lotta alla disinformazione

Il Governo Usa non censuri i social: la controversa sentenza che aiuta la disinformazione



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Il primo emendamento e la sezione 230, baluardi contro censure di ogni sorta, hanno consentito alle Big Tech di espandersi indisturbate per tantissimi anni e offrono ora una sponda alla diffusione di disinformazione e linguaggio d’odio. Il dibattito, negli Usa, viene riacceso dalla decisione di un giudice. Articolo aggiornato con la decisione della 5a corte…

Pubblicato il 13 lug 2023

Antonino Mallamaci

avvocato, Co.re.com. Calabria



Digital,Contents,Concept.,Social,Networking,Service.,Streaming,Video.,Nft.,Non-fungible

La decisione* di un giudice federale che ha ingiunto a una serie di agenzie Usa (tra le quali i Dipartimenti di giustizia, di Stato, della salute e dei servizi umani, ma anche ai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie) e a singoli alti funzionari governativi di non comunicare con le società di social media in merito alla rimozione di “contenuti che godono della protezione sulla libertà di parola” pubblicati sulle piattaforme social riaccende il dibattito su una possibile resa nella lotta alla disinformazione e sulle conseguenze su eventi di fondamentale importanza per le democrazie, come le prossime elezioni presidenziali del 2024.

Vediamo in che termini.

L’ordine del giudice e le conseguenze

L’ordine del giudice è stato emesso in una causa, promossa dai procuratori generali di due stati retti dal “Great Old Party”, nella quale il governo viene accusato di essersi spinto troppo nella lotta alla disinformazione sul Covid-19.

I due procuratori hanno setacciato migliaia di comunicazioni tra funzionari governativi e società di social media per rintracciare le prove sulla loro attività tendente a sopprimere post che esprimevano opinioni dissenzienti su coronavirus, vaccini, elezioni e altri argomenti delicati. Il giudice non si è ancora pronunciato nel merito, ma la sua decisione rappresenta già una vittoria significativa per i procuratori. Egli aveva precedentemente ordinato all’amministrazione di produrre documenti che identificassero i funzionari governativi e la natura delle loro comunicazioni con le piattaforme dei social media; ora ha dichiarato che probabilmente accoglierà nel merito le richieste dei procuratori generali in quanto ritiene che l’azione del governo USA sia in contrasto con il Primo emendamento (sulla libertà d’espressione).

A suo avviso, i procuratori hanno prodotto prove di un massiccio sforzo della Casa Bianca e delle agenzie federali per censurare il pubblico dibattito in base al suo contenuto.

I precedenti che fanno riflettere

Questa posizione non desta molta sorpresa. Si tratta infatti dello stesso giudice che, nominato alla corte federale da Trump nel 2017, ha assunto decisioni favorevoli ai repubblicani bloccando il mandato di vaccinazione nazionale dell’amministrazione Biden per gli operatori sanitari e annullando il divieto di nuovi contratti di locazione federali per petrolio e perforazione del gas.

L’ingiunzione prevede anche che le agenzie e i funzionari possano ancora interloquire per frenare le attività illegali e affrontare le minacce alla sicurezza nazionale. Ciò che i destinatari del divieto non potranno assolutamente fare sarà “segnalare specificamente contenuti o post su piattaforme di social media e/o inoltrarli a società di social media sollecitando, incoraggiando, esercitando pressioni o inducendo in qualsiasi modo la rimozione, la cancellazione, la soppressione, o riduzione di contenuti protetti dalla libertà di parola”. I social media interessati sono Meta (quindi Facebook e Instagram e Whatsapp), Twitter, YouTube, WeChat, TikTok e altri ancora.

Il commento della Casa Bianca

Dalla Casa Bianca un commento legittimamente critico: “Questa amministrazione ha promosso azioni responsabili per proteggere la salute pubblica e la sicurezza di fronte a sfide come una pandemia mortale e attacchi stranieri alle nostre elezioni. La nostra posizione non cambia: le piattaforme di social media hanno la responsabilità fondamentale di tenere conto degli effetti che stanno avendo sul popolo americano, ma le infor4mazioni che diffondono sono frutto delle loro scelte autonome”.

Un atteggiamento condiviso da esperti di diritto, specializzati nel tema della disinformazione e dei suoi legami col famoso Primo emendamento. Come Jameel Jaffer, direttore esecutivo del Knight First Amendment Institute della Columbia University, secondo il quale “Non può essere che il governo violi il Primo Emendamento semplicemente interagendo con le piattaforme sulle loro decisioni e le loro politiche di moderazione dei contenuti. È una posizione radicale non supportata dalla giurisprudenza che non aiuta lo sforzo per conciliare la libertà d’espressione con la lotta alla disinformazione”.

