CULTURA DIGITALE

Io, robot di fronte al Covid: tecnologia fra scienza e animismo

La globalizzazione non azzera i diversi approcci al rapporto uomo-natura. A fronte del modello razionale percorso dall’Occidente, l’attribuzione di principi vitalistici ai fenomeni fisici (diffusa in Giappone, ma non solo), apre la strada a una maggiore adozione dei sistemi di AI. Vediamo perché

Pubblicato il 26 Giu 2020

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

Thanks to Adam Nieścioruk for sharing their work on Unsplash.

E’ l’Internet of Things il palcoscenico su cui Oriente e Occidente mettono a confronto le proprie culture digitali. Analizziamo l’apparente paradosso che spinge Dna storici di stampo “animistico” ad accelerare sull’innovazione tecnologica in ambito sociale e sanitario.

Il potere emergente della comunità scientifica

Il futuro che ci attende non vedrà concretizzate né l’utopia platonica né quella comunista di Marx. Leggendo il presente e osservando i mali a cui dobbiamo dare risposta, la società prevista da Auguste Comte sarà quella in cui, con maggiori probabilità, ci ritroveremo a vivere.

In questo contesto, nel quale i confini sono transnazionali e i problemi da risolvere richiedono una base scientifica molto forte, la comunità degli scienziati si qualifica come classe di potere emergente. Anche i medici e i ricercatori stanno diventando sempre più fondamentali. La loro consulenza condiziona le scelte politiche e la pubblica opinione, cosa è vero e cosa va censurato. La gestione del Nuovo Coronavirus ha aperto la strada per una cooperazione globale senza precedenti. Pubblico con privato, case farmaceutiche prima in competizione, sfere sociali apparentemente lontanissime stanno collaborando per dare risposte celeri all’emergenza.

Se le caratteristiche principali del metodo scientifico sono la pubblicità dei risultati e la replicabilità degli esperimenti, allora è da sempre che la scienza è abituata a guardare oltre i confini decisi a Westfalia. Lavorando contemporaneamente allo stesso obiettivo, in un contesto globalizzato dove le informazioni sono istantanee, si possono ottenere risultati più efficaci. I politici e i cittadini non sono abituati a fare a meno dello Stato Moderno, mentre la scienza è pronta da quando esiste un metodo, quindi dalla sua stessa nascita. La comunità degli scienziati supera i confini politici, collabora, scambia, comunica, replica. È un potere che nacque già adattato alla scala globale. Non il proletariato, non l’utopia di Marx, ma quella di Comte è il destino a cui stiamo andando incontro: una politica razionale in cui gli scienziati guideranno lo sviluppo sociale e risolveranno i problemi attraverso la scienza applicata e il rigore del metodo.

La scienza non appiana le diversità culturali

Tuttavia, bisogna tenere conto delle differenze culturali che inevitabilmente condizionano pensieri e percezioni. Il mezzo del web collega gli individui istantaneamente, ma non preserva dalle incomprensioni e dalla difficoltà di applicare le idee in realtà eterogenee. In effetti, le diverse possibilità di impiego delle tecnologie dipendono strettamente dalle differenze culturali e cognitive che contraddistinguono le società.

Le comunità del Pianeta sono quasi tutte animistiche. Esse credono che ogni cosa sia permeata da forze che rendono animata la materia. Non si tratta di forze fisiche. Ogni oggetto custodisce una pletora di spiriti, ereditati dai materiali, dai costruttori, dai proprietari delle cose. Tutto è permeato da energie. La causalità stessa viene spiegata attraverso il volere delle entità immateriali. La vita in Giappone e nei Paesi animistici resta condizionata da queste mappe mentali ed emotive.

Il metodo scientifico non è affatto universale. Si tratta di un impianto di pensiero occidentale, derivante dal modo in cui i greci concepivano la physis e la ragione. In Oriente non si crede al determinismo. Ciononostante esiste una collaborazione internazionale, per quanto complicata, tra scienziati. “Anything Goes!”, diceva Feyerabend. Non c’è un metodo che ha un accesso privilegiato alla verità. L’importante è arrivare all’output desiderabile, non è rilevante il tipo di impianto epistemologico scelto. La magia può giustificare lo stesso nostro mondo e, viceversa, le nostre leggi induttive possono spiegare l’animismo.

