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Big tech, quali alternative a un’antitrust ormai inadeguato

Il focus repressivo messo in atto dalle autorità antitrust mondiali non sembra impensierire più di tanto le Big Tech, che continuano tranquillamente a macinare profitti e a violare il diritto alla concorrenza. Riusciranno le nuove norme Ue a intaccarne lo strapotere? In gioco ci sono i nostri diritti

Pubblicato il 18 Ott 2022

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

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Dall’UE agli USA, dalla Corea al Giappone, passando per Cina e Australia: le violazioni del diritto alla concorrenza operate delle Big Tech, in modo particolare con gli App Store, sono nel mirino delle Autorità Antitrust di tutto il mondo.

Gli effetti anticoncorrenziali delle grandi aziende digitali e le ripercussioni in termini di pratiche di esclusione, abuso di posizione dominante, fusioni e acquisizioni che alterano il libero gioco della concorrenza, sono infatti evidenti.

Altrettanto sono ben note le preoccupazioni, su entrambe le sponde dell’Atlantico, in termini di possibili violazioni del diritto della concorrenza, riguardo all’operato specifico dei grandi intermediari digitali.

Google, Facebook, Amazon And The Future Of Antitrust Laws

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Da Seattle a Pechino regolamentare lo spazio digitale appare, dunque, un’esigenza ineludibile ben al di là del “dovere” di promuovere la tutela dei valori e dei diritti fondamentali.

Un focus repressivo che, tuttavia, almeno in occidente non sembrerebbe destare particolari preoccupazioni ai colossi tecnologici del web. Le sanzioni dell’Antitrust contro i colossi digitali non bastano a contrastare le pratiche di concorrenza sleale adottate dalle grandi multinazionali tecnologiche americane e neppure intaccano le loro previsioni di guadagno.

La percezione di un’inconsistenza della risposta sanzionatoria è invero piuttosto evidente così come sempre più evidente è l’inadeguatezza dell’attuale impianto normativo antitrust.

Riuscirà il pacchetto Ue sui mercati e i servizi digitali a correggere il tiro?

App store nel mirino Antitrust: le strane contromosse di Apple e Google

Facciamo il punto sulle iniziative europee per contenere lo strapotere delle big tech e sullo stato dell’arte nel resto del mondo.

Partiamo da Google.

La maxi-multa a Google da parte della Ue

L’UE ha deciso che Google LLC e la sua società madre Alphabet Inc., in un arco di oltre sette anni, hanno abusato della loro posizione dominante su diversi mercati.

Il 14 settembre 2022, con sentenza ECLI:EU:T:2022:541 il Tribunale dell’Unione Europea a Lussemburgo ha confermato in larga parte[1] la storica decisione Google Android della Commissione Europea del 18 luglio 2018.

Il ricorso presentato da Google, rubricato come T-604/18, è stato dunque sostanzialmente respinto e si è concluso con una modesta riduzione dell’importo della sanzione originariamente irrogata, fissandolo a 4,125 miliardi di euro[2]: ciò tenuto conto di alcune specifiche circostanze del caso.

In particolare, la procedura sanzionatoria per comportamenti anticoncorrenziali del colosso americano era stata introdotta dalla Commissione europea[3] nel 2015 e si era conclusa con una sanzione di €. 4,343 miliardi (la più onerosa sanzione antitrust mai comminata in Europa).

Google venne ritenuto responsabile di condotte anticoncorrenziali continuative tese a favorire restrizioni e vessazioni illegali a scapito dei produttori di dispositivi mobili Android e degli operatori di reti mobili.

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La violazione contestata si riferiva, dunque, all’articolo 102 TFUE e all’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE): ovvero alla fattispecie nota come abuso di posizione dominante[4]. Ai sensi del Diritto Antitrust europeo da una condizione di posizione dominante non scaturisce a priori una condotta di per sé vietata, bensì illegale solo se idonea a generare sfruttamento abusivo da parte dell’azienda del proprio potere economico derivante da tale posizione.

In pratica le entità economiche che godono di tale posizione sono autorizzate a competere in base ai propri meriti come qualsiasi altra impresa, purché operino in ottemperanza del principio di correttezza leale tra imprenditori e di trasparenza del mercato, astenendosi dall’attuare comportamenti che possano pregiudicare il mercato degli altri Stati Membri con il risultato di falsare la concorrenza.

L’applicazione dell’art. 102 prevede, dunque, la determinazione giudiziale di due step: il primo riguarda la qualifica della posizione dominante, il secondo l’accertamento dell’abuso.

Avverso la decisione della Commissione, Google ha promosso ricorso adducendo diverse ragioni riassumibili in tre diverse motivazioni giuridiche: a) errore nella definizione dei mercati rilevanti, b) presunta valutazione fuorviante del carattere abusivo delle restrizioni oggetto della controversia e c) ritenute irregolarità incidenti sui propri diritti di difesa, dalla lesione del diritto alla consultazione dei fascicoli, alla violazione del diritto ad essere ascoltato. Solo nei confronti di quest’ultima recriminazione il collegio giudicante ha effettivamente concluso per la sussistenza di talune criticità procedurali. Le stesse, tuttavia, sono state ritenute piuttosto inconferenti stante che non vi fosse stata da parte della società alcuna dimostrazione sul fatto che in loro mancanza Google avrebbe potuto predisporre al meglio la propria arringa difensiva.

