sostenibilità ambientale

Criptovalute più “green”: cosa può fare l’Italia alla Presidenza del G20

Cosa può fare l’Italia per il Green Deal, nell’anno della sua Presidenza del G20? Due le possibili linee di azione: una volta a favorire un’evoluzione della blockchain e delle criptovalute verso le soluzioni più eco-sostenibili e l’altra volta a legittimare le criptovalute con un embrione di regolamentazione condivisa

Pubblicato il 15 Lug 2021

Diego Fulco

Direttore Scientifico Istituto Italiano per la privacy e la valorizzazione dei dati

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In un mondo dove l’accordo sul clima si era arenato per l’indifferenza del Presidente degli Stati Uniti e dove sulla pandemia si sono viste più recriminazioni che collaborazione, può suonare illusorio immaginare trattati internazionali che diano una disciplina-base alle criptovalute e che modifichino i modelli energetici.

L’Italia, nell’anno della sua presidenza del G20 potrebbe cominciare a porre le basi del cambiamento. Ma andiamo per gradi.

Criptovalute killer dell’ambiente? Sì, ma ci sono anche le alternative “green”

Le ricadute ambientali connesse al Proof of Work

Il mondo delle criptovalute corre veloce, come le sue transazioni peer-to-peer. Solo poche settimane fa, discutevamo degli impatti climatici connessi al processo di validazione delle transazioni svolto dai miners (data center con enormi risorse computazionali). Dopo avere a lungo sostenuto le criptovalute, Elon Musk ritirava con un semplice tweet la sua apertura ai pagamenti delle Tesla in Bitcoin almeno fino a quando non saranno risolte le ricadute ambientali connesse al Proof of Work, l’energivoro sistema di validazione delle transazioni fondato sul mining. Da più parti, si faceva notare che:

  • un buon numero di miners ha scelto di stabilirsi in Cina, acquistando o prendendo in affitto pezzi di terra o capannoni in Regioni estesissime e poco abitate, e poi sfruttandoli per installarci giungle di cavi dedicate al mining;
  • il modello energetico della Cina è ancora basato sul carbone, produttore di emissioni CO2 e polveri fini, avvelenatore del clima.

Adesso i giornali riportano che il prezzo di Bitcoin è sceso perché la Cina ha ordinato alle sue banche di interrompere le transazioni in criptovalute. La verità è che in Cina le criptovalute non hanno mai avuto un riconoscimento legale. Non solo: già negli anni scorsi, almeno in alcune Regioni, l’Amministrazione aveva adottato provvedimenti per costringere i miners a sloggiare. Certo, la prospettiva che ha indotto lo Stato cinese a questi interventi è differente dalla nostra: sul piano energetico, impedire sprechi e/o utilizzi parassitari di un bene pubblico (l’elettricità); sul piano monetario, la supremazia del controllo statale.

Fatto sta che oggi più che mai sarebbe azzardata un’equazione Proof of Work e mining = Cina. La realtà è molto più complessa. Anche nel nostro Occidente attento alla sostenibilità ambientale ci sono terreni propizi per i miners. Negli Stati Uniti, l’assenza di una politica e di una legislazione federale in questi ambiti ha permesso al Kentucky di varare specifiche agevolazioni fiscali per attrarre miners. Obiettivo dichiarato: diventare un leader nazionale nelle industrie emergenti che utilizzano notevoli quantità di energia.

Se il bitcoin ride, l’ambiente piange? Le soluzioni per una blockchain “verde”

Dovremmo smetterla di inseguire il rapporto fra le innovazioni tecnologiche epocali, con le loro ricadute sociali ed economiche, e i cambiamenti climatici epocali. Per “inseguire” intendo: accorgerci tardi del problema e illuderci di affrontarlo con soluzioni correttive (divieti, sanzioni, agevolazioni) a livello regionale. Criptovalute e sostenibilità ambientale sono due lati non più trascurabili del prisma della globalizzazione.

Trattati internazionali per disciplinare le criptovalute: un’illusione?

