PERCORSI FILOSOFICI

Digitale nel post-pandemia, cosa ci lega alla dottrina aristotelica

Si fonda sul malinteso dualismo “reale-virtuale” lo scetticismo degli apocalittici di fronte alla spinta innovativa impressa dall’emergenza sanitaria. Ma la paura di un mondo robotizzato, in grado di espropriare gli umani del proprio lavoro, rischia di bloccare l’adattamento evolutivo. Vediamo perché

Pubblicato il 30 Set 2020

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

covid maescherina

La pandemia ha messo in dubbio il nostro bios, aprendo dibattiti intorno al ruolo di internet e della tecnologia, non solo nel presente, e spostando i paradigmi della cultura digitale. Analizziamo questo tipo di evoluzione da una prospettiva filosofica rivolgendo la nostra attenzione, in particolare, a settori quali la sanità, l’istruzione, il lavoro; al nostro ruolo nella società del futuro  e alle ragioni per cui dovremo rispolverare e accogliere la dottrina aristotelica delle quattro cause.

Tecnologia: apocalittici e integrati

Volgendo lo sguardo al passato più recente, se un merito va riconosciuto alla emergenza sanitaria, è stato quello di accendere i riflettori sui laboratori, portando, finalmente, all’attenzione pubblica le questioni relative all’innovazione. Dall’altro lato, però,  il ruolo del web ha rievocato l’intramontabile dualismo che separa gli “apocalittici” dagli “integrati”.

Il tono catastrofico di molti teorici in questo periodo deriva, a mio parere, da un errore di lettura nei confronti di internet e del momento eccezionale che stiamo vivendo. Alla base del ragionamento ci sono pregiudizi antichi. Si continua a scindere il “reale” dal “virtuale” e si tende a ragionare per assoluti, senza relativizzare le questioni interpretandole alla luce del contesto che le ha prodotte.

La fallacia in cui cadono gli “apocalittici” è facilmente comprensibile. Accusano il web come potrebbero biasimare l’ospedalizzazione perché si tratta di uno spazio artificiale, una realtà impoverita rispetto all’ambiente esterno. La stanza di ospedale, con le sue macchine per assistere le funzioni vitali, è da intendere come uno spazio e un tempo transitori, che permettono all’individuo, momentaneamente malato, di riacquistare la sua autonomia.

L’obiettivo non è mantenere nell’ospedale il soggetto malato in perpetuum, ma reintrodurlo nel suo ambiente, nel quale potrà rispondere con nuove strategie, rimodulate in base alla sua condizione. L’ospedale non è un laboratorio eterno che si vuole sostituire all’ambiente naturale. È solo un supporto transitorio per una situazione contingente di emergenza.

Covid e sanità digitale

Allo stesso modo il web non ha mai preteso di sostituirsi a certe pratiche che richiedono la presenza. È stata una risposta sana affinché potessimo continuare a esprimerci nonostante la situazione eccezionale di chiusura. Analogamente i malati covid in alcuni ospedali hanno potuto vedere i parenti grazie a un sistema di video-chiamate pensato dall’IIT. L’Istituto Italiano di Tecnologia ha assemblato tecnologie facilmente disponibili, perché fosse semplice, per ogni realtà ospedaliera, introdurre l’innovazione robotica.

I ricercatori hanno unito un vacuum automatizzato, un’asta e un tablet. Grazie a questo Lhf connect, i pazienti hanno continuato a comunicare con i propri cari, senza rischiare di contagiare nessuno. Meglio le persone che sono morte senza la possibilità di vedere un’ultima volta figli, amici e familiari? Sarebbe stato preferibile trascorrere il lockdown sigillati nella stanza di pascaliana memoria senza accesso alle rete? In tal caso come avremmo potuto realizzare la nostra entelechia di essere umani?

Una società è sana se sa adattarsi alle nuove condizioni, cambiando ad hoc le proprie strategie. Anche per gli organismi si può parlare di salute e di normalità quando questi sanno rispondere “altrimenti” a un reale che, per qualche fenomeno imprevisto, risulta stravolto. L’individuo malato non è quello che presenta caratteristiche che si discostano dalla media statistica. È piuttosto l’individuo sclerotizzato, quello che non sa cambiare le proprie risposte di fronte a nuove richieste ambientali.

