fake news

Fact-checking partnership di Facebook: come funziona, pro e contro

Responsabilizzare i social network in relazione al loro ruolo nell’ambito del discorso pubblico e delle democrazie è il primo passo nel contrasto alle fake news. Va in questa direzione la fact-checking partnership di Facebook, che potrebbe sbarcare anche in Italia. Vediamone funzionamento, limiti e possibili aggiustamenti

Pubblicato il 25 Lug 2018

Matteo Monti

dottore di ricerca in diritto pubblico comparato

social e fake news

Come procede la fact-checking partnership di Facebook e quali aggiustamenti dovrebbero essere previsti se – come sembra probabile – sbarcasse definitivamente e nelle stesse forme in Italia. E, ancora, quali soluzioni potrebbero essere opportune per garantirne una maggior efficacia? Alcuni spunti di riflessione e proposte a partire dal Report di Mike Ananny sul Columbia Journalism Review.

Social network e diffusione delle fake news

Spesso il vero luogo di diffusione delle fake news sono i social networks che fungono da cassa di risonanza delle notizie false create ad hoc per ragioni economiche o politiche.

Sui social networks agiscono e si amalgamano una serie di elementi che incrementano la diffusione di fake news quali: la c.d. social cascade (la diffusione a cascata di notizie); la c.d. group polarization (la polarizzazione “politica”); l’influenza delle prior convictions (il fenomeno cognitivo che porta a confermare le proprie credenze); una generale collective credulity; e, soprattutto, come causa e conseguenza la cosiddetta viralità.

Vari studi hanno, inoltre, dimostrato come il debunking, ossia il tentativo di smentire le notizie false, risulti scarsamente efficace su social come Facebook se posto in essere senza opportuni strumenti tecnici, ma con il mero confronto di idee.

I tentativi di debunking spesso si perdono nel mare magnum del social network.

La fact-checking partnership di Facebook: cos’è e come funziona

La fact-checking partnership di Facebook è comunemente attribuita alle pressioni socio-economiche e politiche subite da Facebook a seguito dell’ingente circolazione di fake news sul social durante la campagna presidenziale americana del 2016; per altri essa è legata alla lettera aperta dell’International Fact Checking Network; per alcuni infine è dovuta a una presa di cognizione dei vertici di Facebook in relazione al loro ruolo nella vita democratica.

A prescindere dalla causa scatenante, Facebook ha iniziato dalla fine del 2016 a sperimentare una collaborazione con alcune agenzie private di fact-checking volta ad effettuare un controllo sulle notizie circolanti sul proprio social.

Facebook negli Stati Uniti ha, dunque, sviluppato un peculiare meccanismo per arginare la diffusione virale di fake news: la cosiddetta fact-checking partnership, che consiste in una forma di collaborazione fra Facebook e alcune agenzie di fact-checking, deputate al controllo delle veridicità di una notizia.

Funzionamento e limiti della fact-checking partnership

Il dispositivo in esame, ormai applicato da più di un anno negli USA, potrebbe ben presto sbarcare in Europa e in Italia. Appare, allora, utile e necessario comprenderne funzionamento e limiti.

La fact-checking partnership è basata su una procedura di coinvolgimento degli utenti del social cui viene affidata la possibilità di segnalare le notizie che reputano false. La segnalazione “umana” viene filtrata da Facebook attraverso un algoritmo e inserita in una partners-only dashboard, ossia una piattaforma di condivisione fra Facebook e agenzie di fact-checking (visibile solo a loro).

Dopo aver selezionato le notizie “candidate” ad essere verificate e dopo averle inserite nella suddetta dashboard, Facebook sottopone le potenziali fake news al controllo di 2 agenzie di fact-checking designate fra le 5 che partecipano alla partnership (ABC News, Associated Press, FactCheck.org, PolitiFact, and Snopes). Le agenzie determinano quali aspetti controllare fra le storie sottoposte nella dashboard.