La storia del diritto internazionale è fatta di stop and go, di silenziosi lavori preparatori che hanno permesso la maturazione di decisioni comuni e la firma di trattati. Pur consapevoli delle tante difficoltà politiche e giuridiche, non vogliamo rinunciare a scrivere messaggi nella bottiglia e nemmeno a sperare che vengano letti, e che la diplomazia sopperisca all’inconciliabilità di interessi, vincoli e mentalità nazionali.

C’è una sede ufficiale dove si discutono, fra l’altro, questioni critiche dell’economia globale, del commercio e degli investimenti, dello sviluppo, dei cambiamenti climatici e dell’energia, della digitalizzazione. È il G20, forum globale delle principali economie (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Repubblica di Corea, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti d’America) e Unione Europea. Nel 2021, la Presidenza del G20 è affidata all’Italia. Il vertice dei Leader si terrà a Roma il 30 e 31 ottobre[1].

Fra mille intralci, il tema della lotta al cambiamento climatico e all’emissione dei gas serra è ufficialmente sul tavolo. Anche se i Paesi presenti nel G20 rappresentano soltanto il 60% della popolazione mondiali, coprono circa l’80% delle emissioni in atmosfera mondiali; dunque, una larghissima maggioranza delle emissioni. Inoltre, essi possono avere un’influenza determinante sulle decisioni dei Paesi che non vi presenziano, grazie alla loro capacità di leadership e alle loro interazioni geopolitiche con tutti gli altri.

Cosa può fare l’italia?

Cosa può fare l’Italia per il Green Deal, con questa sua Presidenza? Anzitutto, può creare consenso attorno all’obiettivo di arginare il cambiamento climatico e ottenere un impegno di tutti a permettere – a G20 concluso – una verifica sull’effettivo rispetto degli impegni che assumeranno. Poi, può insistere sulla de-carbonizzazione, mediante l’istituzione della Carbon Tax e il superamento dei sussidi ai combustibili fossili che non risulti però troppo penalizzante economicamente per i Paesi poveri e per le loro popolazioni.

A Venezia, è già iniziata una serie di eventi del G20 collegati alle materie economico finanziarie. Noi ci auguriamo che ci sia un confronto sulle criptovalute, non limitato ai temi del contrasto all’evasione fiscale e di standard crittografici, ma aperto a tracciare alcune linee condivise sul loro valore legale, ammissibilità, limiti e soggezione ad eventuali controlli. Sarebbe magnifico se da questo G20 a Presidenza italiana emergessero due linee:

  • una sull’ambiente, idonea (per quello che qui ci interessa) a favorire un’evoluzione della blockchain e delle criptovalute verso le soluzioni più eco-sostenibili di validazione delle transazioni;
  • l’altra sulle criptovalute in sé, volta a legittimarle, con un embrione di regolamentazione condivisa (eventualmente, all’inizio, una Dichiarazione congiunta, destinata in futuro ad evolvere in un trattato).

In questo G20, sarebbe ora di:

  • riconoscere l’utilità sociale sia della decentralizzazione connessa alla blockchain sia della disintermediazione (con riduzione di costi e di tempi) tipica delle criptovalute;
  • superare l’equivoco concetto di privacy come inteso nel mondo delle criptovalute (cioè, come anonimato).

Conclusioni

Gli accordi internazionali volti a favorire gli scambi di informazioni fra Stati e il comune contrasto ai reati fiscali e al riciclaggio dovrebbero andare di pari passo con la presa d’atto del successo delle criptovalute nel commercio internazionale e con un inquadramento giuridico: prodotto finanziario, moneta, oppure altro. Regole minime internazionalmente condivise di sicurezza dei dati personali, di trasparenza e informazione verso gli utenti, di qualità del servizio, se abbinate a un riconoscimento del valore legale delle criptovalute, possono convivere con la vocazione libera di queste ultime, e offrire un contributo all’innovazione.

  1. Per capirne l’importanza, preziosi gli articoli di Luca Franza su https://formiche.net/ e di Antonio Villafranca e Matteo Villa su https://www.ispionline.it.

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