La recente sentenza del Tribunale dell’UE è la terza sferzata dell’Antitrust europeo inflitta a Google ed è solo l’ultima, in ordine di tempo, di una serie di casi di alto profilo incidenti sulle condotte attuate dalle Big Tech e sui rispettivi modelli di business che hanno attirato l’attenzione delle autorità Antitrust non solo europee, bensì di tutto il mondo.

La Commissione UE, il 27 giugno 2017, aveva già sanzionato Google con un’ammenda di 2,42 miliardi di euro in relazione alle condotte illegali riconducibili al proprio servizio di shopping comparativo. Il caso Google Search Shopping è il primo, in ordine cronologico, facente capo a Google. Ha riguardato il mercato europeo dei servizi di acquisti comparativi all’interno del quale Google si è inserito nel 2004 con il motore di ricerca “Froogle”, in seguito rinominato “Google Shopping”.

Il 20 marzo 2019 l’UE ha inflitto a Google un’altra multa di 1,49 miliardi di euro per abusi nella settore della pubblicità online: AdSense, la piattaforma di intermediazione pubblicitaria online, gestita da Google sin dal 2003, che fornisce annunci Google su siti web terzi, c.d. “editori”.

Tutte decisioni della Commissione per le quali Google e Alphabet hanno sempre presentato ricorso in via principale presso la Corte di Giustizia Europea.

Risale a maggio 2021 il provvedimento dell’AGCM, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Italia, che ha sanzionato le società Alphabet Inc. (Holding di Google LLC), Google LLC e Google Italy S.r.l. per violazione dell’art. 102 del TFUE costringendole al pagamento di una multa di oltre 102 milioni di euro per abuso di posizione dominante relativamente all’accesso al mercato delle App.

A distanza di un solo mese, si pone sulla stessa scia l’Antitrust francese, che si è scagliato contro Google con una sanzione di 220 milioni di euro per abuso di posizione dominante nell’ambito però del digital advertisement.

Anche Amazon e Facebook nel mirino

Ma Google non è la sola azienda al centro del cerchio di fuoco dei giudici.

Amazon è stato il destinatario di una comunicazione inviata il 10 novembre 2020 per conto della Commissione relativamente ad alcuni addebiti che lasciano intendere l’uso illegale dei dati in possesso dei venditori. Ed è stata la seconda accusa, sostenuta formalmente dalla Commissione UE, che si unisce alla precedente contestazione del luglio 2019 – caso n. AT.40462 – per la quale il gigante statunitense del retail online è stato sottoposto ad indagini per trattamenti preferenziali rivolti alle proprie offerte dettaglio e di quelle dei venditori presenti sul mercato che utilizzano i servizi di logistica e consegna. Il riferimento è alle famose opzioni “Offerta in evidenza – Buy Box” (che consente ai clienti di aggiungere articoli da un rivenditore specifico direttamente nei loro carrelli della spesa) e all’etichetta “Prime”, nell’ambito del programma fedeltà Prime di Amazon.

È finito nel mirino dell’Antitrust europeo anche Facebook che, il 4 giugno 2021, ha ricevuto la notizia di un’indagine aperta dall’UE sulle possibili condotte anticoncorrenziali perpetrate dall’azienda di Zuckerberg.

La Commissione europea e l’Autorità Antitrust britannica stanno, inoltre, esaminando la regolarità di un accordo del 2018 fra Google e Facebook riguardante la pubblicità display online: Jedi Blue.

E’ del 22 settembre scorso il Comunicato Stampa n. 158/22 riportante le Conclusioni dell’avvocato generale nella causa C-252/21 | Meta Platforms e.a. che evidenziano le numerose criticità relative alla tutela dei dati personali su Facebook e sulle piattaforme collegate a “Meta” che, come lo stesso auspica, ben potrebbero costituire oggetto di ulteriori specifiche indagini da parte delle Autorità Antitrust dell’UE.

Il fronte Antitrust è globale

Riguardo agli ambiti di pertinenza dei rispettivi App Store, nel mirino finiscono le relative politiche di pagamento in-app, inclusa quella “controversa” commissione del 30% addebitata per gli acquisti in-app – implementata nello specifico da Apple e Google. Entrambi potenti gateway – esclusivo nel primo caso e principale nel secondo – attraverso i quali gli sviluppatori di app devono giocoforza passare per poter raggiungere il prezioso pubblico degli utenti. Non è un caso che sia l’App Store che Google Play Store siano sottoposti ad un’ondata di assalti da parte di autorità di regolamentazione, governi e tribunali, tanto in patria quanto all’estero.

Ma le sanzioni fin qui comminate dalle autorità europee non sembrano impensierire più di tanto le big tech.

Se infatti da una parte Alphabet, Microsoft e Meta, incassano qualche piccola delusione rispetto alle aspettative di crescita del mercato, dall’altra Apple e Amazon rimangono le due società a maggiore capitalizzazione di Wall Street, con risultati ben oltre gli obiettivi attesi.

Malgrado, nell’ultimo decennio, le varie Autorità occidentali possano aver compiuto sforzi incessanti nell’applicazione dell’Antitrust sulle piattaforme, i prezzi delle azioni dei grandi intermediari digitali continuano a battere i loro massimi livelli.

