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Dimenticare Davos: la via per un futuro più equo va trovata altrove

A Davos, in occasione del WEF, va in scena la macchina propagandistica del capitalismo che presenta al mondo il suo volto responsabile, riflessivo, con una spruzzatina di etica. E allora le cose interessanti vanno cercate altrove o in ospiti eterodossi dell’evento. Due esempi: il Rapporto Oxfam e Greta Thunberg

Pubblicato il 26 Gen 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

wef

Davos è una ridente cittadina svizzera e località sciistica di fama internazionale del Canton Grigioni ed è sede della famosissima Coppa Spengler di hockey su ghiaccio, la competizione a inviti più antica della storia dell’hockey, prima edizione nel 1923, giusto cento anni fa.

Ogni anno – a parte la pandemia – diventa però il centro del mondo e viene blindata dalla polizia per lo svolgimento del Forum economico mondiale (WEF), che richiama politici, economisti, banchieri, giornalisti, altermondialisti che lo contestano – e non solo.

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A Davos il capitalismo celebra sé stesso

È uno dei molti luoghi sacri del capitalismo globale – come la Silicon Valley e le Banche centrali e i mercati – ma tra questi è certamente quello più ameno del culto della religione capitalista (come la definiva cento anni fa il filosofo Walter Benjamin). Un luogo – ma anche una vetrina dove il potere ama mettersi in mostra – che è meta di pellegrinaggi rituali perché proprio a Davos il capitalismo cerca di presentare al mondo il suo volto responsabile, riflessivo, con magari una spolverata di etica e di responsabilità per le future generazioni e parla della necessità di un proprio resettaggio il che, specie negli ultimi anni, con la sommatoria crescente di crisi sociale e di crisi climatica non guasta: importante è evitare di mettere davvero in discussione il capitalismo e le sue radici strutturalmente antisociali ed ecocide.

Ovvero, da anni a Davos il capitalismo celebra se stesso, fa PR di se stesso, magnifica le proprie sorti progressive, riformula/aggiorna il packaging del capitale da offrire sugli scaffali della politica, ma senza grandi novità.

Quest’anno il WEF – svoltosi dal 16 al 20 gennaio – è stato un po’ in sordina, assenti i grandi e grandissimi nomi e presenze governative di secondo e terzo livello.

Il capitalismo e la policrisi mondiale

La policrisi in cui siamo immersi da tempo – secondo la definizione dello storico dell’economia Adam Tooze e che sarebbe fatta di crisi energetica, apparente deglobalizzazione, guerra in Europa e guerre nel mondo per il riposizionamento del potere geopolitico e geoeconomico e geoenergetico, crisi sociale e crisi climatica per non dire della pandemia (tutte crisi che hanno tuttavia una unica causa, appunto il capitalismo, la crisi essendo da sempre nella natura (ne è la way of life sistemica) di questo stesso capitalismo e non evento imprevedibile, crisi che i governi del mondo non risolvono proprio per la contraddizione che non lo consente – la policrisi quindi non genera certo ottimismo e speranza, ma rassegnazione. Ma anche questa rassegnazione alla normalizzazione della crisi è funzionale al sistema, se già Auguste Comte, positivista e padre della sociologia nell’Ottocento scriveva che “l’ordine nella scienza e l’ordine nella società si uniscono in un insieme indivisibile. La meta finale consiste nel giustificare e rinforzare l’ordine sociale […] favorendo una saggia rassegnazione” nelle persone. Per il capitalismo, meglio dunque continuare a generare policrisi, questa volta senza troppo apparire. Anche a Davos.

