confusione normativa

Startup e PMI, come rendere l’Italia il Paese degli unicorni

Regna sovrana nel nostro Paese la confusione tra i profili startup e PMI, alimentata anche da una normativa errata. Si tratta però di due modelli contrapposti e, se è positiva la grande presenza di PMI in Italia, manca invece un ecosistema in grado di incentivare le startup, le multinazionali dei prossimi decenni

Pubblicato il 15 Mag 2018

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

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Startup scalabili oppure PMI: il dilemma tra “modello americano” e “modello italiano” ha generato il coacervo normativo che, a partire dal decreto crescita del 2012, ha ibridato le due specie contribuendo non poco alla confusione odierna nel paese. Un buon adagio vuole che si trovino soluzioni diverse a problemi diversi, per cui all’epoca della genesi delle norme su startup e PMI innovative sarebbe stato opportuno affrontare con policy differenti sia il problema del tornare ad incentivare l’imprenditorialità tradizionale – pur se ricontestualizzata nell’era digitale – che il ben differente aspetto dell’introduzione “from scratch” del complesso e sconosciuto mondo del venture business, altrimenti detto ecosistema delle startup, legato ad inderogabili criteri di scalabilità globale del modello di business ed altre particolarità ben codificate.

Startup e PMI, due modelli contrapposti

È difatti una diatriba da tempo noiosa quella della contrapposizione tra le startup e le PMI (le “lifestyle business” come le chiamano nel mondo anglosassone), diatriba che però tanto appassiona gli italiani che restano Guelfi e Ghibellini nel DNA: la verità è che un’economia avanzata ha bisogno di entrambi i modelli, di entrambi i percorsi, di entrambe le tipologie di imprenditori e di imprese.

I due modelli seguono regole, si basano su paradigmi e perseguono modelli talmente differenti tra loro, che pensare di confrontarli definendo quale sia “meglio” o “peggio”, o di usare per l’uno gli strumenti dell’altro, è talmente una perdita di tempo che si rivela meno di una chiacchiera da bar: una lifestyle company nasce spesso da un solo imprenditore, che punta a mantenerne la proprietà per la vita – o addirittura passarla agli eredi; una startup scalabile non è mai una “one man band”, anzi è sempre costituita da più fondatori con competenze diverse e complementari, e termina sempre con l’exit. Una lifestyle company si basa sul vecchio adagio, culturalmente ben radicato, per cui le società dovrebbero avere sempre un numero di soci dispari ed inferiore a tre; una startup scalabile nasce tipicamente con almeno tre soci, e cresce raccogliendone per strada continuamente di nuovi tra investitori, advisor, membri del team.

Una lifestyle company è per definizione padronale, una startup scalabile è in tutto e per tutto un progetto condiviso. Una lifestyle company nasce e cresce con capitali personali dell’imprenditore e facendo ampio uso di debito; se qualcuno vi investe, lo fa accettando un rischio abbastanza basso ed un’aspettativa da dividendo. Una startup scalabile cresce solo attraverso apporti crescenti di capitale di rischio da parte di soggetti che non sono mai i fondatori. Questi, cercano il multiplo e mai il dividendo, sperando di trovare la nuova Google o Facebook, dove gli early investor hanno realizzato un 5000x, o dove comunque la “regola” è di averne almeno una nel portfolio che porti almeno 20-30x una volta venduta o quotata, e si accetta il rischio che le altre nove su dieci falliscano o rendano meno.

Una lifestyle company cerca il break even il prima possibile; per una startup scalabile più si è bravi a fare “cash burn” e meglio è, perché l’obiettivo è la crescita veloce, e così via. Eppure siamo stati ugualmente capaci di confondere le cose, e scrivere delle leggi che sanciscono questa confusione.

Da startup a multinazionale che genera occupazione

Il punto quindi è che se è vero che la stabilità del paese è data da un vastissimo tessuto di PMI-“lifestyle companies” di matrice familiare, che possono e devono occupare tutte le nicchie dell’alta qualità che caratterizza da sempre la nostra economia, nel contempo non possiamo non prendere atto che le più grandi aziende mondiali per capitalizzazione sono società venture-backed che non esistevano solo vent’anni fa, e che sono solo queste ad avere la capacità di creare grandi numeri di posti di lavoro di qualità. Quei posti che ormai da due decenni ci stanno mancando, e la cui assenza sta alimentando l’esodo continuo dei nostri giovani.