Le cose vanno diversamente in Cina dove la stretta contro i poteri privati del web è serrata e rappresenta un fattore strategico e geopolitico considerato cruciale.

Al riguardo è significativo notare come il prezzo delle azioni di Alibaba, a seguito delle rapide azioni antitrust condotte dalle Autorità cinesi, sia crollato pesantemente riportando performance di mercato ben peggiori rispetto alle controparti americane. Come dire: una “cartina tornasole” delle diverse aspettative degli investitori nei confronti delle strategie regolatorie della Commissione europea e delle Autorità americane rispetto all’applicazione dell’Antitrust cinese.

Anche la reazione immediata dei vertici del colosso cinese sanzionato è diversa. Al contrario di Google, Alibaba non ricorre in appello, bensì accettata di buon grado la sanzione irrogata (il governo cinese ha multato Alibaba per 18,2 miliardi di RMB nel 2021) e anzi si scusa pubblicamente.

La soluzione Ue per un mercato unico digitale “più sano e più competitivo”: il Digital Markets Act

Non solo tra gli economisti, ma anche tra le istituzioni politiche europee, aumentano i dubbi sull’adeguatezza dell’attuale normativa Antitrust.

Digital Markets Act in arrivo, cosa cambia per le big tech? Novità, obblighi, sanzioni

Le teorie economiche tradizionali risultano sempre più inadatte; la vaghezza delle norme del diritto Antitrust e i concetti indefiniti della disciplina della concorrenza mal di prestano, infatti, alle esigenze di giustizia e benessere sociale derivanti dallo sviluppo di un’economia digitale data-driven. Sharing Economy.

Merita di essere richiamato l’articolo capolavoro di Lina Khan (dal giugno 2021 Presidente della Federal Trade Commission degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden) “Amazon’s Antitrust Paradox”, insignito nel 2018 dall’ Antitrust Writing Award come “Best Academic Unilateral Conduct Article”, dove viene offerta una visione esauriente e chiara dell’evidente inadeguatezza delle logiche sottese alle normative antitrust attualmente vigenti.

Ovvero approcci ancora fortemente legati alla teoria dei prezzi e del “benessere dei consumatori”, misurabili negli effetti a breve termine ma, del tutto disallineati, tanto in America quanto in Europa rispetto alle architetture del potere di mercato dell’economia moderna.

Con il suo zelo missionario per i consumatori, Amazon ha marciato verso il monopolio cantando la melodia dell’Antitrust contemporaneo” scrive Lina Khan.

Le piattaforme digitali attive nei settori online sono infatti “intermediari multi-faccia” (ben diversi da settori e industrie più tradizionali) che si ingegnano per attirare due distinti gruppi di utenti – fornitori e clienti – offrendo servizi apparentemente a prezzo zero lato consumer. Questa poliedricità genera effetti di rete particolarmente forti, sia diretti che indiretti che, inevitabilmente, aumentano le barriere all’ingresso e limitano la pressione competitiva. Il problema è aggravato dalla presenza dei Big Data, volano dell’innovazione nell’economia digitale, oltre che dalle tecniche di monitoraggio on line e manipolazione comportamentale degli utenti.

La Commissione Europea si è adoperata per combattere l’evidente anacronismo legislativo imperante presentando una proposta di regolamento: il Digital Markets Act.

Un provvedimento approvato dal Parlamento Europeo il 5 luglio 2022 che entrerà in vigore nel 2023 e che si unisce – al Digital Services Act – DSA destinato a regolamentare la sicurezza, la trasparenza e le condizioni di accesso ai servizi online e, di conseguenza, a modificare la direttiva 2000/31/CE oltre che – al Data Governance Act – DGA che ha come obiettivo quello di promuovere la disponibilità e i meccanismi di condivisione dei dati tra le organizzazioni e il loro riutilizzo da parte del settore pubblico.

La concorrenza è, infatti, solo una parte di un sistema in cui diverse discipline giuridiche, sociali ed economiche possono e devono integrarsi a vicenda e la regolamentazione del mercato unico digitale rimane, a tutti gli effetti, la sfida da vincere in vista dello sviluppo di un ecosistema tecnologico digitale incoraggiante per l’ innovazione e gli interessi dei consumatori, così come per le loro libere scelte.

Le piattaforme, gli intermediari digitali, definiti “gatekeeper” costituiscano il focus e i destinatari diretti della regolamentazione europea in procinto di attivazione.

Fine del DMA è quello di porsi alle stregua di un regolamente dinamico che evolve insieme al mercato digitale in cui si inserisce; ovvero un apparato normativo omogeneo, trasparente, che consenta di agire ex ante, definendo chiaramente a priori i soggetti economici interessati e le modalità di applicazione della disciplina e che si riveli indipendente dalla regolamentazione ex post a tutela del libero gioco della concorrenza; agli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La Legge Antitrust tradizionale è invero molto lenta e l’onere per le forze dell’ordine grava pesantemente.

In pratica il neo-provvedimento permetterebbe di intervenire e reagire ai comportamenti “indesiderati” senza l’onere di individuare preventivamente i mercati rilevanti, senza dimostrare che le imprese oggetto di indagine siano dominanti in quei determinati mercati e contemporaneamente stiano abusano della loro posizione. L’unica condizione da soddisfare sarebbe invece quella di rientrare nella nozione di gatekeeper, come definito nel provvedimento normativo.

