web istituzionale, profili social dedicati). Talvolta, la policy contiene istruzioni su come condividere contenuti (foto, video, notizie) già diffusi dai canali aziendali e su come segnalarle l’avvenuta condivisione (es. attraverso il tag all’eventuale handle ufficiale e l’uso dell’eventuale hashtag ufficiale dell’evento).

Tuttavia, altro è spiegare al dipendente come – se lo desidera – può farsi tramite di contenuti aziendali, altro è incentivarlo ad essere brand ambassador, cioè spronarlo, magari con misure premiali, a diventare veicolo della comunicazione. Occorre chiedersi con quali limiti e a quali condizioni un’azienda possa fare questo.

Un primo, importante limite viene dal diritto della pubblicità e dalle norme a protezione dei consumatori (ove applicabili in ragione del business aziendale). Per legge, la pubblicità e la comunicazione, anche digitali, devono essere palesi, cioè non devono presentarsi sotto le mentite spoglie di opinioni, passaparola spontaneo, o di informazione. La pubblicità deve apparire come pubblicità. Spingere i dipendenti a fare da brand ambassador è possibile a patto che i dipendenti rendano esplicito che lavorano in quell’azienda. Questo non significa che il dipendente Brand Ambassador debba necessariamente avvalersi di un account social professionale dove è indicato il suo ruolo aziendale (es. profilo LinkedIn). L’importante però è che, anche da un account privato (es. profilo Facebook), renda riconoscibile la sua appartenenza a quell’azienda.

Un secondo limite viene dal diritto del lavoro. Tranne che per alcuni ruoli aziendali che implicano naturalmente una proiezione verso l’esterno (relazioni istituzionali, comunicazione), un’azienda deve rispettare l’eventuale rifiuto di un dipendente di fare da brand ambassador. Un dipendente bravo che svolge bene il suo lavoro non può essere penalizzato nei suoi percorsi di carriera solo perché non accetta di diventare “voce” aziendale. Potrebbe porsi un problema di diritto del lavoro anche in caso di premi economici riconosciuti ai dipendenti che fanno da brand ambassador.

Il sistema di incentivazione dei dipendenti dovrebbe sempre rispettare i criteri di remunerazione previsti dal contratto collettivo di lavoro. Piuttosto, per alcune specifiche categorie di dipendenti, scelte per la compatibilità del loro ruolo aziendale con l’oggetto della comunicazione, si potrebbero immaginare forme di incentivo basate invece che su premi/bonus misurabili economicamente, su riconoscimenti “morali” (tipo menzioni sugli spazi digitali dell’azienda) o di “esperienza” (ad es. inviti a eventi come testimonial dell’azienda, ecc.).

Inoltre, appare preferibile un premio “di gruppo” a un team che ha seguito questo tipo di comunicazione social, piuttosto che il classico bonus individuale. In conclusione, un’azienda che voglia seguire la politica di rendere i propri dipendenti o una parte di essi brand ambassador, farebbe bene a premiare il risvolto qualitativo più che quello quantitativo di questi contributi, a dare la preferenza alla loro soddisfazione morale più che a quella materiale, magari in una logica di team più che in una logica “competitiva” di risultato economico.

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