Il DNA ha assunto un ruolo sempre più rilevante nelle indagini relative a casi criminali e nei processi penali e civili. Essendo uno dei più accurati e sensibili strumenti identificativi, il DNA è infatti in grado di fornire alla giustizia preziose informazioni che tendono ad aiutare e sostenere il corretto iter giudiziario e hanno la finalità di avvicinare quanto più possibile tra loro verità storica e giudiziaria.
Grazie a nuove sofisticate tecnologie di biologia molecolare e genetica, è possibile acquisire agli atti processuali informazioni o dati di tipo tecnico scientifico che, sino a pochi anni fa, non erano accessibili. Per assicurare la verifica della corretta metodologia di acquisizione e ottenimento dei dati, adesso esiste una nuova competenza in biologia forense, certificata ISO 17024.
Editing genico, le linee guida OMS: verso una regolazione etica
Utilizzo processuale del DNA: la svolta
Quando si vanno ad immettere dei dati di natura tecnico scientifica all’interno di un procedimento giudiziario – sia esso di natura penale, civile o altra natura – è sempre doveroso operare seguendo il metodo scientifico, vaglio e verifica della corretta metodologia di acquisizione e ottenimento dei dati.
Questi, sotto il profilo giuridico, sono “fonti di prova” ovvero elementi – di svariata natura e provenienza – portati all’attenzione del giudice nel dibattimento su impulso delle parti processuali.
Il giudice ha il delicato compito di verificare la reale rilevanza e portata probatoria di questi dati forniti, di verificare che l’assunzione di questi sia stata eseguita nel duplice necessario rispetto sia delle normative vigenti che dei protocolli tecnico scientifici di settore.
Appurato ciò – all’interno della celebrazione del dibattimento – il giudice deciderà sulla fonte di prova presentata. In modo generico, la valutazione del giudicante si può in genere sintetizzare così:
- accettazione del dato tecnico e sua trasformazione in prova, che poi sarà in concreto utilizzata per la formazione del libero convincimento in ordine al caso in oggetto; rigetto del dato tecnico, il quale risulta viziato – o formalmente o sostanzialmente – e come tale si ha la sua esclusione dal materiale probatorio acquisito nel corso della celebrazione del dibattimento;
- accettazione del dato tecnico, ma senza perfezionamento della sua trasformazione in prova. Ciò può avvenire nel caso di un dato tecnico presentato che – sostanzialmente – risulti nullo ai sensi del procedimento in oggetto: in altri termini, il dato tecnico è verificato e accettato dal giudice, ma è ritenuto non idoneo alla formazione di prova perché – generalmente – non si è in grado di effettuare la corretta contestualizzazione del dato tecnico presentato con il dato procedimento in oggetto.
Se, da un lato, le nuove tecnologie scientifiche hanno garantito “passi da gigante” in termini di utilizzo processuale del DNA, dall’altro si deve prestare molta attenzione per assicurare che i dati tecnici proposti all’interno del dibattimento – ovvero le risultanze genetiche alle quali si perviene a seguito delle indagini di laboratorio – siano provenienti da reperti che sono stati assunti nel pieno rispetto delle sofisticate procedure che disciplinano l’acquisizione dei reperti biologici, la loro integrità e la loro verificabilità.
Il caso Kercher e la pronuncia della Cassazione
È tristemente noto a tutti il procedimento relativo all’omicidio di Meredith Kercher, nel quale il dato genetico acquisito in sede di indagini preliminari manifestava che vi era la presenza degli imputati Raffaele Sollecito e Amanda Knox all’interno dell’appartamento in cui gli inquirenti trovarono la vittima (scena del crimine) e su un coltello ad uso domestico.
Se, da un lato, il dato genetico sembrava propendere per la collocazione degli imputati sulla scena del crimine, dall’altra nel processo sono state riscontrate difformità e vizi a più livelli: dal fatto che il materiale genetico era assolutamente esiguo (trattasi di Low Template DNA), al fatto che entrambi i soggetti avevano liberamente accesso agli ambienti in cui si sono verificati i fatti, al fatto che i reperti dai quali è stato rinvenuto questo DNA furono gestiti in modo assolutamente difforme rispetto a quanto previsto dai protocolli tecnico scientifici in materia di corretta acquisizione e gestione dei campioni biologici per finalità forensi.
Il risultato di tutto ciò è stata una importante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che le predette fonti di prova genetiche – in quanto provenienti da reperti manipolati e gestiti nella palese difformità rispetto ai protocolli tecnico scientifici di settore – non potevano avere alcuna valenza probatoria.
