lotta al covid

Il call center di Immuni è nato morto, se la PA resta anti-digitale

La nascita del call center nazionale non sarà di grande aiuto all’app Immuni. Il vero problema, infatti, non è tanto tecnologico, ma culturale e riguarda la troppo spesso finta dematerializzazione dei processi della PA

Pubblicato il 09 Nov 2020

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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Le vicissitudini dell’applicazione tutta italiana per il tracciamento dei contatti, Immuni, paiono non finire. Dopo le preoccupazioni per la gestione dei dati personali (su cui questa testata ha svolto ottima informazione), dopo la timidezza del governo nel promuoverla, un capitolo completamente nuovo si è aperto: se Immuni funziona, ma tutto ciò che è attorno a Immuni non funziona, Immuni non serve a niente.

La strategia di tracciamento, che doveva essere uno dei cardini della lotta alla malattia, fallisce dunque miseramente in uno dei suoi punti qualificanti. La recentissima istituzione di un call center unico risolve? Pare di no, come descritto da Agendadigitale.eu e altre testate nei giorni scorsi (ad esempio Repubblica qui e qui).

Numerosi gli anelli deboli del call center, per altro non smentiti dal ministero: pochi fondi e quindi insufficienti operatori, tempistiche non chiare, poca chiarezza normativa sulle funzioni del call center soprattutto in rapporto alle asl.

Sentenza? Il nuovo call center non salverà Immuni. Destino curioso per un’applicazione il cui scopo è salvare qualcun altro.

In queste settimane, che paiono particolarmente difficili sia per il riacutizzarsi dei contagi, e ancor di più per conseguenti provvedimenti che rischiano di mettere in ginocchio per la seconda volta interi comparti dell’economia nazionale, è giusto che questi problemi specifici vengano affrontati e per quanto possibile risolti rapidamente. Mi pare però che il momento sia buono anche per riflettere su una questione più generale, che ad un osservatore attento appare come un deprimente schema ricorrente che guasta molti tentativi di modernizzazione.

Il (vero) problema di Immuni

Prescindendo dai dettagli, il problema di Immuni può essere descritto in questo modo: in ogni catena di elaborazione dati, il risultato finale è determinato dall’anello più debole della catena. Non dall’anello più forte e neppure, come ottimisticamente si potrebbe sperare, dalla media degli anelli. Immuni funziona meravigliosamente, senza intoppi, senza errori? Le recensioni sugli store sono tutte a cinque stelle e gli utenti lodano la chiarezza e semplicità di questo orgoglio dell’Italia? Purtroppo tutto questo non serve a nulla se Immuni è (com’è evidente) solo un anello della catena, in cui le altre tappe sono gestite a base di operatori telefonici poco istruiti e disorientati, data base scoordinati e da aggiornare indipendentemente, file di attesa per esami funzionanti grosso modo con lo stesso criterio di quelle delle tessere annonarie della Seconda Guerra Mondiale, per non parlare delle tappe in cui gli eterei bit a costo zero possono poco e sono necessari strumenti, reagenti chimici, personale medico, stanze di ambulatori e ospedali, e così via.

L’articolo prima citato porta il seguente sommario: «Non viene eliminato il collo di bottiglia delle Regioni, che spesso non si fanno carico di inserire i codici dei positivi per allertare i loro contatti». E qui qualsiasi lettore che capisce qualcosa di informatica comincia a provare un senso di orrore: «farsi carico di inserire»? Ma questo non dovrebbe essere un processo automatico, immediato? E, soprattutto, pensato fin dall’inizio? Se l’informatica in molte lingue si chiama così è perché felicemente qualcuno percepì che il calcolo (su cui viene modellato il nome di computer science) è solo un caso particolare di una funzione più generale che è il trattamento di informazioni: e trattare in maniera meccanica le informazioni significa anzitutto evitare le duplicazioni e gli interventi manuali, soggetti inevitabilmente a ritardi ed errori.