Gli errori della classe politica

Nel nostro caso abbiamo davvero saputo riadattarci? Per rispondere alle restrizioni momentanee e all’ostilità ambientale abbiamo sfruttato le possibilità del digitale. Purtroppo, però, non tutti hanno potuto beneficiare in egual misura della rete. La pandemia, in effetti, ha evidenziato la rigidità di molti settori e, soprattutto, ha messo in luce il fallimento della politica degli ultimi vent’anni, che non ha investito né sulla tecnologia né sull’educazione.

Nel nostro Paese la maggior parte delle aziende sono di dimensione media e piccola: così, senza un significativo sostegno economico da parte delle istituzioni, è impossibile per gli imprenditori adottare nuove tecnologie. Il paradosso è che l’Italia è sul podio nel campo della robotica, eppure fatichiamo a introdurre tali innovazioni nella società. Come si è detto manca una reale formazione dei lavoratori perché possano collaborare con i sistemi automatizzati e semi automatizzati. In effetti la politica è il grande assente.

A scapito di molte vite umane, il virus ci ha resi consci dei ritardi e degli errori commessi. Perché non sia stato un sacrificio vano sarebbe bene imparare dal presente, intervenendo con progetti a lungo termine. È in questa direzione che stanno lavorando molti esperti, non solo del settore delle scienze applicate. L’I-RIM, l’Istituto di Robotica e di Macchine Intelligenti, dagli inizi dell’emergenza sta organizzando incontri settimanali tra ricercatori e industriali. Il primo obiettivo era quello di rispondere alacremente con soluzioni pratiche ai problemi causati dal Nuovo Coronavirus. Attualmente, in questa seconda fase, si sta già guardando al post-pandemia, cioè alla crescita e alla ricostruzione del Paese.

Innovazione: una spinta sulla domanda

In occasione del workshop trasmesso in streaming il 28 maggio 2020, “Arrivano i nostri… ROBOT”, suggeritomi dalla dottoressa in biotecnologia, Michela Bogliolo, di Scuola di Robotica, il presidente dell’I-RIM, Antonio Bicchi, affermava che attualmente sono in fase di sperimentazione ben settanta progetti pilota. Ideatori e costruttori cooperano attivamente attraverso una piattaforma open: Tech For Care. Vengono suggerite necessità, alle quali sono poi affiancate proposte e realizzazioni pratiche.

Secondo me, è necessario che gli inventori possano condividere anche i loro artefatti apparentemente privi di significato, perché l’uso possa essere scoperto in un secondo momento. Può essere qualunque insight successivo a far sì che una macchina venga inserita nelle maglie sociali, dando una funzione e una necessità a tale innovazione. Gutenberg morì in miseria, fu Lutero a trasformare la stampa a caratteri mobili in una rivoluzione. L’uso di una tecnologia è esso stesso un’innovazione. Il monaco tedesco, con la sua dottrina teologica, creò la necessità, il bisogno sociale perché la stampa tipografica diventasse la tecnologia atta a soddisfare quell’esigenza.

Come i robotici e gli ingegneri si stanno già dedicando alle fasi successive, anche i teorici si interrogano intorno alla forma che potrebbe assumere quella che chiameremo “normalità”. Quale sarà il futuro del presente? È bene accelerare i processi di innovazione nella Sanità 4.0? Cosa abbiamo imparato? Cosa dobbiamo ancora apprendere? Quali scenari possiamo anticipare per non essere colti impreparati?

Tecnologia contro burocrazia: partita aperta

Per riflettere intorno al futuro digitale della sanità bisogna innanzitutto considerare il problema della lentezza burocratica. Inserire un’innovazione nella società, in particolare nell’ambito sanitario, è un processo lento. Per vagliare la bontà di una tecnologia vengono richieste molte più evidenze del normale. Sono necessarie dimostrazioni piuttosto nette circa l’efficacia e, soprattutto, circa la non nocività dei prodotti.

