Le sfide

La finanza sostenibile scommette sulla neutralità climatica

Solo la finanza sostenibile può fornire il supporto alle economie per raggiungere il traguardi delle emissioni zero entro il 2050. Luci ed ombre sul fondo da 100 mila miliardi di dollari per aiutare i Paesi poveri ad affrontare il climate change

Pubblicato il 08 Nov 2021

Mirella Castigli

ScenariDigitali.info

Photo by Riccardo Annandale on Unsplash

Alla Cop26 di Glasgow, il mondo del business propone la finanza sostenibile come risposta alla crisi climatica.

L’accordo scritto per la transizione ecologica è nero su bianco: Londra diventerà la prima piazza finanziaria a emissioni zero, mentre prende forma l’impegno da cento mila miliardi di dollari per finanziare i Paesi poveri ad affrontare la crisi dei cambiamenti climatici e abbracciare la neutralità climatica entro il 2050. Anche la Banca mondiale ha promesso 25 miliardi di dollari all’anno fino al 2025 per la lotta al riscaldamento globale, mentre il FMI ha creato un fondo da 50 miliardi di dollari.

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La Glasgow Financial Alliance for Net Zero, pari al 40% del mondo della finanza, promette di rispettare gli accordi di Parigi. “Gli annunci che giungono dalla Cop26 di Glasgow rappresentano un passaggio importante”, commenta Marco Giorgino, professore di Istituzioni e Mercati Finanziari, direttore scientifico dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano.

La svolta della finanza sostenibile

“Sono buone notizie perché recepiscono due traiettorie complementari e sinergiche: da un lato, a far ben sperare è il volume degli investimenti con cifre significative e logiche reali di investimenti in profili sostenibili; dall’altro lato, parliamo di investitori che non sono benefattori, ma, proprio per questo, la loro decisione di allocare risorse e portafogli in finanza sostenibile dimostra che conviene”, insomma, con la svolta verde si fanno profitti, soprattutto in una struttura finalmente coerente e olistica.

“La presa di coscienza era già avvenuta nel biennio 2016-2017, ma con la svolta annunciata alla Cop26 di Glasgow si muovono i soldi veri”, sottolinea Giorgino, “una svolta dal grande potenziale, purché si prendano sul serio due temi su cui tenere altissima l’attenzione: il tema delle competenze (in particolare su credit risk assessment e reportistica); il rischio del greenwashing, da evitare grazie proprio al ricorso alle competenze”.

Le cifre della transizione ecologica

La Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz) rappresenta 450 banche, gestori patrimoniali, assicurazioni, in rappresentanza di 45 Paesi. L’alleanza, che rappresenta il 40% del mondo della finanza e rappresenta un peso massimo da 130 miliardi di asset, dovrebbe mettere sul tavolo finanziamenti pari a 100 trilioni di dollari, così ripartiti:

  • le banche (fra cui Bank of America, Hsbc e Santander) con 63 trilioni di dollari;
  • i gestori con asset per 57 trilioni di dollari;
  • i fondi pensione per altri 10 trilioni di dollari.

L’adesione alle linee guida della Gfanz significa che i prestiti bancari, prima destinati alle aziende di combustibili fossili (una miniera di carbone o un giacimento petrolifero) e ad aziende agricole che alimentano la crisi climatica, cambieranno rotta verso fonti rinnovabili o investimenti in progetti green e di transizione energetica.

Inoltre, Londra non diventerà soltanto il primo centro finanziario a emissioni zero, ma dal 2023 costringerà le società quotate a pubblicare un piano “trasparente e pragmatico” per illustrare come attueranno la transizione ecologica nei prossimi tre decenni, fissando obiettivi annuali intermedi fino al traguardo finale della neutralità climatica entro il 2050.

La decarbonizzazione della finanza potrebbe fare scuola. Ma la strada non è affatto in discesa, infatti, alcune nubi si addensano all’orizzonte. E non sono i temuti uragani, ma il rischio di disperdere i soldi della finanza sostenibile in mille rivoli, senza una vera strategia.

Manca un vero piano per i Paesi poveri

Cento miliardi di dollari all’anno per aiutare i Paesi poveri a ridurre le emissioni, a prima vista, potrebbe sembrare un piano generoso. Manca tuttavia un accordo su come spendere questa massa di denaro della finanza sostenibile. Non c’è ancora un piano concreto.