In caso di irregolarità la Commissione potrà infliggere ammende fino al 10% del fatturato mondiale annuo o fino al 20% in caso di recidiva. Sono inoltre previste penalità di mora nonché altre misure per garantire il rispetto delle prescrizioni normative.

Al momento però nei confronti della piena operatività del DMA restano da dirimere alcune criticità piuttosto significative: non solo quelle legate al pericolo di un’eccessiva politicizzazione del diritto della concorrenza inteso in senso lato come strumento multiuso per affrontare e curare tutti i mali della società moderna, bensì anche quelle relative al rapporto della Legge sui mercati digitali con il Regolamento generale sulla protezione dei datiGDPR e altri Regolamenti, al rischio di bis in idem in materia di Diritto Antitrust e agli oneri amministrativi e le responsabilità dei fornitori dei servizi digitali – gatekeeper (che peraltro in molti casi riflettono le principali indagini antitrust nei confronti delle piattaforme digitali negli ultimi anni).

Una cosa intanto è certa: la spesa della lobby a Bruxelles raggiunge livelli record.

Stretta alle Big Tech: a che punto siamo nel resto del mondo

Big Tech, ecco il nuovo antitrust negli USA: le conseguenze e i prossimi passi

Stati Uniti

Sul versante USA – dove il Diritto Antitrust è caratterizzato dalla presenza di due agenzie che forniscono un doppio binario di tutela, la FTC- Federal Trade Commission ( autorità amministrativa indipendente) e l’Antitrust Division del DOJ (vicina al potere esecutivo), e dove il principale strumento di tutela contro le pratiche concorrenziali è, inoltre, attribuito al c.d. private enforcement, strumento posto a garanzia dell’iniziativa privata dei consumatori dinanzi ai giudici ordinari contro le violazioni antitrust – a quasi cinque anni dallo scandalo Cambridge Analytica – i quadri regolatori vigenti si rivelano piuttosto deboli se non incapaci di incidere positivamente sulla governance dei poteri privati forti ai vertici dello spazio digitale.

Il riferimento è in particolare diretto alla disciplina Antitrust che, come noto, negli USA è stabilita in tre atti risalenti alla fine del XIX e primi del Novecento: lo Sherman Act del 1890, il Federal Trade Commission Act e il Clayton Act.

La tanto attesa revisione del Diritto Antitrust si rivela infatti il grande assente della scena politica americana.

E ciò, sebbene non siano mancati diversi progetti di legge, alcuni addirittura presentati con supporto bipartisan[5], come l’American Innovation and Choice Online Act della senatrice Amy Klobuchar e l’Open App Markets Act di Richard Blumenthal e Marsha Blackburn.

Pesa sugli stessi la sofistica attività di lobbying sostenuta dalle multinazionali tecnologiche anche se rimane da vedere quanto la stessa sarà, infine, in grado di impattare sull’iter di approvazione delle varie proposte.

Proseguono invece a ritmo incessante, nei confronti tanto di Google quanto delle altre Big Tech, gli ammonimenti e i contenziosi avviati dalla Federal Trade Commission e dal Dipartimento di Giustizia americano. Ciò sebbene il fronte antitrust continui ad essere costantemente influenzato da ritardi e temporeggiamenti vari messi in atto all’interno delle agenzie di regolamentazione, troppo spesso esposte a frequenti turn over apicali.

Tra le maggiori accuse pendenti in capo alle Big Tech è di sicuro interesse quella che vede undici stati impegnati insieme al DOJ nella conduzione di una causa antitrust per la quale Google viene accusato di proteggere il suo monopolio sia per quanto riguarda il servizio di ricerca, sia gli annunci pubblicitari.

Google è stato accusato di pratiche anticoncorrenziali, manipolazione del mercato della ricerca on line e collusioni per la vendita di tecnologia pubblicitaria anche da una coalizione di altri stati guidati dal procuratore generale del Texas, il conservatore Ken Paxton. Le contestazioni mosse nei confronti dell’azienda statunitense, tra le altre cose, si concentrano su un particolare accordo chiamato “Jedi Blue”, risalente al 2018, che legherebbe il Golia della pubblicità e il gigante tecnologico suo rivale Facebook in un’intesa piuttosto discutibile che, se da una parte avrebbe permesso a Google di preservare il proprio dominio nel settore del programmatic advertising, dall’altra avrebbe garantito a Facebook, in cambio della promessa di non supportare alcun sistema pubblicitario concorrente, di beneficiare di condizioni speciali nel mercato degli annunci on line.

La pratica è nota come header bidding, un processo tecnologico impiegato nel programmatic che, sebbene automatizzato, consente spesso offerte su misura chiamate “markup” che si prestano a determinati tiri di vendita e accordi strategici discutibili.

Accordo che, tuttavia, il giudice distrettuale degli Stati Uniti P. Kevin Castel non ha ritenuto lesivo della concorrenza. E, infatti, sebbene ad oggi il caso antitrust prosegue il suo iter, l’accordo Jedi Blue non è più coinvolto.