Ma il problema non è solo di Immuni

Magari il problema fosse solo di Immuni: lo stesso problema si ritrova in innumerevoli casi. Qualche tempo fa, dopo aver visto l’avviso sul rimborso parziale per coloro che a Roma avevano fatto abbonamenti annuali ovviamente non utilizzabili nel periodo del lockdown, dopo aver rapidamente verificato che rientravo nella tipologia degli aventi diritto, mi sono registrato nell’apposito sito e ho iniziato a compilare la domanda. La prima impressione è stata di sollievo: il sito su cui dovevo compilarla era sì bruttissimo, inusabile per dispositivi mobili, senza rispetto per le norme di accessibilità: però funzionava, cosa che per un servizio pubblico è già tanto. Sono rimasto piacevolmente sorpreso nel costatare che il sito sapeva perfino che io ero in possesso di una tessera annuale ed esattamente di quali caratteristiche (lo so, dovrebbe essere ovvio: ma ho imparato a non dar nulla per scontato). Dopo aver terminato la domanda, ricevo una mail che mi avverte: «Ti confermiamo che la tua richiesta per accedere alle misure di tutela previste in favore degli utenti del trasporto pubblico locale dall’art. 215 del Decreto Legge 34/2020 convertito in Legge 77/2020, è stata acquisita correttamente. … Completate le verifiche formali, sarà nostra cura comunicarti l’esito del riscontro – di accoglimento oppure di diniego – corredato di tutte le spiegazioni e le informazioni necessarie. L’esito sarà fornito entro un arco di tempo coerente con le fasi dell’istruttoria, indicativamente entro novembre e comunque in un tempo congruo per consentirti di esercitare il diritto maturato entro la sua scadenza». Dunque, ricapitoliamo: un sistema informatico che è in possesso di tutte le informazioni per determinare se io sia o no nelle condizioni per aver diritto ad un rimborso, mi avverte il 23 agosto (questa la data della mail) che forse entro novembre (cioè cento giorni dopo!) avrò una riposta: una risposta che, ad occhio, richiede un microsecondo di elaborazione, viene fornita più o meno in dieci trilioni di microsecondi. (A tutt’oggi la mia richiesta risulta solo «acquisita», qualche trilione di microsecondi non è bastato al sistema per fare assolutamente nulla.) Perché? Nella mia mente scorrono immagini dell’orrore di «istruttorie» con decine di impiegati che scorrono tabulati stampati, delibere riempite di timbri che girano da un ufficio all’altro, e così via. Lo stesso identico problema di Immuni, anche se qui nel campo di un piccolo rimborso, certo meno drammatico della salvezza di vite umane.

La (falsa) dematerializzazione della PA italiana

Non è solo la mia fantasia malata che mi fa immaginare che una perfetta acquisizione di dati per via informatica venga poi completamente vanificata da procedure manuali e bizantine. Quale tempo fa un amico, che lavora nella Pubblica Amministrazione, mi raccontò di come nel suo ufficio era stata realizzata la «dematerializzazione» degli atti. Fino al giorno prima, un apposito ufficio doveva esaminare decine di domande presentate, decidere sulla loro accettabilità, trascrivere su moduli di carta i numeretti corrispondenti alle decisioni, portare a mano il faldone nell’ufficio del piano di sopra, dove impiegati erano addetti a leggere i moduli e trascrivere a mano i numeretti nel sistema informatico (ovviamente con inevitabili ritardi e possibili errori). Ora finalmente tutto dematerializzato! Cioè? L’apposito ufficio esamina le decine di domande presentate, decide sulla loro accettabilità, trascrive i numeretti corrispondenti in documenti Excel, che vengono spediti per posta elettronica all’ufficio del piano di sopra, dove impiegati sono addetti ad aprire nel loro computer il foglio Excel e trascrivere a mano i numeretti nel sistema informatico. (Ma non c’è un ufficio informatico che si preoccupi di creare un flusso di lavoro minimamente efficiente? Sottodimensionato e impegnato a fare altro, fu la risposta che ricevetti.) Neppure un secondo risparmiato (anzi probabilmente perduto, perché compilare un foglio Excel è leggermente più lungo che scrivere su un foglio di carta): e la Pubblica Amministrazione continua a pagare decine di ore di lavoro che potrebbero essere impiegate in compiti che davvero solo un essere umano può svolgere. Ancora una volta lo stesso problema, anche se sotto una forma un poco diversa.

Conclusioni

Il problema è che l’informatica con le sue applicazioni è ancora troppo legata ad un’aura di magia, e poco a una cultura. L’aura di magia è quella che fa esultare se da qualche parte ci sono lucette che si accendono come nei vecchi film di fantascienza, per esempio. Una cultura informatica sarebbe, per esempio, quella che ogni volta che si parla di dati da «comunicare», da «copiare», da «inserire» in un sistema all’altro, fa comprendere che qualcosa non funziona. L’intercomunicabilità dei dati, la loro accessibilità in tempo reale da parte di tutti i sistemi che li utilizzano, non è un grazioso optional, è la ragion d’essere stessa dei sistemi che gestiscono informazioni. E tutto questo andrebbe compreso non cinque mesi dopo, come nel caso di Immuni: ma cinque mesi prima: quando cioè un sistema viene progettato.

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