Anche i social mollano la resa sulla lotta alla disinformazione

L’ordine del giudice coincide con un rilassamento di alcune società di social media rispetto alla disinformazione on line. Sotto la proprietà di Elon Musk, Twitter ha apportato forti tagli alla sua divisione Trust and Safety e ha aumentato la sua dipendenza da “Community Notes”, il programma di fact check in crowdsourcing sui tweet (in sostanza, su segnalazioni degli utenti). Meta, proprietaria di Facebook e Instagram, ha licenziato il personale che lavorava alla moderazione dei contenuti per supposti problemi di costi.

La decisione del giudice rischia anche di vanificare i tentativi di coordinamento tra il governo e le società di social media, con le quali cerca da anni di collaborare per affrontare le attività criminali on line, come le immagini di abusi sessuali su minori e i contenuti che favoriscono e incentivano il terrorismo.

Le interlocuzioni sono cresciute dopo la scoperta delle incursioni disinformative russe che hanno condizionato le elezioni del 2016. Anche i funzionari della sanità pubblica si sono necessariamente dovuti interfacciare con le Big Tech durante la pandemia di coronavirus per contrastare le falsità sul virus e sui vaccini diffuse su Facebook, Twitter e YouTube.

Al bando anche la collaborazione tra agenzie e università

Un ulteriore divieto è stato pronunciato dallo stesso giudice nei confronti di agenzie e funzionari governativi: quello di collaborare con gruppi accademici che studiano e analizzano i social media. Tra essi “Election Integrity Partnership”, un team di ricercatori guidati dallo “Stanford Internet Observatory” e dal “Center for an Informed Public” dell’Università di Washington. Recentemente, Parlamentari repubblicani hanno chiesto a questi gruppi documenti e incontri e hanno minacciato di agire davanti alla magistratura contro la Stanford University, sede dello Stanford Internet Observatory, per non aver rispettato pienamente le richieste. L’università ha smentito comunicazioni dei suoi studiosi con funzionari governativi e grandi piattaforme di social media, ma non ha consegnato registrazioni di alcune denunce di disinformazione.

La pressione ha costretto alcuni ricercatori a cambiare approccio e a diminuire la loro ricerca, proprio quando la disinformazione sta aumentando in vista delle elezioni del 2024. Poiché l’intelligenza artificiale la rende più facile e le piattaforme allentano le loro regole, gli esperti temono il disimpegno degli studiosi indipendenti. Le istituzioni accademiche e le organizzazioni filantropiche hanno iniziato questa azione dopo le rivelazioni sull’intervento pesante dell’IRA (Internet research agency) di San Pietroburgo nella campagna elettorale presidenziale del 2016.

I gruppi di ricercatori sotto pressione, oltre allo Stanford Internet Observatory, comprendono l’Università di Washington, la National Conference on Citizenship e il Center for Social Media and Politics della New York University, nonché la Tandon School of Engineering.

Già da anni i repubblicani sostengono che le politiche delle società di social media per affrontare la disinformazione su elezioni e salute pubblica hanno portato all’ingiusta censura delle loro opinioni politiche. Dall’altra parte dello schieramento politico, invece, i democratici hanno sostenuto che le società non hanno controllato a sufficienza i social per garantire che non minassero le istituzioni democratiche.

La causa intentata dai procuratori generali fa parte di una più ampia battaglia dei repubblicani nel sostenere che Biden sta esercitando pressioni incostituzionali sulle società tecnologiche per eliminare le opinioni sfavorevoli online, in violazione del Primo Emendamento.

Il feticcio della Section 230

Il dibattito su ciò che gli americani possono e non possono dire sui social media, e su chi deve decidere, è in piedi da anni. Quando YouTube, Facebook e Twitter hanno lavorato per rimuovere o ridurre la diffusione di messaggi offensivi o dannosi, da parte repubblicana si sono alzate forti critiche e accuse di prendere di mira l’opinione conservatrice e di violare la libertà di espressione.

I democratici (incluso Biden), dal canto loro, hanno spesso criticato i giganti della tecnologia per non aver fatto abbastanza per limitare la diffusione di hate speech, teorie del complotto e disinformazione. Nel luglio 2021, Biden ha accusato Facebook di “uccidere persone” diffondendo falsità sui vaccini contro il coronavirus. Da parte democratica queste posizioni non sono affatto una novità.

Mentre l’Europa è andata avanti sui controlli sulle Big Tech, e sulla loro responsabilità anche per quanto concerne i contenuti che pubblicano i social media, negli USA il feticcio della famosa Sezione 230 è ancora in piedi, ciò nonostante Biden, e il suo partito, l’abbiano presa di mira più di una volta. La Sezione 230 è lo scudo che protegge i giganti della tecnologia dalle azioni legali. Inserita nel Communications Decency Act del 1996, la norma prevede che le aziende che gestiscono forum online non possono essere considerate le editrici di tutti i post che altri inseriscono nei loro siti. Pertanto, non possono essere ritenute responsabili per ciò che altri scelgono di condividere, anche se quei post potrebbero violare una legge. In altre parole, significa che Facebook non può essere ritenuto legalmente responsabile per un utente il cui post, ad esempio, diffama qualcuno.

