Le disposizioni al cambiamento registrate nell’elettorato, e sempre più tipiche delle società contemporanee, obbligano le Istituzioni ed in particolare il neonato Governo a fare uno sforzo più forte di lucidità delle politiche. In caso contrario, il ritorno all’”anno zero”, comporterebbe una ineluttabile sofferenza per il paese; in altri termini, se ogni volta si ricomincia da capo, la frustrazione politica è assicurata; in questo scenario, suggerirei tre parole chiave da cui il nuovo Governo dovrà ripartire e confrontarsi: innovazione digitale, genere e lavoro (si tratta di parole, idee, suggerimenti nate in occasione del recente Forum PA).
Porre le basi per una gigabit society
La prima, e prevedibile, parola è innovazione digitale; essa deve essere intesa come necessità di adottare una postura nuova che metta in una corsia preferenziale la spinta al cambiamento di cui il digitale si fa portatore. Un Governo è attendibile se in questa direzione fa scelte anche di annuncio. È oggettivamente il primo nodo che, anche approfittando del cambio elettorale, può portare nuova energia. Diventa oggi necessario porre le basi per una Gigabit society ampliando le tutele per i cittadini e i consumatori. In tale contesto, tra le priorità del Governo, occorrerebbe indicare la necessità di modificare l’attuale perimetro degli obblighi del Servizio Universale, innalzando l’asticella sino all’inclusione della banda larga. Su tale tema di rilevanza europea, l’Agcom ha proposto al MISE (a cui spetta tale competenza), di imporre agli operatori telefonici all’interno del Servizio universale, un accesso ad una velocità di almeno 2Mbps con la Delibera n. 253/17/CONS). Non basta, anche se è prioritario, cablare in maniera capillare l’intero paese, senza garantire allo stesso tempo una connessione veloce al mondo di internet. Paradossalmente, si potrebbe concretizzare una situazione nella quale ciascun cittadino sia messo nelle condizioni teoriche di accedere ad internet, ma senza riuscire a prendere pienamente cittadinanza nel mondo attuale della rete. Come Agcom, abbiamo in più occasioni segnalato la condizione di “divario digitale”, ancor oggi fortemente rilevante nelle zone rurali e non solo (la mappatura delle reti che abbiamo lanciato lo scorso anno ne è un esempio). Ma il divario digitale non è solamente infrastrutturale ma soprattutto sociale. Ecco dunque l’altro lato della medaglia, ovvero la necessità di accrescere un’alfabetizzazione digitale adeguata presso i cittadini; ad esempio occorre porre l’attenzione nella creazione di servizi pubblici accessibili a tutti con un’unica app, sia per la consultazione documentale che per effettuare pagamenti di ogni tipo, specie dal proprio smartphone, in maniera semplice e sicura.
Sanare lo squilibrio tra telco e over the top
Un’ulteriore e rilevante aspetto connesso all’innovazione digitale del paese, consiste negli over the top. Assistiamo ad un forte squilibrio regolamentare tra i soggetti della comunicazione tradizionale e i nuovi soggetti del web. È giunto il tempo di mettere mano a questo improcrastinabile tema, partendo da un’attenta riconsiderazione, in termini di aggiornamento, delle competenze su cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è chiamata ad operare. Attualmente, l’Agcom ha compiti di regolazione – non di spinta all’innovazione – esplicitamente nel mainstream, nella comunicazione tradizionale e in quella che chiameremo 1.0, cioè quella in cui appaiono evidenti le identità e le responsabilità editoriali dei soggetti e delle imprese. Di contro, ha pochissimi poteri nei confronti degli over the top; potremmo anche dire, brutalmente, che non ha quasi poteri se non quelli della moral suasion. In tale cornice, l’Agcom si è comunque mossa avviando, a fine 2017, il tavolo tecnico per la garanzia del pluralismo e della correttezza dell’informazione sulle piattaforme digitali, quale strumento di autoregolamentazione tra tutti gli stakeholder sia nuovi (Facebook, Google, Wikipedia etc.) che tradizionali (Rai, Mediaset, Discovery etc.). Tuttavia, si tratta sempre di strumenti, comunque importanti, ma non dotati di forza giuridica in grado di riequilibrare le dinamiche tra i potenti del web e i soggetti mainstream. Tale situazione determina un gap di comunicazione istituzionale dell’Autorità rispetto al paese, perché nessuno può pensare, fuori da questa Istituzione così specialistica e abitata da elevate professionalità, che si è titolati a dire qualcosa sui telegiornali, ma quasi muti rispetto all’incattivito mondo della rete e dei social.
