Venture Capital

Startup: la parabola discendente degli unicorni



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Puntare a costruire un business sostenibile anziché raccogliere capitali di ventura per bruciare cassa finanziando una crescita smodata e senza senso. Questo il nuovo mantra per chi fa impresa nel venture business

Pubblicato il 18 set 2023

Giancarlo Vergine

Tech Entrepreneur | Crowdfunding Expert



Investimenti ed Angel Investor: come attrarli in fase di mercato in calo

Da oltre un anno, nel mondo del venture capital, stiamo assistendo ad un cambio di paradigma sostanziale per ciò che riguarda gli unicorni (startup il cui valore è pari o superiore a 1 miliardo di dollari), realtà mitologiche nate in Silicon Valley, diffusesi in tutto il mondo con un’aura ed un prestigio tali da aver generato negli anni una competizione globale tra gli imprenditori tecnologici, incentivati a loro volta dai miliardi degli investitori del venture capital.

La “perdita del corno”

Se fino a poco tempo fa ciò che importava di più era la crescita, letteralmente ad ogni costo, il nuovo mantra invece si propone di sviluppare startup sempre più sostenibili sia dal punto di vista organizzativo che economico-finanziario.

Va da sé che in questa ottica, i capitali di rischio sono sempre meno necessari, perché un business sostenibile si auto-alimenta e permette ai fondatori di essere meno imbrigliati dagli accordi con gli investitori, potendo di fatto fare, nei momenti opportuni, scelte di vendita ad aziende più grandi o corporate, senza ambire a valere più di un miliardo.

Questa nuova prospettiva, derivante in parte anche dalla crisi finanziaria intercorsa negli ultimi 2 anni, con innalzamento dei tassi di interesse, dei costi logistici e con una minore propensione dei privati (limited partner dei fondi, angels e retail) agli investimenti ad alto rischio, ha generato anche la svalutazione, e il susseguente ritorno tra i mortali, di numerosissimi unicorni (perlopiù del mondo fintech, web3 e quick grocery).

Una situazione che a inizio anno ha risuonato sulle pagine di Techcrunch, come la “perdita del corno” per la maggior parte delle aziende che si trovavano nell’Olimpo fino a quel momento, ma che a seguito delle circostanze attuali, conti non sostenibili, piani non raggiunti e capitali non raccolti, si sono dovute sottomettere al “downsize” della valutazione pur di poter continuare a finanziarsi e rimanere in vita.

Il nuovo scenario ha dunque ribaltato quelli che erano i capi saldi del venture business fino a pochi anni fa, e nella comunità tech internazionale, è iniziata a risuonare una nuova questione da risolvere: serve davvero diventare unicorni e soprattutto, ne vale la pena?

L’Unicorno: un mito creato dai VC

Partiamo dal chiarire le origini e le motivazioni alla base dell’obiettivo insito all’avvio di qualsiasi startup a livello mondiale, negli ultimi anni: diventare un unicorno.

Negli ultimi dieci anni, i tassi di interesse bassi e le storie di successo, fama e fortuna che si sono sviluppate in Silicon Valley (Facebook, Uber, Airbnb, etc.) hanno fatto sì che miliardi di dollari, privati e pubblici, affluissero nei fondi di venture capital creati per sostenere la nascita e lo sviluppo di aziende tech ad alto potenziale. Sin da subito è stato evidente che l’unico modo per la maggior parte di questi fondi di rendere redditizio il loro modello di business, fatto di management fee e carried interest, era definire per le aziende in cui investivano, il raggiungimento dell’obiettivo di valutazione di oltre un miliardo di dollari, quindi diventare unicorno.

Un obiettivo determinato dal potenziale rendimento dell’investimento commisurato al rischio. Immaginiamo di avere un fondo di venture capital di 200 milioni di dollari, somma piuttosto normale per un fondo che investe in startup series A negli Stati Uniti. Premesso, gli investitori (i limited partners, o LP) cercano rendimenti lordi (prima delle spese) di almeno 4x l’investimento – quindi circa 800 milioni di dollari, che dopo le spese (e le commissioni di gestione, i costi del fondo),diventano circa 3x il capitale investito.

Considerando che gli investitori potrebbero quadruplicare il loro denaro semplicemente comprando e tenendo azioni del Nasdaq per 10 anni, con un rischio molto più basso, l’investimento in startup ha senso di esistere se gli investimenti portano dei ritorni in un tempo inferiore, tipicamente tra i 5 e i 7 anni. Quindi solitamente un fondo di queste dimensioni, che deve raggiungere questi ritorni in un tempo limitato, ha necessità di effettuare circa 30 investimenti, sia per distribuire il rischio sia per ottenere il ritorno sperato.

