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Greenwashing e obsolescenza programmata: le pratiche vietate dopo la direttiva ECGT



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La Direttiva ECGT mira a responsabilizzare i consumatori verso scelte più sostenibili, combattendo le pratiche commerciali sleali come il greenwashing e l’obsolescenza programmata. Ecco quali sono gli obiettivi dell’Ue e i divieti introdotti

Pubblicato il 21 mar 2024

Gianluca Albè

A&A Studio Legale

Federica Bottini

A&A Studio Legale



Green e Digital

A seguito dell’approvazione del testo da parte del Parlamento Europeo dello scorso 17 gennaio, in data 20 febbraio è stata adottata la Direttiva sulla “empowering consumers for the green transition” (ECGT), che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro 24 mesi dalla sua entrata in vigore.

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La direttiva ECGT: novità e obiettivi

Viste le modifiche apportate alla Direttiva n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori, recepita in Italia dal Codice del Consumo, ci si aspettano ulteriori modifiche alla disciplina consumeristica, sulla scorta di quanto già avvenuto con la Direttiva Omnibus.

Con la Direttiva ECGT, che rappresenta solo una delle diverse iniziative destinate a favorire l’economia circolare, l’Unione Europea mira alla responsabilizzazione dei consumatori, per far sì che assumano un ruolo centrale e attivo nell’attuazione della transizione verde, grazie a scelte e acquisti più sostenibili.

La Direttiva muove dal presupposto che modelli di consumo più sostenibili sono strettamente connessi alla abolizione di pratiche commerciali scorrette, poiché idonee a trarre inganno i consumatori rispetto alle caratteristiche ambientali o sociali dei prodotti.

Le pratiche sleali su cui si sofferma principalmente la Direttiva riguardano il greenwashing e l’obsolescenza precoce dei prodotti.

Le pratiche commerciali vietate: il greenwashing

Nell’attuale formulazione del Codice del Consumo, sono già vietate quelle pratiche che, contrarie alla diligenza richiesta agli operatori economici, risultino false e/o comunque idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore in relazione ad un prodotto.

Tra queste meritano particolare attenzione i cosiddetti green claims.

Con questo termine ci si riferisce alle asserzioni ambientali e per tali intendendosi “qualsiasi messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio a norma del diritto dell’Unione o nazionale, in qualsiasi forma, compresi testi e rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche, quali marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, che asserisce o implica che un dato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure è meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti, categorie di prodotto, marche o operatori economici oppure ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo”.

Come noto, la pratica di trarre in inganno i consumatori sugli impatti ambientali o sui benefici di un prodotto in termini di sostenibilità prende il nome di greenwashing e, già da tempo all’attenzione del legislatore comunitario, sarà oggetto di una futura specifica Direttiva (Green Claims Directive o Direttiva sulle asserzioni ambientali).

In questa fase, la Direttiva ECGT integra la Direttiva sulle asserzioni ambientali e stabilisce al riguardo alcune pratiche ingannevoli considerate sempre sleali e quindi vietate, ampliando l’elenco di cui all’allegato I della Direttiva n. 2005/29/CE.

I professionisti – intesi nella definizione del Codice del Consumo, quindi gli operatori economici – non potranno:

  • esibire un marchio di sostenibilità relativo alle caratteristiche di un prodotto che non soddisfa condizioni minime di trasparenza e credibilità. Quindi, i professionisti potranno certamente fare uso di marchi di sostenibilità, ma solo se gli stessi saranno supportati da un sistema di certificazione, ovvero stabiliti da autorità pubbliche;
  • formulare un’asserzione ambientale generica per la quale l’operatore economico non è in grado di dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione. Quindi, formule quali “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “verde” o “rispettoso dal punto di vista ambientale” potranno essere utilizzate solo se, per esempio, l’operatore abbia fatto ricorso ad un sistema di assegnazione di marchi di qualità, tali da rendere il prodotto dotato di determinate prestazioni ambientali, riconosciuto dagli Stati membri;
  • formulare un’asserzione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso o l’attività dell’operatore economico nel suo complesso quando in realtà tale asserzione riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o un elemento specifico dell’attività. Si pensi ad un prodotto commercializzato come “realizzato con materiale riciclato”, quando in realtà lo è solo l’imballaggio;
  • asserire che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra, se tale asserzione non si basa sull’impatto effettivo del ciclo di vita del prodotto. Sono quindi vietate quelle asserzioni che suscitano l’idea che il consumo del prodotto non abbia alcun impatto sull’ambiente;
  • presentare requisiti imposti per legge per la commercializzazione di tutti i prodotti appartenenti a una data categoria all’interno de mercato dell’Unione, come se tali requisiti fossero un tratto distintivo dell’offerta dello specifico operatore economico. Tra questa pratica si colloca la tendenza degli operatori di pubblicizzare un prodotto come prodotto che non contiene una determinata sostanza chimica sebbene la stessa sia già vietata per tutti i prodotti analoghi.

L’obsolescenza precoce dei beni

Anche le pratiche di obsolescenza precoce dei beni provocano una minore sostenibilità dei consumi, con incremento dei rifiuti, aumento delle vendite e conseguente impatto negativo sull’ambiente.

Da un lato, saranno vietate le pratiche di obsolescenza programmata dei beni per effetto delle quali gli stessi vengono deliberatamente dotati di caratteristiche, in fase di progettazione o con successivi aggiornamenti, idonee a limitarne la durata (per esempio sulla base di frequenze d’uso o periodi di utilizzazione prestabiliti). È facile comprendere il meccanismo se pensiamo ad un software che dopo un determinato periodo cessa le proprie funzionalità. I consumatori dovranno essere anzi obbligatoriamente informati degli effetti negativi che un dato aggiornamento software potrebbe causare nel bene in cui è presente.

Dall’altro lato, saranno vietate anche le dichiarazioni false relative alla durabilità del bene in condizioni d’uso normale (si pensi agli elettrodomestici che vengono presentati con una certa durabilità smentita poi dal normale utilizzo) o quelle relative agli effetti dell’utilizzo di ricambi non originali – per esempio tacendo che potrebbero causare una rottura dello stesso – allo scopo di indurre alla sostituzione del prodotto.

Si tratta ovviamente di informazioni nell’immediata disponibilità del produttore, ma anche i distributori non saranno esonerati dall’eseguire i necessari controlli in merito ai beni commercializzati, basandosi su informazioni attendibili.

Accanto alla garanzia legale di conformità, farà comparsa la garanzia commerciale di durabilità che riguarda lo specifico impegno del venditore di assicurare che il prodotto, in quel lasso temporale, manterrà le funzioni e le prestazioni richieste in condizioni d’uso normali. Della stessa dovrà essere data idonea informazione mediante un’etichetta armonizzata in caso di durabilità superiore a due anni (sul presupposto che per problemi di funzionamento che si verificano nei due anni dalla vendita opera la garanzia legale di conformità, ma spesso guasti si verificano successivamente).

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