Internet of Things: gli oggetti “animati”

Ogni popolo ha cercato di applicare un controllo sulle cose. In Occidente l’approccio è stato razionale. Nel nostro caso il sapere ci dà potere sulla natura. Nella maggior parte dei popoli, tuttavia, la strategia messa in pratica è stata quella di attribuire volontà alle cose. L’IoT permette di ottenere un controllo quasi totale sugli oggetti. Vengono trasformati, razionalmente, in cose interattive, capaci di decidere autonomamente e di sentire, collezionando big data. In questo caso abbiamo coniugato il determinismo occidentale con l’animismo, abbiamo trasformato la vitalità della materia in qualcosa di spiegabile scientificamente e quindi di controllabile attraverso il sapere.

Anche la psicanalisi può essere intesa quale tentativo di rendere “scientifico” (o comunque deterministico) l’animismo. Nei culti animistici ogni espressione personale reca con sé lo spirito del costruttore, quello del proprietario e quello delle sue cause materiali. Tali energie restano per sempre nell’oggetto, potendo interagire con la sfera del visibile in vari modi. La psicologia dinamica, da parte sua, analizza ogni atto individuale come se rivelasse simbolicamente l’inconscio. Gli esperti calligrafi, dalle scelte dell’inchiostro, della carta, dal modo in cui si disegna e scrive, spiegano il tipo di persona che si cela dietro queste apparenti casualità.

Oriente e Occidente: macchine come noi

L’Italia è, secondo le statistiche, tra i Paesi più avanzati nella ricerca in campo robotico, tuttavia sul podio delle Nazioni con maggiore densità robotica ci sono sempre i Paesi Orientali. Perché questa differenza? Esistono ragioni spiegabili attraverso la cultura animistica che contraddistingue tutto l’Estremo Est? Quello che manca all’Internet delle Cose, per essere animismo, è l’anima in senso pieno. È questo che ci rende riluttanti, nell’Occidente, a inserire nella rete sociale le macchine automatizzate, in particolar modo nelle sfere socio-sanitarie?

La Cina è collocata piuttosto in basso nella scala della densità robotica. La ragione, secondo il mio punto di vista, è da imputare alle leggi della domanda e dell’offerta. La disponibilità di mano d’opera a basso costo rende l’adozione dei robot poco vantaggiosa. Per il resto, la grande accoglienza di strumenti automatizzati nell’industria e nella sfera sociale in Paesi come la Corea, il Giappone e Singapore può dipendere proprio dall’animismo. Confrontandomi con lo studioso di tali culti Francesco Baldessari in merito al Giappone e alla robotica, ha concordato con me riguardo al fatto che sia più facile per loro impiegare robot dall’aspetto antropomorfo. Nella nostra società c’è riluttanza ad affidare gli anziani a una macchina. Nella cultura Giapponese, se il robot possiede un’anima benigna è sicuro delegargli le pratiche di cura, come se fosse un membro umano della famiglia.

Durante la pandemia c’è stata un’accelerazione per la proposta e l’adozione dei sistemi robotici. Sono stati declinati in diversi modi, in particolare sono stati impiegati per favorire il distanziamento fisico, la detection di patogeni e l’igienizzazione degli ambienti. Si tratta di un impiego che dovrà essere mantenuto anche nel futuro e non solo negli ospedali. Le pratiche di igiene sono stata un delle conquiste della storia. Hanno garantito una migliore e più lunga speranza di vita a tutti gli individui. Il progresso in questa direzione costituirà un avanzamento nella qualità dell’esistenza stessa.

Viene, poi, suggerita l’automatizzazione di alcune pratiche di laboratorio. I biologi, soprattutto ultimamente, devono analizzare tantissimi campioni, con gesti estremamente ripetitivi. Oltre a incorrere molto più probabilmente in una sindrome al pollice delle mani, la reiterazione meccanica di pratiche come queste genera la cosiddetta “cecità da disattenzione”. Sono proprio l’abitudine e l’expertise a lasciare maggiore spazio all’errore. In questo possono venirci in aiuto strumenti automatizzati come i robot.

