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Startup tech nel mirino della finanza mondiale. Italia assente, ma non tutto è perduto

Il nanismo del Paese sulla scena internazionale della generazione di nuove imprese tecnologiche è ormai chiaramente da imputarsi alle mancanze culturali e di know-how del nostro ecosistema, ma siamo ancora in tempo. A patto di cambiare le regole, ora

Pubblicato il 08 Set 2021

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

Quello che sta accadendo fuori dall’Italia nel mondo delle startup, negli ultimi mesi, è sempre più evidente a chi osserva i macro movimenti del settore: fondi hedge, pensioni, private equity, spac, stanno investendo pesantemente e soprattutto iniziano a farlo in modo diretto competendo con gli operatori tradizionali del venture capital, portando ad una crescita delle valutazioni ma soprattutto a dotazioni finanziarie crescenti per sempre più ambiziose innovazioni proposte da quegli imprenditori tech di talento che tentano di innovare e ridefinire interi mercati.

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I grandi gestori dei fondi scommettono sulle startup tech

Stando agli ultimi dati PitchBook, negli USA i gestori non tradizionali del venture hanno partecipato al 42% dei round in startup nel secondo trimestre di quest’anno, round che hanno rappresentato più del 75% del capitale totale investito nel periodo. Il risultato è che le previsioni per la Silicon Valley sono quelle del raddoppio degli investimenti, nel 2021 rispetto ad un 2020 già da record, grazie all’arricchimento della scena da parte dei gestori di una tipologia di asset class – che un tempo era esclusiva di una nicchia di operatori – ora affollata da soggetti molto più grandi di quelli storici, e che sono in cerca degli appetitosi rendimenti del venture business.

I grandi gestori di fondi hanno enormi disponibilità di capitali, si muovono velocemente e offrono condizioni di gran vantaggio agli imprenditori senza richiedere ruoli di CDA o coinvolgimento nelle decisioni aziendali rispetto ai venture capitalist storici, a sentire i founder che stanno beneficiando di questa ventata di concorrenza che si sta traducendo in una forte accelerazione nella conclusione di round di taglia elevata.

Questi soggetti nei mercati maturi hanno sempre allocato una parte del proprio portfolio come limited partner di fondi tradizionali di Venture Capital, sottoscrivendone la dotazione per investire in modo indiretto. Ma meno di un decennio fa molti di questi hanno iniziato anche ad investire direttamente, a causa della decrescente redditività dei capitali, andando alla ricerca del capital gain nelle startup tech. Per anni i venture capitalist hanno sottovalutato questa tendenza, considerandosi i soli soggetti capaci ad allocare capitale nelle nuove imprese e considerando queste incursioni come del turismo occasionale. Ma i grandi gestori si sono rivelati invece persistenti e determinati a presidiare il settore in modo crescente, così che oggi la metà del capitale di rischio allocato proviene da investitori venture non tradizionali.

Il risultato di questo trend lo si riscontra in modo plateale nei numeri: tra il 2016 ed il 2019 negli USA si vedevano in media 35 operazioni di investimento al mese superiori ai 100 milioni di dollari. Quest’anno siamo ad una media di 126 round al mese di tale taglia.

Bolla o non bolla?

A chi viene da dire semplicisticamente che questo significhi “bolla” richiamando l’era delle dot com, va ricordato che la velocità con cui la ricerca sta producendo nuove tecnologie e con cui queste abilitano innovazione che può trasformare interi mercati sta crescendo, e non si tratta più esclusivamente di informatica o di servizi via web: ormai non c’è settore né gigante industriale che non possa vedere un proprio dominio pluridecennale messo in discussione da una nuova società costruita intorno ad una visione trasformativa, per cui la finanza è ben propensa a dotare di mezzi patrimoniali crescenti chi dimostra sufficiente ambizione e capacità di esecuzione nell’aggredire un settore. Questi numeri, quindi, significano che gli Stati Uniti stanno creando 126 nuove grandi imprese di ambizione globale al mese. Diverse falliranno? Può darsi, ma diverse altre no, e presidieranno i propri mercati negli anni a venire, garantendo profitti, dividendi, e posti di lavoro.