Prima di validare una novità tecnologica possono passare anni, tra moduli, test, approvazioni a vari livelli, tanto che, alla fine, quando l’innovazione viene avallata, si tratta sempre di una tecnologia vecchia. Alleggerire l’iter potrebbe essere più benefico? È più giusto approvare celermente le innovazioni, perché le tecnologie non siano da subito strumenti già invecchiati, pronti per essere sostituiti? Oppure è meglio avere maggiori garanzie, sfruttando la lentezza burocratica, così da impedire che si inseriscano strumenti pericolosi, poco controllati?

La Costituzione italiana fu pensata proprio perché l’iter parlamentare fosse un processo lento. È la garanzia contro ogni possibile deriva autoritaria. Analogamente la complessità del percorso sanitario nel vaglio di strumenti e medicinali è un modo per impedire che sfuggano effetti collaterali inintenzionali. La scienza, soprattutto quando coinvolge le vite umane, richiede prove molto più forti intorno alla validità delle sue scoperte.

Nel metodo scientifico l’evidenza è sempre un fattore di probabilità, mai di certezza. Perché l’errore diventi qualcosa di trascurabile (e la falsificazione sia solo una possibilità remota) è necessario ripetere il test tante volte, da tanti ricercatori, con un puntuale controllo delle variabili, il che significa, a livello burocratico, timbri, moduli, uffici, approvazioni.

Automazione e occupazione

Un’altra preoccupazione che circonda la robotica riguarda la possibilità di essere sostituiti. Norbert Wiener, il padre della cibernetica, ipotizzò che la tecnologia sarebbe stata causa di un altissimo tasso di disoccupazione. In realtà questa possibilità non riguarderebbe ogni strato della popolazione. Chi riveste ruoli di rilievo conserverà il suo posto di lavoro. Addirittura si apriranno nuove posizioni legate alla tecnologia, dalla programmazione alla filosofia stessa.

Perché, allora, tanta agitazione? Alla base, forse, c’è l’ambiguità che circonda il termine “lavoro”. Nel dire comune, spesso, vengono separati i mestieri mentali da quelli fisici, associando solo a questi ultimi il termine “lavoro”. Al ragazzo che ha poca voglia di proseguire gli studi viene spesso consigliato di “andare a lavorare”. Pertanto, se si accetta come significato di “lavoro” quello di “bassa manovalanza”, allora è vero che i robot ci sostituiranno. Tutte le mansioni poco qualificate e ripetitive verranno automatizzate dalle macchine. Solo in questo senso la tecnologia ci ruberà il lavoro, sostituendosi alla fatica e alla routine delle attività alienanti. Ciò deve preoccuparci?

Già nel passato si sono verificati episodi di inoccupazione, ma nel lungo periodo gli equilibri si sono sempre riassestati. Se la società è sana, come detto all’inizio, sa sempre reinventarsi. Gli esempi che ci offre la storia dimostrano che l’essere umano si è sempre adattato alle nuove esigenze. Quando una struttura sociale non è più adeguata alle nuove necessità, viene smantellata dalle azioni degli stessi individui. Un ordinamento è creduto valido se gli individui, con le loro azioni, lo mantengono tale. Il sistema è stabile finché i singoli hanno un’utilità ad agire come se esso fosse davvero necessario e imprescindibile.

Quando, però, non si crede più che una certa pratica abbia valore, la struttura sociale viene stravolta. Tutto è in mano alle singole azioni personali. Non c’è una società indipendente in grado di plasmare gli individui che entrano a farne parte. Di questo approccio fu il massimo esponente Émile Durkheim. Secondo il sociologo francese il sistema precede gli individui. Questi ultimi, per vivere, devono conformarsi alle pratiche che ricevono in eredità. Per parlare chiunque deve imparare una semantica e una sintassi preesistenti, adattandosi a quelle regole. Allo stesso modo per vivere nella società ognuno deve accettare e riprodurre le norme generali che lo precedono.

