Casi di India e Israele

Libertà d’espressione e controllo statale, quanta ambiguità dalle piattaforme

I social, se da un lato si pongono come garanti libertà d’espressione e della privacy dei propri utenti, dall’altro sono essi stessi oggetto di aspre critiche sugli stessi temi. I casi più recenti della nuova sull’utilizzo dei social media in India e della censura Facebook sull’hashtag #AlAqsa ne sono un esempio emblematico

Pubblicato il 28 Giu 2021

Valerio Ballatore

Analista Hermes Bay

Federico Songini

Analyst Hermes Bay

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La nuova legge sul controllo dei contenuti condivisi sulle piattaforme online, approvata dal governo indiano all’inizio di quest’anno, ha riaperto il dibattito sul ruolo delle grandi aziende tecnologiche e sul loro rapporto con i governi nazionali riguardo al delicato tema della libertà di espressione e della privacy: l’esercizio del diritto di libertà di espressione, anche attraverso l’utilizzo di canali online come i social media, è oggi considerato un’irrinunciabile espressione della democrazia.

Ci si domanda dunque, legittimamente, se un’eventuale “ingerenza” delle istituzioni governative sull’uso di tali piattaforme online possa mettere a repentaglio la democrazia stessa.

L’odio sui social è un business: ecco perché le piattaforme fanno poco per frenarlo

La nuova legge sull’utilizzo dei social media in India

La nuova legge sull’utilizzo dei social media in India sta facendo scalpore nel paese asiatico e non solo. Essa prevede un controllo più stringente sulle piattaforme social che superano i 5 milioni di utenti, richiedendo alle piattaforme in questione, ad esempio, di dotarsi di strumenti per la verifica degli utenti e il filtro dei contenuti, imponendo inoltre l’obbligo di informare gli utenti di eventuali blocchi del proprio profilo, con relative spiegazioni in merito al provvedimento.

L’obiettivo di questa legge sembrerebbe essere quello di rendere le grandi compagnie tecnologiche maggiormente responsabili per i contenuti che gli utenti condividono sulle piattaforme da esse fornite, con rifermento soprattutto al fenomeno del cosiddetto revenge porn e altre forme di abusi; nonché per garantire agli utenti vittime di tali fenomeni uno strumento per ottenere giustizia, come dichiarato dal ministro della Tecnologia e della Giustizia Ravi Shankar Prasad.

Vi è tuttavia il timore che la longa manus del Governo possa andare a colpire, oltre che atteggiamenti penalmente perseguibili, anche la libera espressione di opinioni non allineate. In tal senso, i proprietari delle piattaforme si oppongono alla legge in questione proprio in virtù del loro ruolo di garanti del trattamento dei dati degli utenti, la cui tutela, soprattutto per quanto concerne la privacy, appare fortemente a rischio. In India manca infatti una legge compiuta sulla protezione dei dati, tuttora in discussione in Parlamento.

La tensione tra le big tech e il Governo di Nuova Delhi è ora salita a un livello più alto, dal momento che l’adeguamento alla nuova normativa era previsto entro il mese di maggio di quest’anno. Il termine è tuttavia scaduto senza che alcuna piattaforma regolarizzasse il proprio funzionamento, scatenando diatribe legali come quella tra il Governo indiano e la controllata di Facebook, WhatsApp, che ha depositato un esposto presso la Corte Suprema di Nuova Delhi, facendo presente che ottemperare a quanto richiesto avrebbe significato intervenire sul sistema di crittografia dei messaggi, violando pesantemente la privacy degli utenti e andando altresì in contrasto con le norme sulla privacy presenti nella stessa Costituzione indiana.

Il rapporto tra social media e libertà di espressione: il caso AlAqsa

Il tema del rapporto tra social media e libertà di espressione può essere considerato anche dal punto di vista della problematica opposta, ovvero dell’eccessiva autonomia decisionale di tali piattaforme nella gestione degli utenti e dei contenuti che essi veicolano tramite le stesse piattaforme.