Il Financial Times ha scoperto che l’isola caraibica di Antigua rinforzerà il tetto dell’ospedale e le finestre delle stazioni di polizia per contrastare gli uragani sempre più violenti. Una spesa pari a 46 milioni di dollari.

Invece di preparare e mettere in atto una strategia per tagliare le emissioni dei Paesi Poveri ed affrontare seriamente i cambiamenti climatici, il rischio che corrono i Paesi più fragili è di disperdere i 100 miliardi di dollari in migliaia di progetti anti-uragano che non vanno alla radice dei problemi, ma sono soluzioni tampone dall’effetto temporaneo.

La prova del nove

Il ministro dell’ambiente di Antigua e Barbados, Molwyn Joseph, ha definito il fondo da 100 miliardi come una prova del nove per valutare e verificare la buonafede dell’impegno dei Paesi ricchi nell’aiutare chi subisce i danni degli eventi estremi climatici causati da chi supera le emissioni di CO2.

Quando il Primo ministro indiano, Narendra Modi, ha dichiarato di azzerare le emissioni entro 2070, il sottotesto alle sue dichiarazioni avrebbe dovuto aggiungere: serve un trilione di dollari di finanza sostenibile, da parte dei Paesi sviluppati, per nutrire ambiziosi traguardi e rispettare la climate action. Ora sono sul tavolo i soldi veri, ma non basta.

La promessa dei cento miliardi non è infatti nuova. Risale alla Cop di Copenhagen del 2009 dagli Stati più ricchi: fornire cento miliardi all’anno dal 2020, come avevano stabilito gli accordi di Parigi del 2015 per limitare l’incremento della temperatura a 1.5 gradi Celsius, e comunque sotto i 2 gradi Celsius, per evitare l’impatto devastante del riscaldamento climatico. Purtroppo i Paesi donatori non hanno rispettato l’impegno fissato dal 2020, e ora spostano la data dell’avvio degli aiuti dal 2022, se non dall’anno successivo. Invece quella cifra rappresentava un patto di fiducia fra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, spiega Josué Tanaka, che ha contribuito a lanciare la Climate finance unit alla European Bank for Reconstruction and Development. Ma quella fiducia è stata tradita.

Progetti in agenda

L’unica dichiarazione su cui tutti concordano è che servirebbero molti più soldi per la finanza sostenibile.

Serve un piano: per stabilire chi pagherà i cento miliardi, quando e soprattutto come verranno distribuiti. Alla domanda su chi pagherà, ha risposto il mondo della finanza. Ora bisogna stabilire come e quando allocare le risorse. Questi sono i temi su cui la Cop26 di Glasgow rischia di deragliare. Manca il consenso su come spendere i soldi, chi debba riceverli e anche cosa debba rientrare sotto l’ombrello di finanza sostenibile.

La maggior parte dei soldi è stata raccolta da grande istituzioni internazionali, già ben finanziate, mentre ancora mancano progetti finanziati con denaro sufficiente. Le banche di sviluppo tradizionali non sono state finora all’altezza della sfida: “Mettere i soldi dentro l’attuale architettura di sviluppo non avrà l’impatto necessario”, spiega Nick Mabey, capo di E3G, charity d’orientamento climatico: “Questi soldi andrebbero impiegati per riforme sistemiche invece di limitarsi a tappare buchi”.

I Paesi donatori, fra cui Italia, UK, Danimarca e Giappone, hanno rafforzato il loro contributo a Glasgow, ma soprattutto sta scendendo in campo la finanza privata pronta a investire in progetti legati alla lotta ai cambiamenti climatici. E anche le banche di sviluppo hanno raggiunto accordi multilaterali per aiutare i Paesi ad abbandonare il carbone. La Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture con una capitalizzazione di 100 miliardi di dollari, ha promesso che acquisterà centrali a carbone per chiuderle.

Anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha creato Resilience and Sustainability Trust (Rst), fondo da 50 miliardi di dollari per promuovere la transizione green dei Paesi più indebitati.

“La finanza sostenibile è in divenire” ha affermato Yannick Glemarec, al vertice del Green Climate Fund, creato dalle Nazioni unite per aiutare a distribuire una porzione dei 100 miliardi di dollari. “Il problema è se arriverà abbastanza velocemente e in tempo per evitare i catastrofici cambiamenti climatici.”

Finanza sostenibile, una formula fumosa

Per evitare il greenwashing, servono sistemi di controllo legalmente vincolanti, ma intanto è fondamentale definire cos’è la finanza sostenibile: cosa cade sotto questo ombrello e cosa no.

