social e lavoro minorile

Baby influencer: l’inquadramento lavorativo dei minori nella creator economy

Quand’anche un ragazzo avesse l’età giusta per iscriversi a un social (14 anni), bisognerebbe comunque aspettare altri due anni per poter guadagnare, recte lavorare (16 anni). Eppure, al momento, nessuno si pone il problema del lavoro minorile quando si tratta di creator economy. Ecco perché e come affrontare la questione

Pubblicato il 16 Nov 2022

Paolo Iervolino

Comitato Scientifico di Assoinfluencer - Assegnista di ricerca in diritto del lavoro Università di Palermo

baby influencer

Nel momento in cui i minorenni diventano soggetti attivi all’interno dell’ecosistema dei social network, ad esempio come baby influencer, l’età diventa un fattore rilevante per un corretto inquadramento giuridico della loro attività lavorativa assumendo un ruolo fondamentale in un più ampio quadro di ricerca di responsabilità e tutele.

La partecipazione dei minori ai social network

Come dimostra l’Osservatorio Nazionale sull’Influencer Marketing (ONIM) nei suoi molteplici e sempre accurati report, la Generazione Z è indubbiamente quella che passa più tempo sui social network[1]. Sembrerebbe, infatti, che social network e nuove generazioni siano un binomio quasi perfetto[2]. Al punto che non sarebbe poi così assurdo ipotizzare già da oggi che, nel prossimo futuro, sarà la Generazione Alpha a proseguire nel dominio di queste piattaforme.

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Ma la presenza delle nuove generazioni implica, ovviamente, una loro iscrizione ai social network. E sebbene noi “maggiorenni” diamo per scontato questo presupposto, dal punto di vista giuridico la realtà è molto più complessa di quel che si potrebbe pensare.

In Italia, infatti, l’età minima per iscriversi a un social network è stata individuata nel floor di 14 anni, ai sensi dell’art. 2-quinquies, d.lgs 196/2003 aggiornato al d.lgs 101/2018, attuativo del regolamento (UE) 2016/679, sulla tutela dei dati personali, il c.d. GDPR (Regolamento 2016/679). A meno che i genitori non abbiano prestato il loro consenso, in quel caso gli under 14 potranno iscriversi anche prima.

I nodi irrisolti del consenso dei genitori

Il punto però è che il consenso deve essere verificato dalle stesse piattaforme nelle modalità di cui all’art. 8 del GDPR, una vera e propria formula di stile, che rende, a tutti gli effetti, la disposizione una lettera morta. Perché come può un social network davvero adoperarsi «in ogni modo ragionevole» per verificare che i genitori abbiano prestato il proprio consenso all’iscrizione del proprio figlio sulla piattaforma? E tant’è che il Garante della Privacy ha imposto a TitkTok il blocco degli account di coloro verso i quali la piattaforma non era stato in grado di accertare l’età minima prevista dal GDPR (vedi il provvedimento n. 20 del 22 gennaio 2021).

Come è stato risolto il problema da parte del social network? Chiedendo dal 9 febbraio 2021 al 21 aprile 2021 a oltre 12 milioni e mezzo di utenti italiani di confermare di avere più di 13 anni.

Della questione del consenso dei genitori nemmeno l’ombra. Dobbiamo desumerne che né il Garante della Privacy, né TitkTok siano a conoscenza della deroga? Certamente no, semplicemente comprendono i suoi limiti applicativi e preferiscono risolvere il problema a monte, eliminando i profili ambigui (ma anche così, siamo davvero certi che non vi siano più under 14 su questa piattaforma?).

Il fenomeno dei baby influencer

Il punto però è che le nuove generazioni non sono solamente spettatori, sono a tutti gli effetti soggetti attivi dei social network, partecipano e plasmano i trend al pari di tutti gli altri utenti. Anzi, in alcuni casi molto più dei comuni utenti: basti pensare, solamente per fare qualche esempio d’oltre oceano, a Ryan Kaji (nato il 6 ottobre 2011) che con il suo canale YouTube è a quota 30 milioni di follower per un totale di oltre 47 miliardi di visualizzazioni a giugno 2021 ovvero alle gemelline Taytum e Oakley Fisher (nate il 23 giugno 2016) che su Instagram hanno poco meno di 30 milioni di follower.

Un’ipotetica cancellazione del profilo finirebbe dunque per avere ripercussioni anche economiche, perché precluderebbe a questi utenti di guadagnare: sia che lo facciano per il tramite del social network stesso (come content creator), sia per il tramite di imprese esterne (come influencer).

Lo stato dell’arte in Italia

Ma prima di porre questo problema, dovremmo chiederci fino a che punto sia legittimo guadagnare, in Italia, se non si è “maggiorenni”. Perché l’eventuale riconduzione della creazione di contenuti a un contratto di lavoro porterebbe inevitabilmente a dover fare i conti con il tema del lavoro minorile, di cui alla l. n. 977/1967. In Italia, infatti, un minore può lavorare solamente se ha compiuto i 16 anni di età, quando cioè si presume che abbia assolto il cosiddetto obbligo di istruzione (art.1, comma 622, della legge 27 dicembre 2006 n. 296).

Ciò significa che, quand’anche un ragazzo avesse l’età giusta per iscriversi ai social network (cosa che non possiamo, a questo punto, nemmeno dare per scontato, visto quel che è successo con TikTok), bisognerebbe comunque aspettare altri due anni per guadagnare, recte lavorare (14 per iscriversi e 16 per lavorare).

Eppure, allo stato attuale non sembrerebbe essersi ancora posto un problema del genere.

La ragione è sociologica, prim’ancora che giuridica e la sintesi di questi aspetti trova perfetto riscontro nella funzione di Assoinfluencer: guadagnare sui social network non viene considerato ad oggi conseguenza di “vero” lavoro. E le somme che vengono percepite sono comunque indebite a fronte dell’impegno che comporta, ecco perché non vi sarebbe motivo di porre il problema dal punto di vista sociologico.

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La deroga al lavoro minorile

Dal punto di vista giuridico, invece, se vogliamo essere precisi, mancherebbe spesso anche l’obbligo – nel senso proprio di obbligazione – di creazione dei contenuti (come content creator, ma anche come influencer). Il problema del lavoro minorile, tuttavia, potrebbe anche non essersi posto perché è la legge che ammette delle deroghe. L’art.4, infatti, permette di lavorare al minore di 16 anni nei casi di «attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché si tratti di attività che non pregiudicano la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale».

Ecco perché, allora, non si è posto il problema del lavoro minorile: l’attività di creazione dei contenuti, pur nella sua specialità, può essere indubbiamente ricondotta a quella dello spettacolo[3]. Se riconducessimo, infatti, il content creator e l’influencer ad un lavoratore dello spettacolo, non vi sarebbe più una vera e propria causa ostativa di guadagno, recte lavoro. Purché però – è lo stesso art. 4 che lo pone in premessa ai fini della legittimità della deroga – vi sia l’autorizzazione da parte «dei titolari della potestà genitoriale» a fare questa determinata attività.

Ma non era proprio da qui che eravamo partiti?

Note

  1. https://www.onim.it/wp-content/uploads/2021/06/Gen-Z-Report-versione-free.pdf.
  2. Basti guardare la partnership tra ObservatoryZed ed Assoinfluencer.
  3. Sia consentito il rimando a Iervolino, P. (2021). Sulla qualificazione del rapporto di lavoro degli influencers. Labour & Law Issues, 7(2), I.26- I.51.

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