I poteri e le competenze dell’Agcom verso gli OTT
Basti pensare alle tematiche più recenti quali, ad esempio, l’hate speech o le fake news. E allora, uno dei primi compiti di un nuovo Governo che voglia risolutamente affrontare tematiche di innovazione, è verificare le nostre competenze. In caso contrario, l’Autorità rischia di fare la figura della bella statuina, perché l’opinione pubblica, e forse anche una parte degli specialisti del settore, ignora che noi non siamo muniti di competenze regolamentari di fronte agli over the top. Si tratta di una tematica semplice e al tempo stesso urgente da comprendere. Se non troviamo un modo di incidere attraverso un minimo di facoltà di intervento rinunciamo alla sovranità nazionale. Se un paese non è libero di fare leggi, perché i soggetti che agiscono sul territorio sono più potenti e rappresenta i vari “Stati Uniti dell’innovazione”, senza una Costituzione che si ponga quale garanzia universale, è chiaro che questo rende la sovranità di un singolo paese un elemento di retorica, ma non realistico. L’innovazione si produce e si protegge se si è in grado di dialogare con i giganti della Rete, che sono gli unici che strutturano e infrastrutturano, non solo tecnologicamente, ma anche con incredibile stoccaggio dei contenuti e soprattutto della profilazione degli utenti, tutti i compiti su cui uno Stato sovrano (non sovranista) non può arretrare. Ogni volta che perde questa capacità, cambia natura: è come se uno Stato moderno rinunciasse all’uso della forza nei confronti della criminalità o della mafia: significherebbe che riconosce un contro-Stato.
Attuare politiche per sanare il divario di genere
La seconda parola consiste nell’attenzione al genere. Non si tratta di un omaggio alle genericità, che qualche volta si ascoltano in materia di equilibrio di genere, ma nella presa di coscienza che la modernità italiana è stata abitata, non dico imperniata, soprattutto da donne. A tal riguardo, è possibile fare un esempio per meglio comprendere tale questione: nella scuola e nelle università le donne sono leader di processo dal 1993; hanno superato gli uomini non solo quantitativamente – pur essendo di meno abbracciano di più l’alta formazione – avendo tuttavia un curioso elemento di freno nella domiciliazione digitale. Le donne corrono più veloci verso la formazione: sono leader di processo arrivano prima ai titoli di studio, spesso con voti più alti e migliori performance competitive. Ma non lo sono nel mercato del lavoro; ciò significa che in questo punto c’è una significativa strozzatura e un limite della disponibilità femminile all’innovazione. Non è statisticamente equivalente nel modo in cui le donne sono leader digitali. Tutto ciò significa che l’innovazione rischia di lasciarle indietro, anche se le percentuali di distanza dai maschi si stanno lentamente riducendo. Diventa quindi necessario attuare politiche pubbliche che tengano conto del fatto che c’è un divario, più o meno grande, in cui le donne sono meno competitive che in altri settori. Per poter essere e sentirci veramente moderni avremmo interesse che la leadership nella formazione si allarghi alla leadership nell’innovazione digitale.
L’ultima, e più importante, parola chiave è lavoro. In una mia intervista ad “Alley Oop L’altra metà del Sole” del Sole 24 Ore (“La generazione dei 30-40 è sotto scacco, un costo economico per l’Italia” dello scorso febbraio), ho affermato che le generazioni giovanissime non sono attanagliate dalla crisi quanto le generazioni immediatamente precedenti, perché le prime avranno più possibilità e un clima d’opinione più sfavorevole alla precarietà. Nessuno responsabilmente può dire che il paese sia così al disastro, soprattutto dal punto di vista del lavoro giovanile, come lo dipingono le campagne elettorali e la cattiva informazione. Le incertezze politiche degli anni precedenti agli ultimi governi hanno determinato dislivello anche in termini di macelleria sociale perché la generazione dei 30/40enni, rischia di essere più abbattuta, più disperata di altre. Bisogna stare attenti ad evitare conflitti tra le generazioni, perché questo potrebbe portare ad essere un paese pre-moderno. Se vogliamo distribuire con maggiore equità i provvedimenti che danno forza a un “lavoro buono” e all’ispirazione europea di riferimento, non possiamo immaginare che le politiche siano solo orientate verso i giovanissimi. Ci deve essere un’analisi differenziale dei costi della crisi, anche per evitare incontrollabile conflitti tra le generazioni.
Digitale, formazione e nuova occupazione
Infine, l’ultimo aspetto, di non minor rilevanza, consiste nel temuto pericolo che lo sviluppo digitale possa ridimensionare i posti di lavoro attuali. Internet of things, Big data, cloud computing, realtà virtuale, intelligenza artificiale e 5G, di certo porteranno nell’imminente futuro importanti cambiamenti in termini di sviluppo tecnologico. Cionondimeno, come lo stesso Direttore generale DG Connect della Commissione europea, Roberto Viola, ha in più occasioni ribadito, siamo sempre a noi a dover dire ai robot cosa fare e mai il contrario. Ne discende dunque l’importanza centrale della formazione, a partire dall’età scolastica, nei confronti di queste nuove frontiere che se da un lato comporteranno, inevitabilmente, la perdita dei posti di lavoro tradizionali, dall’altro ne creeranno nuovi e probabilmente migliori.
L’industria 4.0 porterà con sé rischi e opportunità. Spetta a ciascuno di noi, ma soprattutto a chi ci governa, saperli riconoscere ed affrontare adeguatamente.