Tracy Carty, che guida le climate change policy presso Oxfam, afferma che non c’è alcuna chiarezza sulla definizione di finanza sostenibile e i Paesi donatori potrebbero giocare a proprio favore su questa ambiguità.

Ogni anno i Paesi Ocse pubblicano un report annuale per dire quanto mobilitano in termini finanziari, compresi prestiti, sovvenzioni ed export di crediti finanziari, sia di risorse pubbliche che private. Anche se i Paesi Ocse ritengono troppo generosa la definizione, Oxfam fa notare quanto sia corta la coperta: 79.6 miliardi di dollari nel 2019, lontano dall’obiettivo dei cento miliardi. Le sovvenzioni per il clima, poi, sarebbero un quinto delle cifre esibite dai Paesi Ocse, perché sono stati forniti più lentamente rispetto alla velocità di concessione dei prestiti.

Le origini della sfida della finanza sostenibile

La decisione dell’aiuto da 100 miliardi venne presa alla Cop di Copenhagen nel 2009, ma trae origini dalla Conferenza di Rio del 1992, quando venne elaborato il concetto secondo cui i Paesi ricchi aiutassero quelli poveri in termini finanziari.

Alla conferenza di Kyoto, nell’omonimo protocollo venne poi introdotto il Clean Development Mechanism, un sistema per incanalare centinaia di milioni di dollari nei progetti climatici nei Paesi in via di sviluppo. Il meccanismo è simile a quello del mercato della compensazione del carbonio, ma si è prestato a numerosi abusi. Uno studio dell’Unione europea ha scoperto che l’85% dei progetti esaminati di Clean Development Mechanism non rispettava i requisiti relativi all’impatto delle emissioni.

Quando i progetti climatici falliscono, è un flop al quadrato “perché è uno spreco di denaro, ma soprattutto un altro disastro per il Pianeta”, commenta Brice Böhmer, a capo di Transparency International, l’organizzazione che ha lanciato un’iniziativa di tracciamento della corruzione nei progetti climatici ed energetici. “Gli standard degli investimenti devono essere elevati” per non arrecare danni all’ambiente e alle popolazioni per aiutarle ad adattarsi alle nuove condizioni.

L’approccio dei 100 miliardi è ora cambiato e consiste nel rafforzare programmi esistenti di aiuto e banche di sviluppo, rilasciando una reportistica annuale all’Onu.

Le ombre sulla finanza sostenibile

Le Nazioni Unite hanno poi lanciato un’istituzione dedicata, il Green Climate Fund (GCF), il più grande fondo al mondo per il clima grazie alla raccolta di 18 miliardi di dollari dal 2010 (di cui dieci miliardi nella prima raccolta fondi del 2014), per aiutare a distribuire i cento miliardi di dollari. Purtroppo il fondo è stato poco efficiente e raggiunto da gravi accuse di abusi e malversazioni. Nel 2018 le fluttuazioni del dollaro avrebbero inoltre drenato un miliardo di dollari.

GCF lavora con grandi istituzioni come il programma di sviluppo dell’Onu (UNDP) e EBRD, organizzazioni già ben equipaggiate. Inoltre, i programmi condotti dall’UNDP sarebbero sotto indagine per corruzione.

Tosi Mpanu-Mpanu, ex membro del bordi del Green Climate Fund e negoziatore della Repubblica Democratica del Congo, afferma che “sarebbe stato uno scandalo enorme se avesse perso tanti soldi un Paese africano”. E punta il dito anche contro le spese generali amministrative delle grandi organizzazioni multilaterali, mentre il climate change avanza inesorabilmente, mettendo a rischio interi territori e popolazioni.

Le problematiche da risolvere

La finanza sostenibile sta affrontando gli stessi rischi e accuse di sprechi, corruzione e inefficienza che in passato hanno colpito gli aiuti per lo sviluppo.

La finanza sostenibile non dovrebbe limitarsi a costruire edifici e ponti, ma essere in grado di imprimere trasformazioni reali e concrete in grado di innescare riforme sistemiche, cambiamenti radicali. Tutti progetti difficili da misurare, ma che sarebbero in grado di mitigare realmente l’impatto dei cambiamenti climatici tagliando le emissioni. Ma se si investono dieci milioni di dollari negli autobus ad Hanoi, non è facile dire quante emissioni di CO2 siano state ridotte. Purtroppo domina l’incertezza soprattutto nei progetti di adattamento ai cambiamenti climatici.

