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Digital Humanities: quando la filosofia incontra il digitale

In che rapporto sono scienze umanistiche e mondo digitale? Le Digital Humanities nascono per rispondere a questa sfida. Tra tecnofili e tecnofobi, un’analisi dei diversi significati di un termine spesso abusato

Pubblicato il 18 Giu 2021

Valeria Martino

post-doc presso l’Università di Torino

interiorità realtà virtuale mito digital humanities

L’origine dell’espressione “Digital Humanities” è attribuita al testo “A Companion To Digital Humanities”, viene utilizzata da Schreibman, Siemens e Unsworth (2001) come evoluzione del concetto di “humanities computing”: l’accento è posto sul significato apportato dalla digitalizzazione alle cosiddette scienze umanistiche.

Il testo, infatti, tratta le Digital Humanities come una disciplina emergente che può esplorare i cambiamenti tecnologici di cui siamo testimoni attraverso le lenti degli studi umanistici (Schreibman 2012).

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Digital Humanities: se definirle è una sfida

Nel 2010, nel “Manifeste des Digital Humanities”, queste ultime sono state definite come “una integrazione intensa e a più livelli delle tecnologie digitali in tutti i processi di ricerca, dalla raccolta dei dati fino alla pubblicazione[1]” (Mounier 2010). Riportiamo per chiarezza esplicativa la definizione integrale in tre punti proposta dal manifesto:

1. La svolta digitale intrapresa dalla società modifica e mette in discussione le condizioni di produzione e diffusione della conoscenza.

2. Per noi, le discipline umanistiche digitali riguardano tutte le scienze umane e sociali, le arti e le lettere. Le discipline umanistiche digitali non fanno “tabula rasa” del passato. Al contrario, si basano su tutti i paradigmi, le capacità e la conoscenza specifici di queste discipline, mobilitando gli strumenti e le prospettive particolari del campo digitale.

3. Le Digital Humanities designano una transdisciplina, che porta con sé metodi, dispositivi e prospettive euristiche legate al digitale nel campo delle scienze umane e sociali. (Mounier 2010)[2]

Tuttavia, la definizione di DH non è univoca e lascia spazio a interpretazioni contrastanti. Per esempio, ci si potrebbe chiedere: se il digitale implica un elemento da cui non si può più prescindere, ha senso parlare di DH come di qualcosa di distinto rispetto alle Humanities? In che senso le prime sarebbero differenti rispetto a quanto le ha precedute?

La mancanza di univocità si può delineare addirittura come una vera e propria crisi di identità delle scienze umanistiche stesse. Per esempio, in “Defining Digital Humanities”, Stephen Ramsay afferma che il termine possa significare qualsiasi cosa: dagli studi sui media all’arte elettronica, dal data mining all’edutech, dall’editing accademico al blogging anarchico, “mentre invita drogati di codice, artisti digitali, esperti di standard, transumanisti, teorici dei giochi, sostenitori della cultura libera, archivisti, bibliotecari ed edupunks sotto la sua capiente tela” (Ramsay 2013: 239). Molto spesso, infatti, accade che le etichette e i nomi attraenti si diffondano con più facilità di quanta non ne richieda una analisi approfondita che abbia lo scopo di dare definizioni, con il risultato di un uso massiccio di una espressione che all’atto pratico, però, risulta vuota di significato.

Digital Humanities: comprendere i cambiamenti della rivoluzione digitale

Si tratta dunque di comprendere cosa succede alle cosiddette scienze umanistiche o “Humanities” quando entrano in contatto con il mondo digitale; e ciò acquisisce un duplice senso.

Infatti, da un lato, tutto ciò che è digitale si presenta come uno strumento o meglio un insieme di strumenti messi a disposizione delle scienze umane che se ne servono a tutti i livelli della ricerca, dalla messa in forma alla pubblicazione. “Si può affermare che negli ultimi decenni le discipline umanistiche siano influenzate da materiali e strumenti digitali, nonché da nuovi modi di espressione e da questioni accademiche declinate digitalmente”[3] (Svensson 2016: 3).

Ciò apre la strada a dibattiti su strumenti e problemi metodologici delle scienze umanistiche e ha condotto presto a domandarsi quale nuovo ruolo le “Humanities”, in generale, possano ottenere e che ricadute finanziarie potrebbe avere questo loro nuovo dispiegamento, all’interno di un mondo accademico che, anche a livello internazionale, sembra dare sempre meno peso proprio alle scienze umanistiche. Quest’ultimo aspetto ha comportato anche una sorta di ansietà da parte degli umanisti stessi, nei confronti del proprio futuro (Dubucs 2014).