L’innovazione accelera, apre ad opportunità di generazione di valore, la grande finanza ci punta sopra scommettendo sui ritorni. E i ritorni, quando si investe spalmando il rischio in ottica di portfolio, puntualmente ci sono. Nel mondo, quindi, il gioco si fa sempre maledettamente più serio, con investitori non tradizionali che accrescono il comparto, mentre in Italia ormai – dove i gestori investitori istituzionali si guardano bene dall’evolversi ed avvicinarsi al capitale di rischio anche in forma indiretta – da un decennio procediamo in tondo intorno ai millantatori dello startup sounding senza che nemmeno il mercato degli operatori del venture trovi autonomamente una via di uscita da questo scenario.
Il nanismo del Paese sulla scena internazionale della generazione di nuove imprese tecnologiche è ormai chiaramente da imputarsi alle mancanze culturali e di know-how del nostro ecosistema, che sebbene sia punteggiato dalla presenza di alcuni (pochi) operatori virtuosi è, allo stesso tempo, del tutto incapace di operare come una filiera senza che i neoimprenditori che tentino di appoggiarvisi cadano nella trappola di un operatore improvvisato, incompetente o del tutto in mala fede. E nel difficilissimo percorso di una startup tech è sufficiente incontrare un solo soggetto tossico, per compromettere irreparabilmente il percorso e mancare il successo.

Che le cose stiano così è ormai palesato dal numero crescente di unicorni che nascono in altre nazioni ma fondati da imprenditori italiani: sebbene ancora pochi, dato che espatriare con l’intento di trovare supporto ed investimenti non è scelta da tutti, questo semplice fatto costituisce la prova che gli imprenditori italiani non siano meno capaci di immaginare e mettere a terra progetti di impresa innovativi e ad ambizione globale.

Innovazione, non tutto è (ancora?) perduto

Appresso agli USA, ormai tutte le grandi nazioni sviluppate e molte di quelle emergenti hanno investito prepotentemente nel posizionarsi in questa “industria” delle nuove imprese tecnologiche. L’Italia latita, con una arretratezza ormai stimabile in due o tre lustri, ma ha ancora l’opportunità di agganciare il treno posizionandosi come nazione-incubatore che faccia “dealflow origination” per i grandi investitori esteri, facendo leva sulle capacità e sul talento di imprenditori, innovatori, ricercatori e professionisti italiani di tutte le età che possano creare impresa, purchè questi vengano aiutati localmente nelle prime fasi attraverso schemi di venture design coerenti con i modelli internazionali.

Gli investitori italiani, tanto quelli casual che i professionali ed istituzionali, devono iper-specializzarsi nelle fasi pre-seed e seed, abbandonando ogni velleità di competere nelle fasi di investimento successive con investitori di altri Paesi che hanno la capacità di fare decine di operazioni da decine e centinaia di milioni di euro ciascuna – ognuna della dimensione totale di un medio fondo di venture capital italiano – ponendo le basi perché le startup fondate da imprenditori italiani attirino qui i capitali per scalare rimanendo imprese italiane, anziché migrare in cerca di un terreno favorevole in cui mettere le prime radici come sta accadendo ora.

Il ruolo di CDP Venture Capital-Fondo Nazionale Innovazione

Ed un ruolo chiave in questo scenario deve giocarlo Cassa Depositi e Prestiti con la sua controllata CDP Venture Capital-Fondo Nazionale Innovazione (FNI), che con una missione da “market maker” sta già da un anno adoperandosi per farci recuperare terreno attraverso una attività di investimento sia diretta che indiretta.
Con il recente arrivo del nuovo Amministratore Delegato di Gruppo, Dario Scannapieco, che arriva dall’aver goduto di un punto di osservazione privilegiato sul settore come lo European Invesment Fund, c’è l’opportunità che FNI venga potenziato consentendogli di produrre maggiore impatto nell’immediato, soprattutto nella sua capacità di investimento diretto, attraverso alcuni auspicabili affinamenti dei fondi già in campo:

  • Fondo Acceleratori, dedicato alla dotazione finanziaria di un numero di venture accelerator da far nascere sul territorio nazionale, potrebbe rendere più flessibile il suo schema di intervento allargando il perimetro anche alla creazione di venture incubator e di company builder, di cui il Paese necessita e che nel mondo iniziano ad avere un ruolo anche più rilevante degli acceleratori;
  • Fondo Rilancio, o un eventuale nuovo fondo basato su logica di intervento simile, dovrebbe allargare la platea dei soggetti su cui fare matching, affiancandosi a tutte le tipologie di investitori professionali così come anche alle finanziarie regionali imponendo il modello dell’investimento in convertendo – seguendo quello che ormai è lo standard globale nell’early stage – a tutti questi operatori, e con una dotazione incrementale rispetto a quella attuale potrebbe anche incrementare il proprio ticket massimo;
  • Fondo Evoluzione, che dovrebbe concentrarsi sulle “best in class” tra le startup italiane, necessiterebbe di una dotazione anche dieci volte superiore a quella attuale per poter avere la capacità di sottoscrivere un congruo numero di round di serie A e B di taglio comparabile a quelli internazionali.

Puntare alla qualità, non alla quantità

Allo stesso tempo, l’attività indiretta da Fondo di Fondi operata da FNI nel far nascere numerosi operatori di Venture Capital italiani andrebbe inquadrata nel perseguimento di risultati misurabili in un orizzonte di medio-lungo termine, non già puntando ad un obiettivo quantitativo di VC nominalmente iper differenziati tra loro – quando il vero problema è che troppi di questi rischiano di mancare di know-how per operare diversamente da degli small cap private equity – quanto ponendosi un obiettivo qualitativo: innanzitutto attirando primari VC esteri ad operare nel paese portando competenze internazionali in branch office locali, come fece Israele negli anni ’90, e poi finanziando first time team di nuovi fondi italiani operanti prevalentemente in fase seed ed in cui i general partner abbiano esclusivamente due tipi di provenienza: imprenditori con alle spalle exit di successo da startup tech, o partner provenienti da fondi esteri performanti di ecosistemi maturi.

Avere pochi soggetti molto validi, operanti nel Paese, posizionali sul seed e che si affianchino in numero progressivamente crescente ai fondi diretti di FNI è di gran lunga preferibile ad averne velocemente molti ma incapaci di operare seguendo le pratiche di settore. La seconda opzione non ci aiuterà a colmare alcun gap con gli altri ecosistemi maturi, che rimarranno ben più avanzati di noi mantenendoci in posizione arretrata.

Conclusioni

Ma questo non basterà comunque, perché l’azione di FNI non può essere isolata, e soprattutto non dobbiamo commettere l’errore della Francia nell’aver creato un mercato dell’offerta di capitale di rischio strettamente dipendente da allocazioni di Stato: a livello normativo sarà fondamentale revisionare le norme intorno alle startup innovative, agli incentivi per gli investitori privati ed ai fast track e alle semplificazioni che incanalino la nuova impresa e il mercato dei capitali privati in un percorso virtuoso, che migliori sia il lato della domanda di capitale di rischio da parte di nuove imprese tech davvero ambiziose, che incanalando l’offerta di capitali privati nelle forme corrette, oggi ancora marginali.

Che la scena sia quella di un fallimento di mercato, ora più che mai, è un fatto di cui è necessario prendere atto per sollevare il problema con il legislatore, che è chiamato a correggere gli errori commessi con la cornice legislativa fuorviante e contraddittoria stratificatasi in questo decennio. E’ tempo di avere percezione dell’arretratezza del Paese, di accogliere una visione d’insieme di come funzioni una filiera del venture business matura, e disegnare una strategia e una serie di azioni per arrivarci.

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