Se si assume che l’equity detenuta media, per società in cui il fondo decide di investire, è pari al 10%, facendo un calcolo molto semplice, è necessario che si raggiunga un valore totale di equity delle società in portafoglio (capitalizzazione di mercato), pari a 8 miliardi di dollari, per far funzionare i numeri del modello, con una media di valore pari a circa 267 milioni di dollari per azienda.

A queste assunzioni bisogna però aggiungere alcune ipotesi determinanti, ossia che una o due imprese saranno quelle che restituiranno, statisticamente, la maggior parte del capitale investito (a causa della distribuzione della legge di potenza dei rendimenti – Power Law – secondo la quale un numero ridotto di investimenti in venture capital genera la maggior parte del valore) – quindi, ogni azienda deve avere il potenziale per valere 5 miliardi di dollari o più.

A questi aspetti di “economia del fondo” bisogna aggiungere un altro fattore determinante rispetto alla necessità dei fondi di incentivare la rincorsa agli unicorni. Infatti i VC sono spinti a raccogliere fondi sempre più grandi, portando a un circolo vizioso che mette a rischio la crescita sostenibile delle startup, in quanto sono incentivati a farlo perché possono ottenere significative commissioni di gestione (management fee) mentre investono e non devono necessariamente attendere le exit delle aziende del loro portafoglio. Ovviamente questo meccanismo li spinge a cercare investimenti sempre più ingenti per massimizzare i profitti. A dimostrazione di ciò, si osserva come negli ultimi cinque anni, le dimensioni medie dei fondi in Europa sono raddoppiate rispetto al passato, riflettendo questa tendenza globale.

Man mano che i fondi crescono cresce anche la necessità di investire in aziende che possano portare risultati sempre maggiori per restituire il capitale agli investitori. Ciò implica che i VC puntino a investimenti in aziende cosiddette “decacorn” (con valore maggiore o uguale a 10 miliardi di dollari) e centacorn (con valore maggiore o uguale a 100 miliardi di dollari). Questa corsa all’investimento ad alto rischio fa sì che gli imprenditori, fondatori di aziende tech ad alto potenziali, siano maggiormente portati a prendere decisioni più audaci e a perseguire obiettivi ambiziosi, molto spesso lontanissimi dalla realtà, per attrarre questo tipo di capitali.

Infatti, questo ambiente competitivo crea una cultura che incentiva i fondatori ad assumere rischi irrazionali e una forte spinta a cercare l’obiettivo di diventare “unicorno”. Questa pressione li porta a iniettare grandi quantità di denaro nell’azienda, incoraggiandola a spendere aggressivamente e a crescere a tutti i costi.

Maggiori i finanziamenti, minori le prestazioni

Una ricerca coordinata da CB Insights ha gettato luce su questa situazione. Anche dopo l’IPO, le startup che hanno ricevuto maggiori finanziamenti tendono a ottenere prestazioni inferiori rispetto a quelle che invece hanno raccolto meno. Le aziende che hanno raccolto la maggior quantità di denaro hanno quasi uniformemente faticato a creare crescita a lungo termine. Questo dimostra che il modello “più grande è meglio” dei VC, ossia quello che indirizza la crescita verso la trasformazione in Unicorno, non è sempre la strada più sicura per il successo delle startup.

Sebbene il finanziamento cospicuo possa aumentare la probabilità che un’azienda cresca velocemente e diventi un unicorno, allo stesso tempo e con la stessa intensità aumenta anche il rischio di fallimento. Investire somme esagerate può portare a sprechi, sprechi di risorse preziose e a decisioni sbagliate nella gestione dell’azienda. Ciò può compromettere la stabilità finanziaria dell’azienda e portarla verso il fallimento.

Parola d’ordine: crescita sostenibile

Quindi, cosa dovrebbero fare i fondatori di startup in questo scenario? La risposta potrebbe essere quella di resistere alla pressione dei VC e adottare una strategia più sostenibile. Concentrarsi sulle entrate, puntare a una crescita graduale e raggiungere la redditività potrebbe essere una via più prudente per costruire un’azienda di successo nel lungo termine, abbandonando di fatto la rincorsa ai capitali di rischio e ai finanziamenti plurimilionari dei fondi.

