l'analisi

Governare l’era digitale: ecco perché non si può più separare tecnologia e politica

Pochissimi governanti capiscono oggi quanto hanno bisogno dei tecnologi (possibilmente con comprensione dei regolamenti) nei loro team, eppure le figure dei tecnologi-policy maker sono essenziali per la trasformazione digitale della governance di un Paese: continuare a ignorarlo è miope e pericoloso

Pubblicato il 24 Gen 2020

Andrea Tironi

Project Manager - Digital Transformation

Artificial-Intelligence

La tecnologia sta letteralmente creando il mondo in cui viviamo e i governanti non possono che stare a guardare. Ma non possono limitarsi a questo. Sopravvivere in un futuro sempre più tecnocratico dipende da quanto tecnologici e policy maker lavoreranno insieme.

La la teoria delle due culture

Tecnologi e governanti, infatti, per molto tempo hanno vissuto in mondi separati. È un vecchio problema, che addirittura è stato individuato da uno scienziato, C.P. Snow, nel 1959, nel documento intitolato “Le due culture”. Il testo ebbe una certa diffusione, ma evidentemente non troppa presa visto che oggi siamo ancora qui a parlarne.

Quando ne scrisse Snow, la teoria delle due culture era più che altro un’interessante osservazione sulla società. Oggi è diventata nella sua evoluzione una crisi vera e propria. Ormai la tecnologia è intrecciata pesantemente con le politiche necessarie al governo di una nazione o di una comunità. In particolare, stiamo progressivamente costruendo (o si stanno formando senza il nostro controllo) dei complessi sistemi sociotecnici a tutti i livello del mondo in cui viviamo.

I software (AI, Big Data e così via) stanno modificando e incanalando comportamenti con un’efficienza che nessuna legge può raggiungere, e oltretutto senza leggi adeguate a contenerli.

Regolamentare l’AI e gestire la sicurezza delle infrastrutture, ma come?

Prendiamo proprio l’esempio dell’intelligenza artificiale per chiarire il concetto. Questa tecnologia ha la possibilità di aumentare le capacità decisionali degli esseri umani, rimpiazzando dei processi soggettivi rendendoli meno soggettivi, più consistenti in casi ripetuti, più veloci e più scalabili. Ma ha anche il potenziale di aggiungere bias comportamentali e addirittura codificare l’iniquità, o di lavorare in modalità che non sono spiegabili o desiderabili.

L’AI può essere hackerata con nuove modalità, permettendo agli attaccanti – dai criminali agli Stati  nazionali – di trovare nuovi modi di bloccare un sistema o creare danno all’attaccato. Come possiamo far fronte alle debolezze della AI pur traendone i benefici? O, più specificatamente, dove e come i Governi devono redigere regolamenti che ne traccino i limiti, in un ecosistema che è un’industria completamente guidata dal mercato? La risposta richiede una profonda comprensione sia degli strumenti di governo disponibili nelle società moderne, che della tecnologia dell’AI.

Ma l’Ai è solo una delle diverse tecnologie che hanno bisogno di supervisione regolatoria. Abbiamo anche bisogno di gestire il crescente numero di vulnerabilità associate alla cybersecurity che riguardano le infrastrutture critiche (e non) degli Stati.

Dai social alla robotica, coinvolgere i tecnologi nella creazione delle leggi

Abbiamo bisogno di capire il ruolo dei social media nel disseminare contenuti che dividono le persone o le influenzano politicamente, in modo da capire se è necessario intervenire e come per mitigare le conseguenze. Abbiamo bisogno di regolamenti che controllino l’evolversi di tecnologie come quelle associate alla bioingegneria, come la possibilità di modificare il genoma o la biologia sintetica, in modo da evitare problemi per il proseguo della nostra specie o danni al pianeta.

Stiamo a malapena al passo con le leggi sul cibo e sull’acqua in modo che non siano contaminati dall’intervento umano diretto (nella produzione) o indiretto (causa inquinamento ambientale) e vorremmo controllare la robotica che a breve diventerà una tecnologia consumer? È chiaro che non siamo pronti.