A luglio 2021 una trentina di stati americani e il Distretto di Columbia hanno avviato un’ ulteriore causa antitrust sempre contro Google per pratiche discriminatorie nell’App Store Android: l’azione, guidata dallo Stato dello Utah e depositata presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti nel Distretto nord California, si fonda sul fatto che l’azienda abbia monopolizzato la distribuzione di app su dispositivi mobili con il sistema operativo Android, bloccando la concorrenza attraverso contratti, barriere e altri mezzi.

Le cose non vanno meglio per l’ecosistema Apple Inc., oggetto di numerosi reclami sostenuti da sviluppatori software indipendenti – a partire dagli Stati Uniti con Epic Games[6] (creatore del popolarissimo gioco battle royale “Fortnite” ), con il caso Apple v. Pepper e l’azione collettiva di Donald R. Cameron e Pure Sweat Basketball, Inc. contro Apple Inc.

Anche Amazon è finita nel mirino dell’Antitrust USA.

Non solo la Federal Trade Commission ha aperto una indagine sull’acquisto da parte di Amazon per 3,9 miliardi di dollari di Life Healthcare, che gestisce le cliniche One Medical in 25 mercati americani, e altrettanto sta avvenendo per l’acquisizione da 1,7 miliardi di dollari del produttore di aspirapolvere robot iRobot, oltre che aver dato l’avvio a diverse indagini per verificare la regolarità dei servizi di abbonamento tra cui Prime ma, recentemente, anche il procuratore generale della California ha intentato una nuova causa antitrust contro Amazon, che si unisce alle recenti cause antitrust del governo contro Google e Facebook e a quella promossa dal procuratore generale del Distretto di Columbia.

Non ultimo rilevano i risultati “pesanti” contenuti nel “Rapporto Antitrust della Camera degli Stati Uniti” del 2021 preceduto da un’audizione del Congresso sull’Antitrust e sulle piattaforme online (in cui il CEO di Apple Tim Cook ha dovuto affrontare un attento controllo sulle pratiche dell’App Store di Apple).

Un’analisi di 449 pagine che, evidenziando come Amazon, Apple, Facebook e Google, nel proprio core business, esercitino indisturbate un potere di monopolio che continua ad offrire loro ingiusti vantaggi di mercato, propone e sollecita cambiamenti radicali, tra cui in primis il cambio di paradigma imperniato su una logica repressiva post violazione a favore di un approccio legislativo di tutela anticipatrice sorretto dall’introduzione di norme più dettagliate, oltre che da un maggior potere attribuito alle autorità pubbliche di controllo. Il Report non disdegna neppure la valutazione sul potenziale smembramento dei colossi digitali.

Obiettivi questi condivisi anche dall’indagine sui mercati digitali della House Committee in the Judiciary del giugno 2019 che ha valutato l’efficacia delle leggi vigenti attualmente in materia di concorrenza e, preso atto degli evidenti vuoti di tutela, si era già spesa per sostenere l’esigenza di una public enforcement tanto della legislazione quanto delle autorità preposte al controllo della concorrenza.

Si manifesta, dunque, un fronte repressivo e riformista piuttosto simile a quello europeo in cui sembrerebbe addirittura assottigliarsi la stessa differenza di approccio e metodo perseguito dagli USA rispetto all’Europa in materia di concorrenza: attento alla logica economica, all’aumento dei prezzi, al danno per consumatori, il primo; all’aspetto giuridico e al rispetto delle regole, la seconda.

Risale a luglio dello scorso anno l’Executive Order del Presidente Biden incentrato sulla promozione della concorrenza nell’economia americana teso a garantire maggiore rispetto delle Leggi Antitrust e a governare l’ascesa delle piattaforme digitali dominanti dove proliferano forme di sorveglianza degli utenti e presenza di effetti di rete, spesso favoriti da fusioni seriali, dall’acquisizione di concorrenti nascenti, dall’aggregazione di dati, e dalla concorrenza sleale nei mercati dell’attenzione.

Favorire la competizione paritaria sul mercato digitale, limitare il monopolio dei grandi gruppi tecnologici e favorire la nascita e lo sviluppo delle piccole e medie imprese sono anche i temi emersi nel corso dell’incontro tenutosi l’08 settembre scorso alla Casa Bianca tra il Presidente degli Stati Uniti Biden e un team di consulenti ed esperti di mercati digitali.

Cina

Mettere un freno ai comportamenti monopolistici delle grandi aziende del comparto: Alibaba, Tencent, JD.Com, Xiaomi, ma anche Apple, recentemente “schiaffeggiata” dalla Corte suprema della Cina (la cui interpretazione giudiziale in Cina ha valore di legge) – con una sentenza che ha sancito a vantaggio dei consumatori il diritto di citare in giudizio Apple per presunto abuso di quote di mercato e pratiche vessatorie applicate dal proprio App Store in Cina – si rivela per Pechino una priorità assoluta ed una sfida decisiva.

La Cina contro lo strapotere delle big tech: cosa c’è dietro la stretta

Peraltro, avendo ben presente la natura totalitaria del regime cinese, la scelta della Cina di dotarsi di una stringente normativa in materia di protezione dei dati e di controllo del mercato non stupisce affatto.

Nulla può esistere al di fuori del Partito, della sua narrazione, della sua visione.

Storicamente, inoltre, i regimi autocratici si sono rivelati i migliori “amministratori politici” della modernità e dell’innovazione, forti dell’adesione di milioni di persone di cui hanno plasmato il comportamento individuale e sociale e di cui controllano ogni espressione.

