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Disinformazione, non è (tutta) colpa dei social: gli ultimi studi



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Anche se si procede a una modifica degli algoritmi di raccomandazione, non si può escludere la tendenza degli utenti a ricercare contenuti conformi alle proprie convinzioni personali. Può essere perciò illusorio e fuorviante ritenere i social la fonte esclusiva dei pericoli di “inquinamento” comunicativo

Pubblicato il 7 ago 2023

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale



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Da tempo, i social media vengono annoverati tra i principali strumenti di propagazione incontrollata della disinformazione online in grado di diffondersi massivamente su larga scala grazie alla viralizzazione indicizzata di contenuti incompleti, fuorvianti e imprecisi.

Le dinamiche ingannevoli della comunicazione online

Contenuti che, anche facendo leva sull’emotività divisiva e polarizzata ivi innescata, riescono facilmente a scalare il posizionamento virtuale delle notizie più condivise tra gli utenti della Rete, al punto da influenzare l’opinione pubblica: la percezione delle persone è, così, sottoposta alle impercettibili dinamiche ingannevoli del distorto flusso comunicativo generato dalla circolazione di fake news, come rilevano svariate indagini e studi di settore sulle relative evidenze riscontrabili nella prassi, da cui si evince il rilevante impatto divulgativo, in termini di accentuato engagement, della disinformazione.

I contenuti meno accurati sembrano, infatti, risultare più coinvolgenti e, quindi, dotati di una pervasiva capacità “magnetica” di attirare un maggiore numero di mi piace, visualizzazioni, commenti e condivisioni, rispetto alle fonti più affidabili e autorevoli.

Alla radice della proliferazione “tossica” di contenuti informativi falsi

Ma è davvero così scontato identificare le cause di un fenomeno complesso e articolato sempre più centrale nell’attuale metamorfosi generale della Rete, come appunto la proliferazione “tossica” di contenuti informativi falsi, addebitando alle piattaforme sociali una preminente se non persino esclusiva responsabilità per l’acclarato “inquinamento” dell’ambiente digitale?

In controtendenza rispetto alle supposizioni, a quanto pare no, almeno stando alle ultime ricerche realizzate in materia e recentemente rese note sul tema: nonostante le intervenute modifiche tecniche sollecitate sugli algoritmi di raccomandazione utilizzati dai social media per suggerire i “feed” corrispondenti alle ricerche e alle preferenze degli utenti, il livello di polarizzazione politica non risulta significativamente diminuito, al punto da dover confutare il risalente assioma circa le presunte censurabili colpe imputabili alle piattaforme sociali, disattendendo una convinzione perentoria a lungo comunemente sostenuta.

Cambia indicizzazione, resta la “voglia” di fake news

In altre parole, anche quando vengono disattivati gli ordinari sistemi di indicizzazione ottimizzata dei contenuti visibili all’interno dei social media, non si registrano considerevoli mutamenti nel comportamento delle persone che, invero, sembrano ugualmente attirati dalle notizie meno accurate ed etichettate come “fake news”, specie se riferibili a orientamenti politici di matrice estremistica in grado di radicalizzare le informazioni a senso unico veicolate online nell’ambito di ristrette “bolle” comunicative ingabbiate entro i confini di un ristretto isolamento ideologico fortificato da stabili “bias confermativi”.

Emblematiche, in tal senso, sono, ad esempio, le osservazioni formulate da un articolo pubblicato dalla rivista scientifica “Science” dedicato all’analisi degli effetti prodotti, in occasione delle elezioni presidenziali statunitensi del 2020, dall’utilizzo dei “feed cronologici” delle notizie condivise all’interno dei social media (tenuto conto delle risposte fornite da 23.391 utenti attivi su Facebook e 21.373 utenti attivi su Instagram), in sostituzione degli algoritmi di raccomandazione personalizzata predefiniti (cd. “feed algoritmici”). L’indagine effettuata ha appurato una sensibile riduzione del tempo trascorso sulle piattaforme sociali (rispetto al tempo di utilizzo riferibile all’utente medio sottoposto al sistema del “feed algoritmico”), mentre, invece, pur incrementandosi la consultazione aperta e plurale di variegate fonti “ideologicamente moderate” accessibili ad un pubblico misto, viene di fatto esclusa la diretta incidenza dei social media sulla polarizzazione politica suscettibile di influenzare i comportamenti degli utenti.

Gli effetti delle eco chambers

Di analogo tenore risultano, altresì, le conclusioni tratteggiate da un altro ulteriore articolo pubblicato dalla rivista scientifica “Nature” che ha esaminato, come specifico focus di approfondimento, il paventato impatto polarizzato determinato dalle cosiddette “eco chambers” dei social media.