Qualora le suddette agenzie di fact checking determinino che una notizia a loro sottoposta è verosimilmente falsa Facebook procede a segnalarla sul social network come contenuto “non attendibile” (disputed).

I problemi della fact-checking partnership

Sul Columbia Journalism Review, per conto del Tow Center for Digital Journalism, Mike Ananny ha pubblicato un interessantissimo Report che indaga il mondo segreto e per lo più sconosciuto della fact-checking partnership di Facebook e le sue problematiche, analizzando, tramite interviste e sondaggi, il primo anno di funzionamento della partnership.

Uno dei principali problemi della fact-checking partnership rilevato da Ananny è legato al coordinamento fra Facebook e le agenzie: i due organismi si muovono indipendentemente con pochi punti di contatto se non la dashboard, che sembra però essere espressione più delle priorità (a volte opache nella scelta delle news) di Facebook che di quelle delle agenzie.

Peraltro non è nemmeno appurato che la dashboard sia la stessa per tutte le agenzie, anche se ciò è probabile. La procedura rimane ancora molto oscura e incerta alle stesse agenzie.

Dal punto di vista contenutistico alcune agenzie hanno anche lamentato l’assenza nella dashboard di memes o di siti cospirazionisti, come InfoWars, e più in generale una mancanza di trasparenza nella gestione della partnership e della dashboard (notizie potenzialmente false, loro impatto e “popularity”).

Timing, trasparenza e risorse

Le agenzie hanno anche evidenziato i problemi di timing, auspicando la predisposizione di meccanismi per agire prima della viralità, di mezzi per svolgere più velocemente il fact-checking e infine la possibilità di avere contezza dell’efficienza ed incisività delle proprie performances per modulare più efficacemente i propri sforzi.

Un problema di natura economica e di opportunità che si è poi rilevato è stato l’accettazione di un eventuale compenso per le prestazioni delle agenzie. Facebook ha, infatti, offerto un compenso di circa 100.000 dollari per la collaborazione.

Alcune agenzie hanno rifiutato il suddetto contributo per non intaccare la propria indipendenza; un’agenzia ha argomentato il rifiuto per il rischio che l’accettazione di un contributo avrebbe surrettiziamente comportato l’inserimento nell’organigramma aziendale, con la possibilità di affidamento di nuovi compiti; altre agenzie hanno, viceversa, accettato in quanto i servizi che svolgono determinano profitti per Facebook.

Infine e in generale, molte agenzie lamentano la posizione di asimmetria di potere con Facebook e sperano in una trasformazione della gestione della partnership e nell’impiego di maggiori risorse da parte del colosso di Menlo Park.

Insomma, per le agenzie la partnership avrebbe due grossi limiti: scarsa trasparenza anche rispetto alle agenzie stesse e poche risorse.

Problemi di metodo e di efficacia 

Il primo problema, di metodo, della fact-checking partnership riguarda i soggetti deputati al controllo della veridicità/falsità di una notizia di cui alcuni hanno messo in dubbio il carattere bipartisan e indipendente. L’unica garanzia della neutralità e imparzialità delle agenzie fact-checking risulta essere la loro aderenza alla Carta di Poynter, una sorta di codice etico per fact-checkers.

La valenza e l’efficacia della Carta di Poynter può essere contestabile, ma è evidente che, a prescindere dai bias, le agenzie aderiscono a un modello etico che ne permette un’affidabilità ormai accertata, anche se sicuramente un contributo più “neutro” e coerente col sistema costituzionale del nostro ordinamento potrebbe essere posto in essere da qualche autorità indipendente o qualche ente accertatamente bipartisan, come l’ordine dei giornalisti.

Ma, a prescindere dal problema non indifferente dell’indipendenza del controllore, il vero problema della fact-checking partnership è quello della tempistica e visibilità della segnalazione di una fake news che ne inficia pesantemente l’efficacia.