Questa sentenza, che ha avuto rilievo internazionale, ha di fatto stabilito che le tecnologie scientifiche – seppur potenzialmente utilissime – devono entrare nel procedimento penale o civile solo a seguito di una attenta e serrata attività di verifica dei dati tecnici forniti.
Dati genetici e DNA, nel rispetto dello standard ISO
Più generalmente, ogni procedimento – penale o civile che sia – nel quale la presentazione delle fonti di prova di natura genetico-biologica avviene nel dibattimento, deve sempre prevedere una fase di verifica del dato, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche – preliminarmente – dal punto di vista della gestione dei campioni biologici nella fase pre-analitica ovvero quella fase che materialmente precede le analisi di laboratorio, cioè la scena del crimine.
Per tali fini, e proprio con lo scopo di assicurare che queste operazioni di vaglio e verifica – anche se ex post – siano svolte da personale competente, in ricezione di quanto rappresentato dai giudici della Corte Costituzionale con sentenza numero 239/2017, la comunità scientifica si è mobilitata.
Nello specifico, tenuta in considerazione le predette necessità, ci si è mossi nel rispetto degli standard internazionali imposti dalla comunità scientifica. Se, da un lato – come stabilito dalla legge Nr. 85/2009 in materia di banca dati del DNA – possono entrare nel procedimento giudiziario solo quelle risultanze genetiche che laboratori dotati dell’accreditamento ISO 17025 ottengono, è bene che anche alla fase pre-laboratorio venga applicato uno standard e una procedura altrettanto rigorosa e precisa.
La questione, di non semplice soluzione per la comunità scientifica, è complessa perché si devono andare a garantire atti di competenza tecnico scientifica che avvengono al di fuori del laboratorio (dove le condizioni sono più agevolmente controllabili e standardizzabili).
Ciò considerato, nell’impossibilità di standardizzare le condizioni del luogo – scena del crimine e vista l’ampissima eterogeneità, la comunità scientifica ha ritenuto opportuno agire sulla preparazione e sulle competenze tecnico specialistiche degli operatori. Proprio in conformità a questo rappresentato dai giudici della Corte Costituzionale.
La nuova competenza in biologia forense
Da tali considerazioni ha preso avvio un percorso di formazione ultra-specialistico per operatori di settori mirato appunto alla certificazione di competenze tecniche specifiche, in questo caso della competenza “Sopralluogo specialistico di biologia forense”. La nuova competenza è – di fatto – una specialità in quanto è verificata ed attribuita da ente certificatore terzo, a sua volta riconosciuto da Accredia, ente che si occupa della verifica degli standard ISO.
La figura professionale così formata è quindi in grado di operare – sia materialmente in ambito di acquisizione di fonti di prova biologica su scene del crimine – sia in ambito di revisione, ovvero in quel momento in cui i dati ottenuti sono presentati nel dibattimento, fase questa in cui si ha la verifica della bontà – o della presenza di criticità – delle procedure adottate per il management dei reperti biologici.
Lo standard ISO 17024
È importante sottolineare il fatto che gli standard – ISO 17024 in questo caso, e la certificazione della competenza – hanno rilievo e valenza internazionale. Ciò rende la comunità scientifica italiana come la prima che ha dato corso a un simile procedimento, al fine di assicurare la qualità dei dati tecnico biologici per fini di giustizia.
La certificazione della competenza:
- richiede il superamento del relativo corso specialistico;
- è accessibile solo a professionisti dotati dell’abilitazione all’esercizio della professione di biologo che superano uno specifico periodo di formazione specialistico e che – annualmente – procedono al mantenimento delle competenze tramite aggiornamenti mirati.
Il predetto corso specialistico, offerto da UniBioFor, associazione dei biologi forensi italiani in collaborazione con Bio Forensics Research Center, è qualificato dall’ente di certificazione terzo FAC certifica, a sua volta riconosciuto da Accredia a norma della ISO 17024.
Conclusioni
Con una procedura certamente complessa, ma volta alla garanzia della qualità dei lavori attinenti le fonti di prova biologiche per scopi forensi, la comunità scientifica mira a garantire il dovuto vaglio preliminare alla risultanze tecnico scientifiche.
Ciò contribuisce a garantire e assicurare che nel sistema giudiziario possano entrare – e diventare prova – solo quegli elementi tecnico scientifici connotati da dimostrabile qualità e possibilità di contro-verifica della bontà metodologica e operativa tenuta nel corso del processamento /lavori / analisi tecniche.