Ruolo centrale della scuola

Se avessero ragione gli universalisti non si riuscirebbe a comprendere in che modo il sistema potrebbe mutare. Se la società è indipendente dalle singole volontà, come potremmo opporci ad essa? Se fosse così avremmo ragione di preoccuparci per gli effetti della tecnologia sul lavoro. Assumendo, però, il punto di vista di Max Weber possiamo leggere la dinamica della storia come un susseguirsi di azioni individuali significative. In questa maniera possiamo tranquillizzarci per gli effetti della tecnologia sul futuro.

Per accelerare la risposta nella creazione di nuove pratiche e nella riqualificazione personale, la scuola ha un compito primario. Gli educatori devono intervenire a monte, facendo orientamento ed evitando la dispersione scolastica. Gli alunni devono avvicinarsi precocemente al coding e alla robotica, perché possano scoprire talenti e passioni inespressi.

Lavoro, una leva identitaria

Altre ragioni per le quali abbiamo reticenza a inserire i robot nelle maglie sociali derivano dal nostro background culturale. Il lavoro, nella nostra società, riveste un preciso ruolo identitario. John Locke, rispondendo a Filmer, aveva fondato l’individualismo occidentale e il liberalismo proprio sul lavoro. Il possesso inalienabile del proprio corpo, della propria forza, del proprio ingegno giustificano la proprietà privata. Ogni essere umano nasce uguale, libero e proprietario di sé. Non vi è un Adamo a cui Dio avrebbe dato il possesso gerarchico degli altri esseri viventi e della natura. Secondo Locke ogni soggetto, producendo, mischia la natura con l’individualità di cui è l’unico possessore. È grazie al fatto di essere proprietario di se stesso che ogni essere umano può appropriarsi, di diritto, dei prodotti del suo lavoro.

La stessa società scaturisce dalla progressiva divisione del lavoro, dai diversi ruoli e dal grado di specializzazione delle varie attività. Pertanto, siamo disposti a cedere i nostri posti di rilievo, e quindi la nostra individualità, a un robot? Cosa succederebbe se non ci sentissimo più parte del processo produttivo? Quando i soggetti non avvertono più i legami sociali rischiano di entrare in una condizione di anomia. L’eccessiva parcellizzazione del lavoro può indurre un pericoloso sentimento di distacco dal processo complessivo, causando vuoto esistenziale.

Quando ci dividiamo i compiti con un robot, di chi sarebbero il lavoro, il processo e il prodotto? Riusciremmo a quantificare il nostro apporto e, quindi, il nostro valore? Delegando totalmente i compiti all’intelligenza artificiale e agli automi, potremmo essere trasformati in eterni passeggeri della carrozzina di kantiana memoria (una carrozzina automatizzata)? Perderemmo il senso di responsabilità derivante dall’uso autonomo e libero della ragione? Sfruttando la produzione e i processi innescati dai robot e dal machine learning, finiremmo, forse, per provare un inestinguibile senso di inferiorità, inutilità e alienazione?

In quel caso solo il libero sfogo dell’uomo-bestia potrebbe renderci dimentichi della nostra infermità. Potrebbe scomparire lo stadio dell’adultità, perseverando in una perenne crisi identitaria? Il vuoto esistenziale di cui saremmo affetti sarebbe quell’abisso che ci scruta, l’unico testimone del nostro fallimento?

Per salvarci dal rischio di diventare inutilizzabili bisogna accantonare l’idea di causa latina, accogliendo, invece, la dottrina aristotelica delle quattro cause. Se accettiamo che il concetto di causa è ben più ampio della sola capacità di produrre un effetto, potremmo conservare un legame positivo con la produzione, senza cadere nell’anomia.

In un post-emergenza ipotetico e quasi totalmente automatizzato, i robot sarebbero la causa efficiente, mentre la causa materiale sarebbe la materia grezza e l’energia da cui dipendono i mezzi. La causa formale potrà essere sostanziata sia dagli ingegneri sia dagli algoritmi non supervisionati dell’I.A. Tuttavia, la causa finale dovrà continuare a coincidere con gli esseri umani. Se manterremo la coscienza che il processo è finalizzato alla nostra specie, al nostro benessere, potremo conservare la percezione della nostra utilità. La consapevolezza di essere il telos della tecnologia è l’appiglio con cui salvarci dall’inutilizzabilità.

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