Nella pendenza del processo di verifica, infatti, le notizie false possono divenire virali.

Il problema è generato dall’incapacità della segnalazione del contenuto disputed di raggiungere gli utenti che abbiano interagito con la fake news mediante, ad esempio, likes e commenti.

Quindi, la segnalazione di un contenuto disputed non è spesso in grado, per ragioni di tempistica, di evitare la viralità di una bufala e, inoltre, una volta diffusosi il contenuto non è in grado di raggiungere i soggetti disinformati dalla fake news.

Gli stessi rimangono, infatti, del tutto ignari di aver letto, creduto e orientato determinate scelte in base a una fake news.

E, allora, che fare?

Una possibile soluzione

Una possibile soluzione per rendere il sistema maggiormente efficiente ed efficace potrebbe essere, allora, quello di potenziarlo con una forma di rettifica “atipica” che possa aiutare il mercato delle idee a reagire alla fake news immettendo nello stesso la smentita in maniera efficace e pervasiva.

Al riguardo, sarebbe sufficiente che Facebook “notificasse” agli utenti che hanno interagito con una fake news sul social mediante like, commento o condivisione l’informazione di aver letto una fake news, ossia un contenuto disputed.

Questa rettifica sarebbe in grado, anche nel caso di viralità, di prospettare agli utenti disinformati la verità e dargli la possibilità di confrontarsi con essa, sopperendo alle attuali mancanze in termini di visibilità del meccanismo di segnalazione della partnership.

Si potrebbe, in aggiunta, anche pensare a riprodurre report periodici per ogni singolo utente che potrebbero segnalare allo stesso il numero di fake news con cui ha interagito nelle ultime settimane. Questi report potrebbero apparire nel Newsfeed dell’utente o al posto del cosiddetto “Buongiorno” di Facebook.

La soluzione in esame garantirebbe così l’introduzione, senza forme di censura penale, della verità nel mercato delle idee rafforzandola mediante il giudizio di agenzie bipartisan (o tripartisan si dovrebbe dire per il nostro paese) o autorità indipendenti, forse ancora in grado di avere quel minimo di credibilità per garantire una smentita efficace alle fake news anche sul piano sociologico.

Questa soluzione potrebbe essere quella ideale in affiancamento a forme di educazione cibernetica e in attesa dello sviluppo di uno scetticismo programmatico che possa portare gli internauti ad un utilizzo più consapevole della Rete.

Il tema della responsabilizzazione dei new media 

È evidente che con l’avanzare inesorabile delle Internet platforms nel ruolo di diffusori di notizie e informazione cresceranno anche le pressioni sociali e pubbliche verso la loro responsabilizzazione.

Questa dinamica avvicinerà da una parte i giornalisti alla Rete e dall’altra le piattaforme digitali al giornalismo e alle sue responsabilità.

La fact-checking partnership di Facebook è forse la prima di queste esperienze di cogestione dell’informazione online e come tutte i prototipi mostra molti inconvenienti e problematiche, ma anche un enorme potenziale.

Responsabilizzare i social networks in relazione al ruolo che ormai stanno giocando nell’ambito del discorso pubblico e delle democrazie è il primo passo per un contrasto serio ed efficace alle fake news.

Per la prima volta Facebook oltre ad assumere de facto il ruolo di gatekeeper sta anche iniziando a comportarsi come tale.

In questa fase, sono senza dubbio opportune forme di regolamentazione o autoregolamentazione dei social networks che prevedevano in capo alle Internet platforms la necessità di assumersi le proprie responsabilità.

Strada che sembra essere intrapresa dall’Unione Europea.

Un domani magari si sorriderà del fenomeno delle fake news sui social networks, oggi però il problema esiste. E allora potenziare la fact-checking partnership con una forma di rettifica atipica potrebbe essere una soluzione efficace per far reagire il marketplace of ideas e aiutare la verità ad emergere.

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