Rispetto ad un campione statistico basato sull’analisi empirica di oltre 23.000 profili di utenti adulti maggiorenni attivi sui social media (segnatamente su Facebook), sempre durante le elezioni presidenziali statunitensi del 2020, pur riducendosi la diretta esposizione a contenuti provenienti da circuiti unidirezionali “chiusi” configurabili nell’ambito di ristrette cerchie di contatti personali o gruppi affini che la pensano allo stesso modo, a fronte di un correlato incremento esponenziale di fonti trasversali consultabili, mediante l’utilizzo di un feed meramente cronologico di notizie ivi accessibili per il reperimento delle relative informazioni sui temi ricercati, non sono stati rilevati apprezzabili effetti di miglioramento negli atteggiamenti degli individui monitorati alla luce delle convenzionali reazioni ordinariamente associate ai fattori destabilizzanti di polarizzazione politica, estremismo ideologico e manipolazione di fake news.

Anche laddove si proceda ad una modifica degli algoritmi di raccomandazione, non è, dunque, possibile radicalmente escludere la tendenza degli utenti a ricercare contenuti ritenuti conformi alle proprie precedenti convinzioni personali. Addirittura, come ulteriore effetto paradossale delle ricerche, sembra riscontrarsi persino una maggiore propensione all’interazione con fonti affini, pur se inaffidabili, da parte degli utenti che ne siano stati prima inizialmente privati, manifestandosi una sorta di dipendenza psicologica in grado di resistere a qualsivoglia tentativo preclusivo di inibire l’accesso alle relative fonti.

Disinformazione e polarizzazione politica, l’impatto dei social è esiguo

Senza, dunque, voler totalmente disconoscere l’indubbia capacità amplificativa di cui sono dotate le piattaforme telematiche in relazione alla dilagante proliferazione della svariata mole di contenuti che circolano nell’ambiente digitale, in ogni caso, secondo i richiamati studi, il prospettato impatto fuorviante dei social media sulla disinformazione e sulla polarizzazione politica sarebbe, comunque esiguo, pur incidendo, invece, notevolmente rispetto alla quantità di tempo e alle concrete attività realizzabili online dopo aver modificati i “feed” utilizzati dalle piattaforme sociali.

Simili interventi possono, infatti, mutare la tipologia di contenuti concretamente visualizzabili dagli utenti, offrendo la disponibilità di fonti più accurate e precise per la ricerca delle relative informazioni, a discapito di quelle classificate come “fake news”. La selezione mirata e moderata di contenuti pertinenti e pacati, incentivando la circolazione di informazioni di qualità, migliora senz’altro il dibattito dell’opinione pubblica e riduce, come ulteriore beneficio positivo, la dipendenza telematica alimentata dall’inappagato bisogno di una costante connessione online, esasperata tra l’altro, anche da strategie comunicative elaborate con l’intento di fomentare la contrapposizione di opinioni divisive secondo logiche di scontro verbale e di violenza virtuale sempre più accentuate nell’ambiente virtuale.

Al netto delle criticità configurabili nell’ambito del pervasivo “lato oscuro” della Rete che sembra ora materializzarsi con inquietante preoccupazione sull’evoluzione del futuro ecosistema digitale, ritenere però i social media la fonte esclusiva dei pericoli di “inquinamento” comunicativo a causa di una possibile polarizzazione politica che tali piattaforme sarebbero in grado di determinare può essere illusorio e fuorviante, trattandosi di strumenti telematici di per sé neutri, i cui risvolti pratici derivano dalle modalità di utilizzo che si manifestano nella concreta prassi.

Conclusioni

Spesso, infatti, allo stato attuale, la spasmodica massimizzazione di profitti legati al “clickbait”, come pratica molto diffusa nel settore dell’editoria online, per attirare, grazie alla tecnica degli “acchiappaclick”, il traffico telematico mediante titoli “accattivanti” o “sensazionalisti” da cui dipende l’aspettativa di conseguire gran parte degli introiti generati dal sistema pubblicitario dell’advertising online, può, anche indirettamente, alimentare il fenomeno della disinformazione online.

Continuando a intensificare l’attenzione sulle prospettate implicazioni generate dalla metamorfosi dell’ambiente digitale, nell’ambito di una sinergica cooperazione tra governi, società civile, settore accademico e tessuto imprenditoriale “high-tech” (particolarmente positiva è, ad esempio, l’iniziativa “Facebook Open Research and Transparency project”, promossa con l’intento di fornire ai ricercatori maggiori informazioni sul targeting degli annunci politici e incrementare il livello di trasparenza sul funzionamento dei sistemi di advertising online che influenzano il processo decisionale degli elettori), resta comunque centrale la necessità di stimolare in via prioritaria, anche come efficace sistema sociale di autodifesa generale contro le inedite insidie virtuali, un approccio culturale di maggiore consapevolezza educativa e formativa che sia in grado di prevenire, sia nella sfera individuale che in quella collettiva, la diffusione delle “fake news”.

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