A maggior ragione in Cina dove, a partire dagli insegnamenti di Confucio (551-479 a.C), ogni manifestazione dell’autorità di governo viene intesa dal popolo cinese come un assioma ontologico fondamentale per il benessere, e dove annientare tutti i flussi contrari al sistema di controllo diventa un imperativo categorico.

Nel 2018 Pechino, attraverso l’istituzione dell’Amministrazione statale per la vigilanza e l’amministrazione del mercato, le cui funzioni di supervisione e gestione del mercato erano fino ad allora sparse tra i diversi dipartimenti, tra cui anche l’Amministrazione centrale del cyberspazio della Cina e l’Amministrazione statale delle tasse, aveva già posto le basi, a livello istituzionale, delle proprie velleità sulla regolamentazione del mercato e sul controllo del comportamento monopolistico.

E se il caso, già accennato, di Alibaba può ben interpretarsi come uno schiaffo destinato alla specifica azienda tecnologica, campione nazionale rivelatosi con il tempo piuttosto “aitante”, ciò non significa che gli altri giganti della tecnologia in Cina siano al riparo dal dovere di rispettare le Leggi Antitrust.

Entro i confini della nazione la Cina si rivela fermamente intenzionata ad allenare i suoi muscoli normativi rivolgendosi tanto ad operatori interni che esteri, coinvolgendo ogni società operante del “settore dei bits” come Tencent Holdings di Pony Ma e altri giganti tecnologici.

Proprio in riferimento a questi è estremamente chiara l’enfasi riversata da Pechino sulla presa regolatoria preannunciata con le “Linee guida per l’anti monopolio nel campo dell’economia delle piattaforme” emanato dal Comitato antimonopolio del Consiglio di Stato il 7 febbraio 2021 – composte da 24 articoli e sei capitoli – così come l’enfasi pubblica di Xi sulla rinascita della “missione originale” del partito.

Le grandi società digitali cinesi, strette nella morsa della fiorente produzione di azioni normative, che recentemente ha messo alla prova dirigenti ed investitori in Cina, si destreggiano come meglio possono, fino a convertirsi a improvvise quanto generose svolte filantropiche e benefiche, in nome della “prosperità comune” e del perseguimento degli obiettivi del Partito. Tra questi “favorire la legittima creazione di ricchezza e promuovere lo sviluppo regolamentato e sano di tutti i tipi di capitale”.

Alibaba avrebbe donato 15,5 miliardi di dollari, un terzo della liquidità dell’azienda, in beneficenza per campagne sociali in Cina.

Tanto si pone in linea anche con la sospensione dell’IPO da 35 miliardi di dollari di Jack Ma’s Ant Group del novembre 2020 (Ant group è il braccio fintech di Alibaba), avvenuta solo due giorni prima della quotazione prevista nelle borse di Shanghai e Hong Kong. Un’operazione che sarebbe potuta diventare la più grande IPO del mondo e che avrebbe consentito alla fintech cinese (730 milioni di utenti al mese) una valutazione di oltre 310 miliardi, ma che invece ha “regalato” alla società controllata dal fondatore di Alibaba una multa dell’Antitrust cinese per quasi 3 miliardi. Ciò malgrado Jack Ma sia un membro del PCC e si sia ripetutamente speso a sostegno delle politiche di Pechino. Il suo alto profilo pubblico lo rende però temibile tanto per il suo potere di mercato quanto per il rischio che il suo modello di business possa contaminare il sistema finanziario cinese nel suo insieme.

Lo stesso vale per Lenovo, l’azienda cinese produttrice di PC, che ha dovuto rinunciare a caro prezzo all’Ipo secondaria prevista a Shanghai, valutata 10 miliardi di yuan (1,8 miliardi di dollari), sia per quello dell’azienda di ride hailing Didi, fondata dal miliardario Cheng Wei nel 2012, (di cui Tencent è azionista per la quota del 6,8%) che, a fine giugno, si è vista intimare dai funzionari della Cyberspace administration of China di ritardare l’Ipo prevista a New York stanti i problemi di sicurezza nazionale legati all’operazione che avrebbero potuto dare adito a pesanti accuse di tradimento verso lo Stato. Sappiamo tutti come è finita: sebbene Didi non si sia lasciata intimidire delle recriminazioni dell’autorità cinese e abbia comunque proceduto con la diffusione dei titoli tra gli investitori del mercato americano, pochi giorni dopo il debutto a Wall Street, la stessa è stata accusata di raccolta illecita di dati personali degli utenti e immediatamente rimossa dagli app store cinesi.

Stessa sorte per Full Truck Alliance, la società che mette in contatto spedizionieri e camionisti, conosciuta come Manbang in Cina, sostenuta da Vision Fund di Softbank e Tencent, che a giugno aveva raccolto quasi 1,6 miliardi di dollari nella sua offerta pubblica iniziale di New York e che a luglio insieme a Khanzhun Ltd, proprietario di Zhipin.com è stata oggetto di rigorose indagini da parte della Cyberspace Administration of China.

Corea del Sud

L’imperialismo delle piattaforme, potenziato dallo sviluppo del capitalismo digitale, per usare le parole dello studioso coreano Dal Yong Jin, cattura l’attenzione della Corea del Sud.