Dall’altro lato, vuol dire porre alle scienze umane, in congiunzione con le scienze digitali, la sfida di comprendere i cambiamenti che la rivoluzione digitale ha comportato e comporterà, sia alle discipline che studiano il mondo che ci circonda sia, più in generale, al mondo stesso. Se il manifesto sopracitato rientra maggiormente nella prima opzione, più interessante ci sembra porci dal secondo punto di vista.

Da questo secondo lato, infatti, si aprono molteplici possibilità che possono anche esse definirsi in due grandi rami. Innanzitutto, sorge la necessità di interrogarsi sull’interdisciplinarietà e sulla sua possibile applicazione, sia teorica che pratica. In questo senso le DH si presentano come un ambito prettamente interdisciplinare, che riguarda certamente anche i nuovi modi di produzione e diffusione delle conoscenze (Darbellay 2012: 270), ma implicando un elemento ulteriore. Questo tipo di attenzione consente infatti di svolgere una riflessione epistemologica sui metodi propri alle scienze umane e sulle ricadute teoriche che questi metodi implicano, anche per meglio comprendere in che modo e fino a che punto questo tipo di intersezioni scientifiche sono possibili (Clement 2016).

D’altro canto, l’interdisciplinarietà, che pure ha dalla sua esempi di congiunzioni tra scienze diverse ben riuscite – come quella avvenuta all’inizio degli anni ’70 tra archeologia e scienze cognitive, o quella della fine degli anni ’50 tra teologia, filologia e meccanografia (Bénel 2014) – porta con sé delle fragilità, dovute soprattutto alla necessità di trovare un buon equilibrio e di dar vita a una riterritorializzazione delle discipline poste in campo, che non sempre appare mite, o almeno priva di criticità (Plantin 2014), soprattutto se si tiene conto degli aspetti normativo-burocratici che accompagnano la vita dei ricercatori. E questo è rilevante anche se si tiene in considerazione che, se tutti concordano nel giudicare l’ambito del digitale come in continua trasformazione, per la sua natura innovativa, spesso ci si dimentica che anche le discipline umanistiche subiscono cambiamenti, nelle teorie così come nelle pratiche.

Porsi da questa prospettiva, però, apre anche ulteriori possibilità teoriche. Significa, infatti, anche cercare di definire meglio che cosa si intenda con “digitale” e quali sfide il digitale ha posto di fronte alle nostre società e a noi stessi.

Secondo alcuni, per esempio, “il digitale comprende le tecnologie dell’informazione, i media digitali e diversi tipi di modalità, strumenti ed espressioni abilitati digitalmente”[4] (Svensson 2016: 5). Secondo altri si tratta di una vera e propria rivoluzione, che ha a che fare con nuovi mezzi di comunicazione, ma soprattutto di registrazione – laddove quest’ultimo elemento è definitivamente rilevante per comprendere la realtà sociale: “Nel digitale la registrazione precede la comunicazione, e più in generale ogni interazione con la rete lascia una traccia di sé, contribuendo a una crescita enorme di documenti, e in particolare di quei documenti che chiamiamo ‘big data’” (Ferraris 2021: 6). Il digitale allora non fornisce agli umanisti semplicemente dei nuovi mezzi, ma consente loro di porsi domande sui possibili usi degli strumenti digitali a nostra disposizione e sul significato e l’evoluzione di questi stessi strumenti.

Porsi questo genere di domande, sul significato dell’incontro tra umanisti e studiosi del digitale, comporta anche concentrarsi sull’apertura di un vasto campo di possibilità nuove per gli studiosi e i fruitori della cultura. Vuol dire, infatti, chiedersi come cambiano i nostri concetti quotidiani, che significato nuovo o vecchio attribuiamo a parole come intelligenza, socievolezza, informazione, privacy, welfare[5] e interrogarsi sulle nostre nuove possibilità e sui rischi che dobbiamo cercare di evitare.

Digital Humanities: lo scontro tra tecnofili e tecnofobi

Come quasi tutti gli aspetti legati all’introduzione di nuove tecnologie, però, ci troviamo anche in questo caso di fronte a uno scontro che vede coinvolti da una parte i fieri sostenitori delle nuove possibilità offerte dal digitale, in senso ampio, e dall’altro coloro che vi si oppongono poiché vi intravedono un pericolo o un abbandono di ideali che si piegano alle mode del momento (per es. Kirsch 2014): lo scontro tra tecnofili e tecnofobi.