Gli effetti del rialzo dei tassi di interesse

Dove ovviamente si è discusso di inflazione e Christine Lagarde ha ripetuto per l’ennesima volta che la Bce, così come la Fed americana continuerà ad alzare i tassi di interesse per cercare di abbassare l’inflazione al 2% – inflazione che certo non dipende dagli aumenti salariali ma dal prezzo dell’energia e soprattutto dagli extraprofitti delle multinazionali energetiche. Inflazione al 2% in Europa, obiettivo che si pensa di raggiungere nel 2025. Senza dire nulla ovviamente del fatto che con questa politica monetaria il costo dei debiti pubblici di molti paesi salirà ancora e non sarà certo migliorato dalle politiche monetarie espansive dei tempi recenti e che anzi si sono ridotte; rafforzerà il tentativo dei governi di contenere ancora i salari, già bassi e sempre più impoverenti; e farà conseguentemente aumentare la disoccupazione, e quindi si aggraverà una crisi sociale già grave, si pensi alla GB o alla Francia, e quindi si favoriranno i populismi e i sovranismi. Si chiama – da parte del capitale – razionalità dei mercati ma è evidente che è una loro irrazionalità, a cui siamo sempre più, appunto, rassegnati, perché questa rassegnazione (l’incapacità di cercare/immaginare alternative) è funzionale alla riproducibilità del sistema così com’è.

Il neoliberismo sta benissimo

E in un confronto con Christine Lagarde e il vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, il disco rotto del premier olandese iperliberista Mark Rutte ha criticato di nuovo la spesa pensionistica di troppi paesi, indicando come si debbano invece fare riforme strutturali (parola-mantra del tecno-capitalismo/neoliberismo), per ridurre l’indebitamento pubblico ancora troppo alto, come in Italia, in Francia e in altri Paesi, indebitamento che secondo Rutte “appesantisce la crescita”. E vale allora ricordare quanto scriveva recentemente l’economista francese Thomas Piketty su “Le Monde” a proposito della riforma delle pensioni – che piace certamente a Rutte – proposta dal presidente Macron e “il cui obiettivo è risparmiare venti miliardi entro il 2030”, ma colpendo le classi sociali più povere. Mentre in realtà, come ricorda sempre Piketty, “in dieci anni il valore dei cinquecento patrimoni più grandi di Francia è passato da duecento a mille miliardi di euro. E quindi basterebbe tassare questi patrimoni al 50% per ottenere 400 miliardi” di entrate. Ma è evidente che l’oligarchia del denaro e le loro élite al governo questo non lo vogliono, continuando a credere e a far credere, nonostante le smentite della storia e dei fatti, che detassando i ricchi la ricchezza gocciolerebbe verso il basso a vantaggio di tutti. Che invece si concentra sempre più verso l’alto.

Insomma, a Davos niente resettaggio del capitalismo, niente uscita dal neoliberismo – che non è certo morto, come si sostiene, ma sta benissimo – ma sempre le solite prassi del capitalismo, le solite vecchie idee che non vogliono cambiare mai, quasi a voler sempre confermare la profezia – che in realtà non è una profezia che si autoavvera ma è il frutto della deliberata pianificazione della vita e del mondo praticata dal tecno-capitalismo fin dagli inizi della rivoluzione industriale per gli interessi di pochi e l’ecocidio del pianeta – per cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

L’altro WEF

E allora le cose interessanti vanno cercate altrove o in ospiti eterodossi del WEF. Due esempi: il primo è il Rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nel mondo, uscito in contemporanea all’incontro di Davos; l’altro è l’intervento di Greta Thunberg.

Iniziamo con il Rapporto Oxfam per il WEF 2023. Dove si dimostra che “nel biennio pandemico ‘20-’21, l’1% più ricco del mondo ha visto crescere il valore dei propri patrimoni di 26.000 miliardi di dollari, in termini reali, accaparrandosi il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza netta globale (42.000 miliardi di dollari), quasi il doppio della quota (37%) andata al 99% più povero della popolazione mondiale. Battuto dunque il record dell’intero decennio 2012-2021, in cui il top-1% aveva beneficiato di poco più della metà (il 54%) dell’incremento della ricchezza planetaria. Per la prima volta in 25 anni aumentano inoltre simultaneamente estrema ricchezza ed estrema povertà”. E ancora: “Anche tenendo conto del tracollo dei mercati azionari nel 2022, la ricchezza dei miliardari Forbes è cresciuta tra il mese di marzo 2020 e il mese di novembre 2022 al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno. […] E le grandi imprese del comparto energetico e agro-alimentare hanno più che raddoppiato i propri profitti nel 2022 rispetto alla media 2018- 2020, corrispondendo nell’anno passato 257 miliardi di dollari ai propri azionisti, mentre oltre 800 milioni di persone soffrivano la fame”.