Supportare la figura del data scientist

Cercare di gestire questa situazione comporta la necessità che tecnologi e policy maker lavorino insieme a partire dal basso. Va creato un percorso o ambiente dove più tecnologi siano coinvolti nella strutturazione di leggi e regole e dei percorsi di carriera in modo da creare delle figure definite “Public interest technologist”, ovvero figure tecniche che studiano la tecnologia dal punto di vista dei regolamenti e dell’interesse pubblico.

Il concetto non è nuovo, e spesso copiare da settori o esperienze dove questo cambiamento è già avvenuto può aiutare ad accelerare il processo di integrazione.

Ad esempio, figure di questo tipo (data scientist) hanno lavorato o lavorano con Bush, Obama, in università o nelle ONG. E questi esperti conosco anche di leggi e regolamenti. Il fatto è che sono troppo pochi. Quello di cui c’è bisogno è trovarli, supportarli e scalare il processo di creazione di queste professionalità, in modo da avere sempre più figure di questo tipo.

Due aspetti in particolare sono interessanti da valutare per creare un percorso di apprendimento per queste figure. Come ogni mercato, il tema è basilare: domanda e offerta. Nel medio termine la domanda sarà sicuramente il problema più grosso. Semplicemente, non ci saranno abbastanza tecnologici interessati ad entrare nelle pulic policy. E questo problema diventerà più evidente quanto più la tecnologia continuerà a permeare la società.

Rendere attraente il ruolo del tecnologo pubblico

Per cercare di dare maggiore offerta di queste figure, c’è bisogno di creare percorsi che interessino scuole e università. Programmi di formazione di natura scientifica o tecnologica avranno bisogno di comprendere anche corsi di etica, sociologia, politiche, e UX Design. C’è bisogno di avere maggiore condivisione dei percorsi universitari per cercare di creare curricula incrociati che contengano aspetti tecnici e umanistici. Ci sarà bisogno di coinvolgere insegnanti con background e capacità molto diverse. C’è anche bisogno di potenziare le opportunità associate al lavoro presso enti pubblici per i tecnologici, o come parte del loro lavoro tradizionale, o grazie al favorire periodi sabbatici per rendersi utili per la società.

Non abbiamo bisogno di creare figure di un solo tipo, ma prendendo spunto dai giochi d ruolo, creare dei biclasse tecnologi/policy maker, degli umanisti/tecnici, che abbiano la capacità di sentire l’etica e la capacità di pensare la scienza.

I servizi pubblici devono diventare il naturale sbocco di un percorso universitario e dobbiamo renderli appetibili agli occhi dei giovani, tecnologi e non, in modo che essere un public-tecnologo abbia una sua appetibilità e possa essere un posto di lavoro rispettato che possa dare sbocchi successivi anche nel mondo privato (sebbene non pagherà mai come il privato probabilmente).

Domanda e offerta

Ma se la domanda sarà il problema del futuro, l’offerta sarà il problema del presente.

Al momento c’è poca richiesta di queste figure e laddove c’è, spesso i tecnologi vengono visti come figure semi-mitologiche, fuori posto e spesso considerati come “gli ultimi arrivati” che non conoscono le regole del gioco. Non ci sono quindi ambienti confortevoli in cui posizionarli e farli crescere per creare la generazione successiva, né nei governi, ne nelle ONG. Non ci sono posizioni di insegnamento o collaborazione nelle università. In sunto, pochissimi governanti capiscono ad oggi quanto hanno bisogno dei tecnologi (possibilmente con comprensione dei regolamenti) come parte fondamentale dei loro team.

Questo lo vediamo nel contesto italiano, dove l’Innovazione e la Trasformazione Digitale sembrano temi ancora lontani e da relegare in un angolo, come se l’ICT fosse ancora un oggetto dei tempi dei primi nerd (anni ‘90).