Una delle nazioni più digitali al mondo che, se da una parte, con la multa da 207 miliardi di won – 177 milioni di dollari, imposta il 14 settembre 2021 dalla Korea Fair Trade Commission (KFTC) a Google (Google avrebbe abusato della propria posizione dominante nel mercato dei sistemi operativi per indurre i produttori di dispositivi mobili come Samsung Electronics a firmare accordi che impedissero loro di installare i sistemi operativi detti “Android fork), si conferma uno dei paesi con la maggior verve verso la repressione delle condotte anticoncorrenziali attuate dagli intermediari digitali americani, dall’altra, si rivela anche il primo paese ad aver approvato una Legge che intende contrapporsi con fermezza al duopolio Apple-Google sui pagamenti in-app applicati a tutti i contenuti digitali presenti sui loro App store.

E certo la “Legge Anti-Google” sudcoreana potrebbe diventare ben presto un punto di riferimento per molti Paesi.

Approvata all’unanimità il 31 agosto scorso dall’Assemblea nazionale coreana, la nuova legge modifica il Telecommunications Business Act che fino al 14 settembre (data di entrata in vigore del provvedimento) non si opponeva a che i sistemi di pagamento digitale dettati da Apple e Google agli sviluppatori indipendenti potessero convivere in maniera piuttosto pacifica con l’altrettanto consolidata pratica di esigere commissioni fino al 30% per l’elaborazione dei pagamenti in-app.

Gli emendamenti introdotti hanno invece imposto ai giganti tecnologici la previsione di sistemi di pagamento digitale multipli con ciò limitando le pratiche penalizzanti o ritorsive attuate verso quegli sviluppatori che poteva scegliere di utilizzare soluzioni alternative.

Una misura di non poco conto se si pensa che ad essere minato è l’impero di Google ma anche di Apple. Un duopolio che in Corea del Sud, beneficia di lauti guadagni, non inferiori rispettivamente a 5, 2 miliardi e 2 miliardi. Gli sviluppatori clienti dell’azienda di Cupertino ammonterebbero a 482 mila da cui deriverebbero entrate complessive di oltre 7 miliardi di dollari.

A nulla pertanto sono valse le proteste di Apple che, a monte del provvedimento, aveva già paventato i rischi di frode a cui sarebbero stati esposti i consumatori nel momento in cui avessero avuto a disposizione più metodi di pagamento, e anche di Google che ha giustificato l’applicazione delle esose commissioni con questioni legate alla sicurezza e all’impegno di «mantenere Android un sistema libero.

Conclusioni

Di fronte alla complessità crescente della società del XXI secolo le attuali regole, poste a tutela del pluralismo e della difesa dei diritti fondamentali, entrano pesantemente in crisi.

Le peculiarità e le problematiche insite nella data economy, caratterizzata dalla valorizzazione dei dati, dalla disponibilità degli stessi e dalla loro analisi, si legano a filo doppio al potere di mercato delle realtà tecnologiche dominanti che, con troppa disinvoltura, abusano delle rispettive posizioni di mercato a diretto discapito del libero gioco della concorrenza.

La possibilità di un business etico si conferma impossibile e, tra tutti i fattori chiave, l’immaginazione in mano alle opulente élite tecnologiche appare già abbondantemente al potere.

Per quanto ancora?

Tramontata la stagione della rete intesa come “tecnologia della libertà” che avrebbe consentito l’autodeterminazione sia politica che economica, del liberismo tecnologico portatore di quella “delega in bianco rilasciata ai poteri privati investiti di funzioni para costituzionali”, tutti gli stati stanno, ora, investendo nella progettazione di nuove strategie regolamentari che puntano alla governance del digitale.

Per comprendere cosa significherà la tecnologia per il futuro della società, del diritto e della rete stessa, sarà necessario, però, un esame attento del modo in cui la progettazione delle tecnologie dell’informazione e della raccolta dei dati all’interno dei modelli di business dei giganti del web riflettono e riproducono la nuova dimensione del potere economico e politico. E come questi siano destinati ad incidere nella sostanza e nell’interpretazione delle garanzie legali fondamentali, intese come presidi giuridici all’interno dei quali vengono definiti i diritti, le libertà, gli obblighi e le modalità con cui vengono applicati.

La dinamicità dei mercati digitali e le istanze imposte dalla sharing economy richiedono risposte celeri e un alto grado di coordinazione tra Autorità a livello sovranazionale, poiché proprio l’evolversi delle relazioni, in uno spazio che non è fisico bensì digitale, rende inadeguata una visione non armonica delle condotte attuate in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza sui mercati economici, della protezione dei dati e dei diritti e delle libertà fondamentali, e necessaria una sostanziale immanenza delle tutele giuridiche nell’era della rivoluzione tecnologica.

È certamente una questione di alta politica e quindi di persone il successo che certe scelte di natura regolamentare saranno in grado di determinare rispetto alle evoluzioni sociali in corso e alla dimensione orizzontale dei poteri privati forti.

Nel mentre “la plasticità del codice digitale offre punti di leva normativa sia agli attori statali che a quelli privati”[7] da cogliere con consapevolezza e capacità di visione in vista dell’effettività delle tutele dei diritti in gioco nell’era dei Big Data.