Circa un mese fa, con la riaccensione del conflitto israelo-palestinese, molti utenti hanno espresso la propria solidarietà con la causa palestinese. Secondo quanto emerso da alcuni rapporti, Facebook avrebbe rimosso diversi contenuti condivisi da attivisti palestinesi, arrivando a censurare l’hashtag #AlAqsa (un riferimento alla Moschea di Al Aqsa, uno dei siti più sacri dell’Islam). La piattaforma ha in seguito spiegato di aver confuso il termine in questione con quello riferito al gruppo militante palestinese denominato Al Aqsa Martyrs Brigade. Molti dipendenti della stessa Facebook, come riportato dal NY Times, si sono dimostrati indignati per l’attività di censura effettuata nei confronti dei post pro-palestina, accusando Jordana Cutler, direttrice dell’ufficio israeliano di Facebook e precedentemente collaboratrice del Presidente Benjamin Netanyahu, di aver promosso la censura eliminando dei contenuti anti-israeliani da Facebook.

In merito a ciò, l’ex responsabile delle policy di Facebook per la regione del Medio Oriente e Nord Africa, Ashraf Zeitoon, che ha lasciato la compagnia nel 2017, ha dichiarato: “Vi è la sensazione, tra i membri di Facebook, che vi sia un approccio sistematico, che favorisce alcuni leader politici potenti rispetto a ciò che è giusto e corretto”.

A tale dichiarazione ha fatto seguito quella di Dani Lever, portavoce di Facebook, che ha evidenziato come tutti i membri di Facebook “condividono lo stesso obiettivo, che è quello di dare voce al maggior numero possibile di persone in tutto il mondo”, respingendo ove possibile “richieste governative esagerate”; specificando che Facebook avesse rimosso i contenuti in questione solo dopo che essi erano stati passati al vaglio delle politiche dell’azienda, delle leggi locali e degli standard internazionali sui diritti umani.

Sul tema della libertà d’espressione e del rapporto tra vendor tecnologici e autorità governative, il dibattito è aperto da tempo e su più fronti, come evidenziato anche dai recenti casi che hanno visto coinvolti personaggi della politica internazionale, come l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i cui account social sono stati bloccati in seguito agli avvenimenti di Capitol Hill dello scorso gennaio, per aver contribuito a “fomentare l’odio” sui social. L’ex Presidente USA ha accusato i dirigenti della Silicon Valley di voler “rovinare il paese”, affermando che i giganti tecnologici come Facebook e Twitter volessero tappare la bocca non solo a lui, ma a un intero gruppo di persone “tremendamente potente”.

Il doppio ruolo delle piattaforme

Le piattaforme social, se da un lato si pongono come garanti della privacy dei propri utenti, dall’altro, in virtù della propria autonomia in quanto società private, sono esse stesse oggetto di critiche sul tema della libertà d’espressione e della privacy, soprattutto in riferimento alle controversie riguardanti i cosiddetti hate speech e fenomeni come il cyber bullismo, che hanno trovato nella rete un luogo di estrema proliferazione.

L’esito di questo confronto tra giganti della tecnologia e i governi nazionali potrebbe scuotere le fondamenta dei concetti di privacy e libertà d’espressione, dandogli nuova forma anche a livello legislativo, con effetti sulle stesse istituzioni democratiche. Un tentativo significativo, in tal senso, proviene proprio dall’Unione europea, che sta lavorando a quadro complessivo di norme (Data Governance Act, Digital Markets Act, Digital Services Act e Artificial intelligence Act) con il proposito di definire una regolamentazione delle piattaforme digitali online e realizzare il giusto equilibrio tra protezione dei diritti dei cittadini e sviluppo tecnologico; ponendosi come potenziale “terza via” tra Stati Uniti e Cina, privilegiando l’aspetto della rule of law rispetto all’eccessivo non-interventismo del primo e all’ingerenza statalista del secondo.

Regole per le big tech e autonomia digitale: la Ue alla ricerca di un difficile equilibrio

La libertà d’espressione è, infatti, un tema di assoluta rilevanza dal momento che, all’interno della vita democratica di un paese, assume un ruolo fondamentale la possibilità di esprimere la propria opinione, finanche in forma di dissenso; dal momento che la pluralità delle idee rappresenta la base stessa di ogni democrazia.

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