Il mondo dei VC offre sicuramente opportunità e risorse preziose per le startup, ma è essenziale per i founder capire i rischi associati a questa strada. La corsa all’obiettivo del Unicorno potrebbe sembrare allettante, ma è importante valutare attentamente se è davvero il percorso migliore per il successo sostenibile dell’azienda. In fondo, non tutte le startup hanno bisogno di diventare unicorni per raggiungere l’obiettivo di un’eccellente crescita e profitti duraturi.

In fin dei conti fare impresa in modo sostenibile, significa costruire ciò che le persone desiderano focalizzandoti sui clienti target per ottenere successo, ossia vendite e ricavi.

In questo modo l’imprenditore ha meno vincoli e obiettivi “maestosi” imposti dai VC, e ciò gli permette di prendere decisioni importanti, ottenendo risultati, inferiori in termini di ricchezza generata, ma in qualche modo in un percorso meno tortuoso e più lineare.

Il caso di Auctomatic

Ad esempio nelle dinamiche seguite dall’ imprenditore irlandese Patrick Collison che prima ha creato Auctomatic, un’azienda di software che ha sviluppato strumenti per la piattaforma eBay. Poi ha raccolto circa 400.000 dollari di finanziamento da Y Combinator e dal noto investitore Chris Sacca, in una fase di accelerazione, per poi essere acquisita per 5 milioni di dollari nel marzo 2008.

Liberato dalle preoccupazioni finanziarie e in grado di correre rischi più grandi, Patrick ha presto iniziato a lavorare su una nuova idea con suo fratello John. Quell’azienda, Stripe, vale ora miliardi di dollari.

Poi ci sono aziende di grande successo che non hanno mai raccolto capitali dai VC o ne hanno raccolti solo pochi. Guarda Mailchimp (non ha raccolto nulla, Exit per 12 miliardi di dollari) e Zapier (raccolto 1,3 milioni di dollari, ora vale circa 5 miliardi di dollari).

Un altro esempio classico è Microsoft. Bill Gates e soci hanno raccolto solo 1 milione di dollari di finanziamento dai VC nel 1981, mentre l’azienda stava già guadagnando.

Un cambio di paradigma anche per i VC

I tassi di interesse sono aumentati e il capitale di rischio è ora scarso. Gli incentivi per i VC sono cambiati di conseguenza anche la narrazione è cambiata: ora i VC apprezzano i profitti a discapito di una crescita folle e non sostenibile.

Ma il principio fondamentale del business non è mai cambiato. Le aziende esistono per fornire un prodotto o servizio prezioso e, prima o poi, per ottenere profitto.

Così anche i VC stanno iniziando a guardare ad aziende che abbiano “great numbers and an amazing story to tell” – buoni numeri e una fantastica storia da raccontare, parafrasando le parole di un investitore ed LP di un importante fondo della Silicon Valley con il quale ho avuto un interessante scambio qualche tempo fa.

Dunque, cosa cambia? I fondi hanno sempre capitali da investire, ma ora per farlo cercano progetti che possano portare concretamente ad una crescita sostenibile, generando valore, e non soltanto crescita esasperata, come prevedeva il paradigma qualche tempo fa, dove pur di crescere si sacrificava la redditività e talvolta la bontà del modello di business.

Ovviamente le valutazioni al ribasso sono diventate la norma quest’anno, poiché i VC e gli investitori stanno cercando di riportare le valutazioni alla realtà con conseguente perdita del titolo di “unicorno” per gran parte di quelli che fino ad oggi erano nel “branco”.

Conclusioni

“Non si tratta solo di mantenere o meno lo ‘status di unicorno’, ma piuttosto se saranno finanziabili, a qualsiasi valore, punto”.

Per investitori come Kirby Winfield, founding general partner presso Ascend VC, l’80% degli unicorni di oggi probabilmente non vale più $1 miliardo a causa delle aziende quotate sui mercati azionari che sono loro comparabili. A differenza delle startup in fase iniziale, che sono troppo lontane dal diventare pubbliche per essere un buon indicatore, ritiene che le aziende in una fase successiva subiranno un destino simile a quello delle loro controparti quotate in borsa, che da un po’ stanno soffrendo.

“Probabilmente l’80% degli unicorni non vale effettivamente $1 miliardo in questo momento”, ha detto Jon Lehr, co-fondatore e general partner di Work-Bench.

“La maggior parte vedrà il suo corno (o le sue ali?) tagliato, poiché non può più rimandare le raccolte di fondi e avrà bisogno di raccogliere fondi con valutazioni al ribasso”.


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