“Guardando al futuro” – continua il Rapporto Oxfam – “siamo sull’orlo di una recessione e mai come ora vi è necessità di aumentare la spesa pubblica per affrontare la povertà, la fame, il cambiamento climatico e l’inflazione e di investire in una ripresa equa per tutti. Eppure, troppi governi scelgono, in controtendenza, di tagliare la spesa o sono costretti a farlo dalle istituzioni finanziarie internazionali, mettendosi su un percorso di austerità. Oxfam ha calcolato che nel quinquennio 2023-2027 almeno 148 Pasi pianificano di ridurre la spesa pubblica, per un totale di 7.800 miliardi di dollari. Nel solo 2023 oltre il 54% dei Paesi stanno pianificando di tagliare ulteriormente il proprio budget per la protezione sociale, affievolendo le tutele per i più vulnerabili. Non deve essere così. Per sopperire alla mancanza di risorse i governi potrebbero scegliere, prendendo esempio dalle esperienze del passato, di introdurre robuste forme straordinarie (solidaristiche) e strutturali di prelievo a carico delle fasce più abbienti della popolazione e degli attori economici più floridi, destinandone i proventi a chi versa in condizioni di povertà o vi rischia di scivolare. Ponendosi così in controtendenza con quanto accaduto durante la pandemia, quando, secondo le rilevazioni di Oxfam, il 95% dei Paesi non ha usato la leva fiscale per tassare di più ricchi e grandi imprese arrivando anzi, in non pochi casi, a ridurre la tassazione per individui e soggetti economici più abbienti”.

E veniamo a Greta Thunberg – riportando il resoconto di Sebastiano Canetta – “protagonista del World Economic Forum 2023 insieme alle ambientaliste Vanessa Nakate, Helena Gualinga e Luisa Neubauer, leader tedesca del Fridays For Future. Per niente sedata dal doppio arresto della Polizei tedesca al presidio contro l’espansione della miniera di carbone di Lützerath, l’attivista svedese ha demolito così il palcoscenico del WEF nel corso dell’atteso incontro con il direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’Energia, Fatih Birol: “La gente che dovremmo ascoltare non si trova qui. A Davos c’è la gente che alimenta la distruzione del pianeta, quella che sta al cuore del problema della crisi climatica, che continua a investire sulle fonti fossili, e che in qualche modo riesce ancora ad apparire come la gente su cui contare per risolvere il problema”.

Le quattro ambientaliste hanno poi aggiunto: “Smettete di bloccare la transizione all’energia pulita che è necessaria al pianeta. Per anni avete imbrogliato la scienza climatica sui veri rischi dell’utilizzo dei combustibili fossili ingannando il dibattito politico con la disinformazione mirata a sollevare dubbi sull’urgenza della svolta ambientale. Dovete finirla con atti in aperta violazione del diritto umano alla salute. Se non farete nulla, vi riterremo legalmente responsabili”.

Come dar loro torto? Ricordando anche che in una settimana i jet privati che hanno portato a Davos i partecipanti al WEF del 2022 hanno causato emissioni di CO₂ pari alle emissioni medie di 350 mila automobili nello stesso periodo di tempo (secondo Greenpeace International).

Forse dovremmo allora davvero dimenticare la Davos del WEF – pezzo importante della macchina propagandistica nichilista del capitalismo globale. Molto meglio la Davos della Coppa Spengler.

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