Mushtaq Khan, professore di economia a Soas, afferma che i progetti per la prevenzione dei rischi hanno anche lo svantaggio di avere obiettivi lontani nel tempo: “Un terzo dei progetti dedicati al Bangladesh è sotto inchiesta per appropriazione indebita”. Secondo Transparency International, Paesi con alti livelli di corruzione sono fra l’altro i più vulnerabili ai cambiamenti climatici. E accostare le accuse di corruzione a questi temi sembra un modo per fomentare scuse per evitare i finanziamenti che invece servono.

Monitorare le comunità locali può aiutare, ma non è il modo in cui agiscono i programmi di sviluppo. Altra problematica da risolvere, secondo Amar Bhattacharya, senior fellow at Brookings, riguarda la misurazione dell’impatto (di sviluppo e climatico) reale e dell’efficacia attraverso i vari donatori.

Inoltre, “è indiscutibile che i fondi non vanno dove dovrebbero essere diretti”, insiste Mafalda Duarte, chief executive del Climate Investment Funds (CIF). Ora una nuova massa di denaro proviene dai finanziamenti privati, a partire dai 600 milioni di dollari di BlackRock dedicati ai progetti climatici.

Ciò sta influenzando gli investitori pubblici a cambiare il loro approccio. Il CIF sta raccogliendo 2 miliardi di dollari da Paesi ricchi come Canada, Germania e USA, per aiutare la transizione energetica per abbandonare il carbone. Il controverso Presidente delle Filippine Duarte ha detto che userà i suoi fondi come leva per ottenere nuovi finanziamenti, cosicché un dollaro dai CIF porti 10 dollari da altri attori pubblici e privati.

Un’altra potenziale fonte di nuovi finanziamenti potrebbe giungere a Cop26 dai negoziati sull’articolo 6 degli accordi di Parigi, dedicato alle regole per un mercato internazionale delle emissioni del carbonio ed alle forme di collaborazione internazionale. Si tratta di un sistema con cui i Paesi inquinanti trasferiscono milioni (o miliardi) di dollari verso altri Paesi, destinati a progetti volti alla decarbonizzazione.

Il meccanismo, se ben calibrato, potrebbe ridurre le emissioni e condurre la finanza sostenibile sul binario giusto. Invece, se venisse mal congegnato, il progetto potrebbe replicare gli stessi problemi che hanno afflitto il Clean Development Mechanism. Invece di tagliare le emissioni, potrebbe perfino aumentarle. Un pericoloso circolo vizioso.

I Paesi emergenti, a cui fanno eco i cento mila ragazzi dei Fridays for future in corteo, avvertono che è ancora troppo poco e comunque troppo tardi. I principali obiettivi della climate finance raggiunti nei negoziati di Glasgow sono fissati al 2025, un traguardo troppo lontano, quando invece la casa comune brucia ora.

Conclusioni

La Cop26 però non è ancora finita. Non bisogna vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, anche se è doveroso fare molto di più perché non esiste un Pianeta B.

Innanzitutto i negoziati sulla trasparenza (la reportistica), l’articolo 6 (il mercato dei crediti del carbonio) e sulla finanza sostenibile entrano nel vivo ora. Inoltre, Fatih Birol, direttore esecutivo dell’International Energy Agency, stima che con gli impegni assunti finora il riscaldamento si arresterebbe a +1,8° C, quindi sotto i +2°C, anche se bisogna ancora scendere all’incremento limite di +1,5°C.

Gli accordi presi non sono sufficienti, ma nel 2030 riducono le emissioni di CO2 di 6 miliardi di tonnellate. Un primo passo, anche se i tagli devono raggiungere quota 21 miliardi di tonnellate (-45% rispetto ai 43 miliardi di tonnellate emesse attualmente).

Ancora bisogna fare molto, ma la via intrapresa è nella direzione giusta: grazie anche all’impegno di 20 Paesi, Italia compresa, a cessare i finanziamenti all’estero dei combustibili fossili entro il 2022; all’impegno di oltre 40 Paesi a stoppare investimenti, interni ed esteri, in nuova produzione energietica a carbone; all’accordo per decarbonizzare entro il 2030 nelle economie occidentali ed entro il 2040 per i Paesi emergenti.

La finanza sostenibile sarà uno strumento imperfetto, ma è un punto essenziale nella lotta ai cambiamenti climatici, e finora sul tavolo non sono arrivate proposte soluzioni alternative migliori. Intanto si muovono i soldi veri e daranno una spinta all’addio al carbone, almeno la strada è segnata.

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