Resistenza ai robot umanoidi

Per le aree nelle quali l’uomo regna sovrano, l’intervento robotico può comunque avere un ruolo, eppure in Occidente si fatica ad accoglierlo nella realtà quotidiana. Alla social robotics viene tutt’al più riservato un ruolo fantascientifico, finalizzato a suscitare il solo “effetto wow”, così come lo definisce Emanuele Micheli, presidente di Scuola di Robotica. I robot umanoidi, istruiti per effettuare un’accurata sentiment analysis, potrebbero tuttavia rappresentare un sostegno efficace. Certi BES necessitano di stimolazione continua, infatti, in questo momento di distanziamento fisico e di impossibilità a interagire con gli altri, questi soggetti sono incorsi in disagi psicologici piuttosto profondi. I robot, allora, potrebbero essere uno strumento compensativo importante e non solo per questa fase di emergenza.

La riluttanza a delegare alcuni compiti ai robot probabilmente deriva dalla nostra maggiore facilità a interpretarli come semplici macchine. Preferiamo adottare robot non umanoidi? In questo modo conserviamo intatta la boria di crederci insostituibili e non sostituiti? La nostra società è individualistica, mentre quelle orientali sono gerarchiche. Ciò significa che in Oriente il tutto è più importante delle parti. Viene prima il processo complessivo rispetto al merito individuale, al contributo di ogni singolo ingranaggio. Per gli orientali è più immediato accettare di inserire sistemi robotici nel modo di produzione, non sentendosi spogliati di una proprietà privata che dal principio non aveva peso.

Nella nostra società non applichiamo facilmente i robot per il fatto di non essere disposti a pensarli come esseri animati? In effetti se dovessero commettere un errore non sapremmo a chi dare le colpa. È la punizione (interna ed esterna) che ci consente di fidarci degli altri. La società civile si regge sul Super Ego e sul diritto istituzionalizzato. Il diritto penale punisce chi prova a sfidare quelle regole di solidarietà che rendono stabile un sistema sociale. Ogni volta che la pena è applicata, anche la rispettiva scala valoriale è ribadita, riconfermando i legami che uniscono le comunità. È per questo che preferiamo un essere umano che sbaglia tantissimo piuttosto che un robot impunibile.

Errori umani ed errori robotici

Il Medioevo era in parte animistico. L’episodio della scrofa di Falaise è un esempio di come venivano concepiti gli animali. Paradossalmente c’era una tendenza ad attribuire molta più dignità agli animali rispetto a quanto facciamo oggi. Tantissime fonti raccontano di processi, punizioni capitali e ammende imposti ad animali da fattoria, rei di aver commesso qualche misfatto. Il tribunale può essere applicato solo a esseri viventi che hanno meta-coscienza e che dunque possono riflettere sulle azioni. Non è la decisione autonoma a creare la colpa ma la coscienza fenomenica, ossia quella che nell’Occidente definiremmo psyché. Per questo motivo lo sbaglio umano è sempre interpretato moralmente. Per l’IA, invece, proprio a causa della diversa natura delle macchine, l’errore è visto come un’opportunità. Le rete neurali, in base alla differenza tra l’output ottenuto e quello desiderato, correggono i pesi tra le connessioni, perfezionando il loro apprendimento.

Colpevolizzare un robot è animismo. In questo culto si parte sempre dalla constatazione della Natura malvagia. Per alleggerire la tensione e la paura del caso, si preferisce pensare che tutto abbia un’anima e che quindi, in linea di principio, si possa intervenire con la magia, rabbonendo gli oggetti. L’intelligenza artificiale prende decisioni autonome, ma ciò non è sufficiente a far sì che si possa pensarla colpevole di un’azione malevola. In una società non animistica come la nostra, l’impiego dei sistemi automatizzati nelle aree di responsabilità è rallentato anche da questi motivi culturali. Non sapremmo come controllare il caso e come giudicare un errore commesso da strumenti a cui, di tradizione, non attribuiamo meta-coscienza.