Questo duplice atteggiamento riflette una tendenza tipicamente umana a entusiasmarsi e a condannare aspramente, ma al contempo permette di riflettere sul significato dell’apporto del digitale. Infatti, se consideriamo le DH nel primo significato che abbiamo cercato di delineare, il digitale si presenta come un semplice mezzo a servizio delle “Humanities” – e in questo senso può sicuramente portare a riflessioni interessanti, perlopiù interne a queste discipline che si interrogano sulle proprie possibilità, ma non costituisce di per sé alcun cambiamento di paradigma. In questo senso, condannare il digitale vorrebbe dire condannare un semplice strumento che, invece, di per sé offre grandi possibilità – che, semmai, chiedono di essere regolamentate o quantomeno indirizzate nel giusto modo.

Nel secondo significato, invece, possiamo intravedere un vero apporto innovativo. Si tratta infatti, in questo caso, di unire le capacità e i metodi propri delle “Humanities” con quelli delle discipline che studiano il mondo digitale da un punto di vista tecnico-scientifico al fine di comprendere meglio i cambiamenti che il digitale ha apportato non solo alle discipline che in un modo o in un altro se ne occupano, ma a tutti noi in quanto cittadini di un mondo sempre più digitalizzato. Se agli sviluppi tecnologici non è possibile, né tantomeno auspicabile, porre dei limiti, lo è invece porsi in maniera riflessiva davanti a questi stessi sviluppi e favorirne un uso consapevole e critico: questo lo scopo forse più interessante delle DH.

Note

  1. Trad. mia. Di seguito l’originale: “Une intégration intense et à plusieurs niveaux des technologies numériques dans tous les processus de recherche, depuis la collecte de données jusqu’à la publication”. Il testo è disponibile in open edition al seguente link: https://journals.openedition.org/jda/3652.
  2. Trad. mia.
  3. Trad. mia. Di seguito l’originale: “The humanities is affected by digital materials and tools as well as by new modes of expression and digitally inflected scholarly questions. Thus, the humanities is affected by digital materials and tools as well as by new modes of expression and digitally inflected scholarly questions”.
  4. Trad. mia. “The digital is taken to include information technologies, digital media and different types of digitally enabled modalities, tools, and expressions”.
  5. A questioni di questo tenore cerca di rispondere l’Istituto di studi avanzati di Torino “Scienza Nuova”: http://www.scienzanuovainstitute.com/

Bibliografia

Bénel, A. (2014). “Quelle interdisciplinarieté pour les « Humanités numériques » ?” Lavoisier | “Les Cahiers du numérique”, 2014/4 Vol. 10, 103-132.

Clement, T.E. (2016). “Where Is Methodology in Digital Humanities?”, Debates in the Digital Humanities, M. K. Gold and L. F. Klein (eds.), University of Minnesota Press.

Darbellay, F. (2012). “Les Digital Humanities : vers une interdisciplinarité 2.0? ”, EDP Sciences, Natures Sciences Sociétés, 2012/3 Vol. 20, 269-270.

Dubucs, J. (2014). “Digital Humanities Foundations. New Publication Cultures in the Humanities. Exploring the Paradigm Shift”, P. Dávidházi (ed.), Amsterdam University Press.

Ferraris (2021). “Documanità. Filosofia del mondo nuovo”. Roma-Bari: Laterza.

Kirsch, A. (2014). “The Limits of the Digital Humanities”, New Republic, May 2, 2014. http:// www.newrepublic.com/article/117428/limits-digital-humanities-adam-kirsch/.

Mounier, P. (2010). “Manifeste des Digital Humanities”, Journal des anthropologues, 122-123, 447-452.

Plantin, J.-C. (2014). “Les Digital Humanities. Accomplissements et défis pour un agencement post-disciplinaire”, Lavoisier | “Les Cahiers du numérique”, 2014/4 Vol. 10, 41-62.

Ramsay, S. (2013).Who’s In and Who’s Out”, Defining Digital Humanities. A Reader, M. Terra, J. Nyha, E. Vanhoutt (eds.), Ashgate.

Schreibman, S. (2012). “Digital Humanities: Centres and Peripheries”, Historical Social Research / Historische Sozialforschung, Vol. 37, No. 3 (141), 46-58.

Schreibman, S., Siemens, R. and Unsworth, J. (eds.). (2001).A Companion To Digital Humanities”. Blackwell Publishers.

Svensson, P. (2016). “Introducing the Digital Humanities”, P. Svensson, J. Thompson Klein, T. McPherson, P. Conway (eds.),Big Digital Humanities. Imagining a Meeting Place for the Humanities and the Digital Book in Big Digital Humanities”, University of Michigan Press.

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