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Parto in anonimato e culla per la vita: così viene garantita la privacy delle madri

La privacy richiesta dai genitori che abbandonano un neonato viene sempre rispettata, anche a fronte di una richiesta di conoscere le proprie origini da parte dell’adottato (decorsi non meno di diciotto anni dalla nascita). Ecco le procedure e tutto quello che c’è da sapere

Pubblicato il 14 Mag 2020

Roberto Maraglino

Data Protection & Information Security Manager

culla per la vita

La “culla per la vita” è la versione moderna della medievale “Ruota degli Esposti” (abolita nel corso del XIX secolo); è una struttura moderna, sicura e tecnologicamente all’avanguardia. È stata ideata per permettere di “abbandonare”, in un luogo protetto, i neonati da parte delle mamme in difficoltà.

La utilizzano perlopiù mamme disperate, che in un barlume di ragione, anziché abbandonare vicino ad un cassonetto della spazzatura il proprio figlio, come purtroppo talvolta accade, decidono di lasciarlo vivere. L’abbandono è dettato dalle più disparate situazioni, si va del compagno violento che non accetta il nascituro, alle gravidanze nascoste fino all’ultimo ai propri cari, alle mamme indotte alla gravidanza per poi rivendere gli organi del neonato. In altri casi è semplicemente la conseguenza della condizione psicologica di una mamma che si sente totalmente incapace di occuparsene o la causa di una situazione di estrema povertà o degrado. Mamme talvolta incuranti o inconsapevoli delle possibilità di sostegno e aiuto da parte dei servizi sociali.

Il parto in anonimato

La legge (dpr 396/2000, art. 30) già consente alla mamma di non riconoscere un bambino e di lasciarlo in tutta sicurezza nell’ospedale in cui è nato. Le madri segrete hanno due mesi di tempo per ripensarci, poi, non sapranno più nulla del figlio che hanno messo al mondo. Si chiama “parto in anonimato”, il nome della madre rimane per sempre segreto, e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. L’atto nel quale sarà trascritto il nome della madre è il “certificato di assistenza al parto” e, ai sensi dell’art 93 del d.lgs 196/2003 (Codice Privacy), copia integrale dello stesso potrà essere rilasciato a chi ne abbia interesse solo decorsi cento (100!) anni dalla formazione del documento.

Nel 2001 è stato introdotto anche in Italia il diritto dell’adottato di accedere alle informazioni concernenti l’identità dei suoi genitori biologici, diritto generalmente riconosciuto al compimento dei venticinque anni di età.

Ai sensi della Legge 2001 n. 149, art. 24 comma 7 tale diritto non è consentito se l’adottato non è stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale: “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”.

Il diritto alla identità personale

A onor del vero in questi ultimi anni sta emergendo sempre di più la necessità di garantire il “diritto all’identità personale” dell’adottato; diritto sancito in varie sentenze anche della Corte costituzionale. A fronte di una richiesta di conoscere le proprie origini da parte dell’adottato (decorsi non meno di diciotto anni dalla nascita) il giudice potrebbe bilanciare il diritto all’identità dell’adottato con il diritto alla riservatezza richiesto dal genitore. È stato infatti introdotto il procedimento di preventivo di interpello da parte del giudice per verificare la volontà attuale e la disponibilità della madre a rimuovere il segreto sulla propria identità, in modo da permettere al figlio di esercitare il proprio diritto.

Pertanto, il diritto a partorire in anonimato e a rimanere una mamma segreta è comunque garantito, sia pure a valle di un interpello che potrebbe avvenire dopo circa vent’anni dalla nascita. Ciò costituisce comunque un ulteriore elemento di sicurezza per quante dovessero decidere di partorire nell’anonimato.

La procedura del parto in anonimato e la culla per la vita

La procedura del parto in anonimato è snella e fa sì che il piccolo venga dichiarato adottabile in poche settimane e che si trovi tra le braccia dei nuovi genitori in pochissimo tempo.

In realtà esistono anche altri luoghi in cui, per la legge, è possibile abbandonare in sicurezza un bambino: stazioni della polizia, caserme dei pompieri, chiese, centri medici, agenzie di adozione o anche altri luoghi previa chiamata al 118.

Abbandonare un neonato è legale solo nei luoghi e nelle modalità espressamente previste dalla legge. Qualsiasi altra forma di abbandono è perseguibile legalmente ai sensi del Codice Penale (art 591 C.P. “Abbandono di persone minori o incapaci”). Condizione essenziale per la non perseguibilità legale è la non comprovata evidenza di abusi o di negligenza sul bambino.

Anche la “culla per la vita” garantisce l’anonimato della madre biologica e la salvaguardia del bambino.

La culla è posta perlopiù in un luogo facilmente raggiungibile, lontano da occhi indiscreti. Garantisce la privacy della mamma che vi deposita il proprio figlio ed è dotata di una serie di dispositivi anche tecnologicamente avanzati per garantire: temperatura adeguata, chiusura in sicurezza della botola mediante sensori, presidio di controllo 24 ore su 24 e servizio di soccorso adeguato. L’eventuale telecamera posta all’interno della botola garantisce sempre l’anonimato di quanti dovessero utilizzarla, l’angolo di visualizzazione è diretto esclusivamente alla culla.

La loro presenza è ormai diffusa in tutta Italia. A Monopoli, in Puglia, per esempio, lo sanno bene i sacerdoti del Convento dei Frati Minori che ricordano ancora oggi il caso della tragica storia di una bambina abbandonata in spiaggia a Monopoli nel febbraio del 2017 e lì ritrovata senza vita. Evento che ha portato un frate minore, Padre Miki Mangialardi, a realizzare nel dicembre dello stesso anno una “Culla per la Vita” a Monopoli presso il Convento di San Francesco da Paola.

Il 26 febbraio 2018 proprio il cellulare di Padre Miki ha iniziato a vibrare, era l’APP collegata alla culla per la vita. Vi è stato lasciato nella tarda mattinata il primo neonato. Si chiama Emanuele ed è stato già adottato.

Oggi, a chi lo intervista, ancora visibilmente commosso il frate racconta: “Ho attivato il dispositivo e mediante la telecamera posta nella botola ho visto il piccolo corpicino, ho immediatamente attivato i soccorsi”. “Nella botola abbiamo installato un sensore, fino a quando la mamma non ritrae le proprie braccia, la botola non si chiude”. La speranza è quella di permettere fino all’ultimo alla madre di riprendere con sé il bambino. L’abbandono attiverà infatti le procedure per l’adozione del piccolo. Ovviamente ancora oggi nessuno sa chi sia la madre biologica di Emanuele.

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