Le startup, o meglio quelle che concludono il percorso da “Unicorno” (cioè che superano il valore di 1 Miliardo), sono le multinazionali dei prossimi decenni, ed è questa la grande verità che dobbiamo metterci in testa. Francia, Germania, Spagna, perfino Portogallo, Romania, Bulgaria e tanti altri lo hanno capito, e stanno seminando da tempo ed irrigando i campi in cui questi nuovi operatori economici tentano di svilupparsi, per non trovarsi esposte ai mutamenti tecnologici che trasformano ed azzerano mercati consolidati da decenni se non da secoli.

Perché in Italia si ostacolano gli unicorni

L’Italia non solo non sta facendo niente di concreto per essere in partita – ed ogni anno di ritardo costerà di più, in termini di investimento per recuperare il gap – non solo siamo pieni di attori economici che non muovono un passo per attivarsi nel venture business guardando il fragile ecosistema delle startup come una roba da ragazzini smanettoni, ma ci sono perfino forze che remano palesemente contro. Si, è tempo di spiegare chiaramente che molto del mondo dell’economia, dell’imprenditoria e della finanza tradizionale è palesemente ostile, e agisce tramite le proprie lobby, per ostacolare il più possibile la nascita nel paese di un vero ecosistema favorevole alla nascita e crescita di unicorni italiani.

Lo fa perché ha nella propria essenza l’economia di relazione, lo fa perché è terrorizzato dall’innovazione, lo fa perché non può accettare che l’imprenditoria divenga un processo più legato al talento e al merito che all’essere ammanicati con il politico ed il banchiere di turno, lo fa perché è semplicemente ignorante e pensa che le startup siano una moda anziché un modello di industrializzazione dell’innovazione e del talento. E così facendo, questa casta, si sta condannando a morte: perché se forse può ostacolare la nascita di innovazione in casa propria, di sicuro non può ostacolare la valanga di innovazione che, dall’estero, arriva inesorabilmente a colonizzare quello che è pur sempre un grande mercato.

Confusione culturale e normativa sbagliata

Ma se possiamo essere ottimisti per il fatto che – infine – molti di questi signori stanno comprendendo che questa partita la vinceranno solo se cavalcheranno l’onda, se diventeranno promotori delle startup, anziché tentare di frenare venendone spazzati via, il nostro grandissimo problema resta la confusione culturale che è stata generata da una normativa sbagliata, che ha mischiato i due modelli, sovrapponendo strumenti che dovrebbero essere esclusivi dell’uno o dell’altro, e quindi tenendo ben distanti i prudentissimi investitori italici, ben più avvezzi al mattone che al capitale di “rischio”.

Il grande problema da risolvere

Questo rimane il grande problema da risolvere, oggi: sebbene sia sacrosanto incentivare nel paese l’imprenditoria in generale (soprattutto quella digitale), o meglio rimuovere gli ostacoli fiscali e burocratici che le sono stati posti di fronte, trovo che sia – in modo del tutto slegato e parallelo rispetto a questa – il momento che tutti realizzino quanto sia una vera “emergenza nazionale” (per rubare il termine all’amico Salvo Mizzi) la strutturale assenza dell’industria del venture business in Italia, e non mi si venga a dire che la decina di operatori di microVC oggi attivi e che operano con modalità da fondi di private equity ne rappresentino un baluardo. Dobbiamo considerarci a zero, o poco più, e progettare un nuovo settore industriale.

Per introdurlo, occorre:

  • dividere i percorsi di impresa
  • rivedere le definizioni
  • separare incentivi e normative
  • predisporre un salto di scala dimensionale di venti-trenta volte rispetto ad oggi.

È auspicabile che le PMI “lifestyle business” italiane seguano un percorso, ottimamente sostenuto da garanzie di Stato sul debito, dai PIR, dall’AIM, ma tutto ciò resti ben distinto dal disegnare e mettere in piedi una filiera che, basandosi sul talento e sulla ricerca, si dedichi strutturalmente attraverso le varie forme e taglie di interventi in capitale di rischio a far nascere ed allevare in Italia una moltitudine di cuccioli di unicorno, che trovino poi ancora in Italia le condizioni per crescere e generare valore grazie ad investitori di classe internazionale che oggi dobbiamo creare o attrarre. Non tutti diverranno tali, com’è ovvio in un approccio all’investimento che è largamente basato su principi statistici, dove molte startup si rivelano dei tentativi privi di sbocco.

Ma qualsiasi sia il risultato del tentativo, saranno sempre delle vittorie per il sistema paese: l’esperienza dell’aver fondato e gestito una startup, per dei giovani, è la più formativa che ci sia anche (o soprattutto) in caso di fallimento. In più, laddove le startup venture-backed troveranno un mercato redditizio, ancorché senza diventare unicorni, ci ritroveremo con degli ottimi centauri, od anche solo dei buoni MyMiniPony, che si aggiungeranno alle altre eccellenti PMI italiane.

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