Ulteriore rischio a cui stiamo andando incontro è l’istituzionalizzazione di ogni aspetto del bios. Il processo è iniziato con l’ospedalizzazione della nascita, della morte, della malattia e con la formalizzazione dell’apprendimento. Ultimamente, attraverso i Big Data e i sensori, ogni azione è tracciabile e quantificabile. Mi domando se finiremo per applicare condizioni di verità agli atti illocutori.

Iot e wearable: la verità dei sintomi

L’espressione “ho male”, sosteneva Wittgenstein, non è una proposizione alla quale si possa attribuire il valore di vero o falso. Siccome manca il riferimento, tale asserzione non potrà essere controllabile empiricamente. Allo stesso modo anche le nostre azioni non possono essere vere o false. Le attività sono giudicabili in base al fatto che siano o meno andate a buon fine.

Come comportarci, dunque, di fronte a una stringa di parole quali “ho dolore”? Che finalità ha un’esclamazione di quel tipo? Una richiesta di aiuto? Un altro modo per dire “ahia” e per mimare una smorfia di dolore? La certezza di una sensazione la ha solo il soggetto che la prova. Tuttavia, grazie all’esistenza di comportamenti di dolore manifesti (pubblici) e alla somiglianza tra gli esseri umani, è possibile credere che gli altri abbiano la nostra interiorità e che provino il nostro male. Se fossero solo buoni attori? Non c’è modo di saperlo. L’unica strada per uscire dall’impasse è accettare che la verbalizzazione del dolore non sia una proposizione vera o falsa. Non bisogna impegnarsi per verificarla, dato che il riferimento (necessario per applicare il criterio di verificazione) fa parte di un mondo dell’ulteriorità per noi inaccessibile.

La medicina occidentale ha cercato strumenti per misurare la malattia, dandole prova oggettiva. Quello che accade oggi è che i sensori, resi trasportabili attraverso l’IoT, possano misurare l’intera quotidianità, anche al di fuori degli ospedali. Non vogliamo monitorare la malattia, ma la vita. Non siamo sicuri di stare bene, vogliamo che i sensori e gli algoritmi ci dimostrino che siamo sani. L’IoT sta trasformando la sensazione di malessere in una proposizione vera o falsa. Interpretare in questo modo la percezione del dolore può risvegliare alcuni problemi epistemologici.

I sensori possono non essere progettati per cogliere certi fenomeni, eppure non vuol dire che ciò che non è quantificabile non esista. Pertanto se un soggetto provasse uno stato di dolore e il suo wearable gli dicesse che la sua salute è perfetta, dovrebbe convincersi di stare avendo un’allucinazione? Se i sensori non colgono le cause ideogene delle sensazioni di malessere, paradossalmente anche l’idea di trovarsi in uno stato allucinatorio dovrebbe essere interpretata come falsa. La medicina, come sostiene anche il medico oncologo del policlinico di San Martino, Marco Spiccio, è conscia che il dolore sia relativo. Intervengono diversi fattori epigenetici nella sensazione. Se un soggetto appartiene a una cultura meno incline a dimostrare il dolore, interpreterà la percezione dell’algia in modi dissimili dal nostro e addirittura potrà non sentire male, benché un sensore possa sostenere il contrario.

I rischi di un mondo iper-controllato

Bisogna, dunque, stare attenti a non leggere le azioni e la sensibilità come fenomeni dotati di verità e falsità. Il controllo totalmente razionale del mondo potrebbe addirittura portarci a sostenere un piano eugenetico, imponendoci pochi figli da geni selezionati, così da rispondere alle richieste ambientali, bilanciando artificialmente il rapporto malthusiano tra demografia e risorse. Il determinismo, tuttavia, è solo uno dei modi di pensare alle cose. La comune natura umana giustifica tanto l’universalismo quanto il relativismo: la possibilità di simpatizzare con gli altri dipende dal fatto che siamo tutti esseri umani; il pluralismo dipende dal fatto che siamo unici, creativi e quindi tutti esseri umani. Credere che ci sia un universale umano, fatto, però, di differenze e possibilità di comprenderle, induce ad adottare un approccio tollerante ed empatico, impedendo ogni imposizione culturale.

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