La necessaria trasformazione digitale della governance di un Paese

A questo scopo va fatta una piccola parentesi sul fatto che l’evoluzione dalla terza alla quarta rivoluzione industriale sia avvenuta, ma non nella consapevolezza e nella testa di tutti.

Come si può vedere dall’immagine, tratta dal libro “Edge Value Driven Digital Transformation” di uno dei padri dell’Agile Manifesto, J.Highsmith, all’inizio c’erano il business (che potrebbe anche essere il policy making per seguire il ragionamento di cui sopra) e il tech. Ed erano due mondi separati: tu (tecnico) aggiusta i pc che io (businessman) gestisco il business. Nel tempo si è passati a una pacifica collaborazione a mano a mano che la tecnologia diventata strumento per erogare il business, fino a che i confini si sono assottigliati (tech-led differentiation) al punto da non capire più i confini tra le due cose. Nel periodo di trasformazione digitale di ogni business in cui ci troviamo (incluso il business del “governare un Paese”) ormai la tecnologia è il business stesso perché la tecnologia pervade ogni aspetto. E se un’azienda non si trasforma velocemente, viene spazzata via dal mercato. Una Nazione se non si adegua velocemente, viene spazzata via dal G7-G20 e comunque dai luoghi dove è appetibile per le nuove generazioni vivere, lavorare, costruire, fare figli.

Quindi, vedendo il governare come un business, è importante che anche i policy maker capiscano che è necessaria una trasformazione digitale della governance di un Paese, che non vuol dire solo “passare dalla carta ai files”, ma soprattutto attorniarsi sempre più di figure che siano tecnologi-policy maker.

La cosa curiosa è che ancora oggi la nescienza, il non sapere di tecnologia, non sembra essere visto come una problematica deficienza, e forse è questo il vero problema di fondo. Non sapere come funziona internet, il Machine Learning, uno smartphone, vuol dire ormai non sapere come funziona il mondo che ci attornia e quindi in che modo è possibile fare policy di Governo che abbiano un senso, sia a livello locale che nazionale? E’ come fare regole di trasporto senza tenere conto che è stato inventato il treno o l’aereo, e rifacendosi ancora alle carrozze.

Questo d’altro canto non vuol dire che i policy maker debbano diventare degli esperti tech. Ci sono settori che i governanti sanno governare senza avere conoscenze approfondite, ma riescono a gestire questi settori perché nel loro staff ci sono persone che capiscono degli argomenti trattati e convogliano gli interessi del contesto associato (in forme di lobbying molto positive). Quindi devono avere tecnologici nel loro staff, e prendere atto delle tecnologie come fatti, non contraddirle perché non corrispondono alle loro visioni politiche o del mondo, peraltro abbastanza antiquate.

Il modello della sanità

L’evoluzione del modello dei regolamenti sulla sanità è un modello istruttivo. È infatti un settore che racchiude sia esperti di sanità che esperti di regolamenti. Viviamo in un mondo dove ad esempio l’importanza dei vaccini è considerata a livello globale ed è indicata in regolamenti e leggi, nonostante i policy maker non siano medici o ricercatori. Questo aiuta la società, ma prima che questo avvenisse ci sono state terribili crisi sanitarie causate dal fatto che i governanti non ascoltavano gli esperti di salute.

Concludiamo l’articolo con una domanda: nel suo libro “Future Politics” j. Susskind scrive: “i politici del ventesimo secolo erano dominati da questa domanda: quanta della vita delle società deve essere determinata dallo Stato e quanto deve essere lasciato al libero mercato e alla società stessa?” Servivano probabilmente gli economisti per rispondere.

Oggi la domanda è: “Quale parte della nostra vita può essere diretta e controllata da potenti sistemi digitali e come e dove deve intervenire lo Stato?”. Ed è per questo che servono anche tecnologici per rispondere.

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Riflessioni e traduzioni nate anche dalla lettura di: Speaking Tech to Power: Why technologists and policymakers need to work together di Bruce Schneier (https://www.schneier.com/).

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