Note

  1. Il Tribunale annulla solo la parte relativa all’abuso riconducibile alle cosiddette RSA (R evenue Share Agreements ): si tratta di accordi tra Google e produttori di hardware o operatori di telefonia mobile per condividere i ricavi generati dalla pubblicità di ricerca di Google su dispositivi specifici o un portafoglio di dispositivi. Tale revisione non ha tuttavia conseguenze pratiche dirette stante che Google aveva già smesso di utilizzare questo tipo di revenue nel marzo 2014.
  2. Il ricorso proposto da Google è stato quindi essenzialmente respinto dal Tribunale, il quale si limita ad annullare la decisione soltanto nella parte in cui essa constata che gli accordi di ripartizione del fatturato per portafoglio (si veda nota 3) costituirebbero, di per se stessi, un abuso. Contro la decisione del Tribunale, entro due mesi e dieci giorni a decorrere dalla data della sua notifica, può essere proposta dinanzi alla Corte un’impugnazione, limitata alle questioni di diritto.
  3. Nel giugno 2017, la Commissione aveva già inflitto a Google un’ammenda pari a euro 2,42 miliardi per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato dei motori di ricerca, attribuendo un vantaggio illecito al proprio servizio di confronto dei prezzi. Questa decisione è stata convalidata essenzialmente dal Tribunale con sentenza del 10 novembre 2021, Google e Alphabet/Commissione (Google Shopping), T-612/17 (v. anche il comunicato stampa n. 197/21). L’impugnazione proposta da Google avverso tale sentenza è attualmente pendente dinanzi alla Corte (C-48/22 P).
  4. Le restrizioni esaminate nel giudizio sono state di tre ordini:− in primo luogo, quelle inserite negli «accordi di distribuzione», che impongono ai produttori di dispositivi mobili di preinstallare le applicazioni di ricerca generica (Google Search) e di navigazione (Chrome) per poter ottenere da Google una licenza operativa per il suo portale di vendita (Play Store);− in secondo luogo, quelle inserite negli «accordi antiframmentazione», che condizionano la concessione delle licenze operative necessarie alla preinstallazione delle applicazioni Google Search e Play Store da parte dei produttori di dispositivi mobili all’impegno di questi ultimi ad astenersi dal vendere dispositivi equipaggiati con versioni del sistema operativo Android senza l’approvazione di Google;− in terzo luogo, quelle inserite negli «accordi di ripartizione del fatturato», che subordinano il rimborso di una parte degli introiti pubblicitari di Google ai produttori di dispositivi mobili e agli operatori di reti mobili interessati all’impegno, da parte di questi ultimi, a rinunciare alla preinstallazione di un servizio di ricerca generica concorrente su un portafoglio predeterminato di dispositivi.

    Crf Decisione C(2018) 4761 della Commissione, del 18 luglio 2018, relativa al procedimento a norma dell’articolo 102 TFUE e dell’articolo 54 dell’accordo SEE (caso AT.40099 – Google Android).

  5. Il Congresso degli Stati Uniti guarda con favore all’introduzione dell’American Innovation and Choice Online Act, proposto dal senatore repubblicano Chuck Grassley e dalla democratica Amy Klobuchar. Un provvedimento per molti versi simile al Digital Markets Act europeo. E anche la Commissione giustizia del Senato approva a larga maggioranza la legge sul sideloading, il progetto di legge denominato “Open App Markets Act” in base al quale gli app store con oltre 50 milioni di utenti negli Stati Uniti non potranno più costringere gli sviluppatori a utilizzare il sistema di pagamento messo a disposizione della piattaforma. Entrambi i progetti, fortemente avversati sia Apple che Google, sono rappresentativi dell’intento perseguito dagli USA volto ad una forte revisione legislativa, peraltro resa ancor più urgente dalle risultanze della nota indagine, durata 16 mesi, condotta della Sottocommissione sulle pratiche competitive di Amazon, Apple, Facebook e Google, che vorrebbe impedire alle grandi multinazionali tecnologiche, anche straniere, di continuare a favorire, sulle loro piattaforme, i rispettivi prodotti, oltre che di utilizzare i copiosi set di dati privati a cui accedono, per ottenere vantaggi sulla concorrenza limitando la capacità dei competitors di “accedere o interagire con la stessa piattaforma, con il sistema operativo, con le funzionalità hardware e software disponibili per i prodotti, i servizi o le linee di attività dell’operatore della piattaforma coperta”.
  6. Il caso nasce quando Epic introduceva nell’app di Fortnite un servizio di pagamenti attraverso un circuito interno alternativo rispetto a quello dell’AppStore, che prevedeva uno sconto del 30% per gli utenti che adottavano questo metodo di acquisto e, per questo comportamento, considerato incaccettabile da Apple, il colosso cancellava il videogioco dall’AppStore.La stessa risposta veniva posta in essere da Google che cancellava il videogiocodal suo Play Store, suAndroid. Epic considerando illegittimo il comportamento sia di Apple sia di Google faceva causa ad entrambe le società.
  7. Between Truth and Power: The Legal Constructions of Informational Capitalism. Julie E. Cohen.© Julie E. Cohen 2019. Published 2019 by Oxford University – e Lawrence Lessig, Code and Other Laws of Cyberspace, (New York: Basic Books, 1998

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