La parte chiave della Sezione 230 è composta da 26 parole: “Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo deve essere trattato come editore o relatore di qualsiasi informazione fornita da un altro fornitore di contenuti informativi”. Dà in pratica a Facebook e agli altri social media il diritto di sorvegliare i contenuti sui loro siti web come meglio credono. Le persone possono pubblicare praticamente tutto ciò che vogliono e le aziende possono evitare la responsabilità degli effetti di tali pubblicazioni; conferisce a tali società la scelta (per molti, l’arbitrio) di decidere cosa rimuovere dai siti, a condizione che seguano alcune regole.

Trump e altri importanti politici repubblicani hanno accusato i siti di social media di censurare le voci conservatrici.

Il deep state e la censura del governo

Secondo uno dei procuratori generali che hanno promosso l’azione davanti al giudice, il “Deep State” ha piantato un seme per la censura del governo, seme cresciuto rapidamente una volta arrivato Biden alla presidenza. Il Deep State (Stato profondo) sarebbe stato creato da un gruppo di burocrati che lavora per indebolire i funzionari eletti e per plasmare la politica del governo.

L’amministrazione Trump ha avanzato argomenti simili durante le battaglie con le società di social media e, a volte, è andata oltre. Nel 2020, quando Twitter ha applicato etichette di verifica dei fatti a due post di Trump, egli ha firmato un ordine esecutivo che ordinava alla Federal Communications Commission di ripensare l’ambito della Sezione 230.

È anche vero che, per ragioni opposte, sia democratici che repubblicani hanno più e più volte espresso la volontà di rivedere la norma. I democratici sono sempre stati critici per modo in cui le aziende tecnologiche moderano l’incitamento all’odio o altri commenti discutibili sulle loro piattaforme, affermando che le aziende non si spingono abbastanza nel frenare il linguaggio offensivo. I repubblicani in quanto, a loro avviso, esse agiscono con pregiudizi nei confronti dei conservatori.

Conclusioni

In conclusione, l’ingiunzione del giudice federale, fedelissimo di Trump e dei repubblicani, allontana la possibilità di un accordo su una legge che, in qualche modo, renda responsabili le piattaforme social per i contenuti pubblicati da terzi. All’orizzonte, la campagna elettorale del 2024, col pericolo concreto che le scelte degli elettorali dei cittadini siano condizionate dalla disinformazione e che la polarizzazione incentivata dall’hate speech favorisca disordini e violenze. Il primo emendamento e la sezione 230, che hanno consentito alle Big Tech di espandersi indisturbate per tantissimi anni, rappresentano una importante barriera contro la quale va a sbattere ogni tentativo di censura e di stop alla libertà d’espressione. Tuttavia, i rischi per la tenuta democratica sono altissimi, perché il rovescio della medaglia è l’opportunità di diffusione di disinformazione e linguaggio d’odio.

L’Europa è riuscita a mettere in campo una normativa che contempera il diritto di parola e la lotta agli eccessi dannosi per la democrazia. Negli USA questa prospettiva sembra oggi ancora più remota.

*Aggiornamento del 17.7.2023

La 5a corte d’appello distrettuale ha sospeso l’ingiunzione del giudice federale che in sostanza impediva ai Dipartimenti di giustizia, di Stato, della salute e dei servizi umani, nonché ai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie e a singoli alti funzionari governativi, di comunicare con le società di social media in merito alla rimozione di “contenuti che godono della protezione sulla libertà di parola”. La sospensione arriva dopo una richiesta del Dipartimento di Giustizia, che ha avvertito che l’ordine del giudice distrettuale avrebbe potuto azzoppare l’attività delle forze dell’ordine per proteggere gli interessi della sicurezza nazionale.

La causa è stata promossa da due procuratori generali di nomina repubblicana. Come d’altra parte il giudice, nominato da Trump, che ha già nel passato bloccato l’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari voluto da Biden e ha rilasciato un parere a sostegno di una legge sui social media del Texas, che impedisce loro di rimuovere post basati sull’ideologia politica di una persona.

Lo stesso giudice trumpiano si è già spinto oltre, dichiarando che probabilmente il ricorso sarà accolto nel merito in quanto ritiene che l’azione del governo USA sia in contrasto con il Primo emendamento (sulla libertà d’espressione).

La sospensione arriva dopo una richiesta del Dipartimento di Giustizia, che ha avvertito che l’ordine del giudice distrettuale avrebbe potuto danneggiare l’attività delle forze dell’ordine per proteggere gli interessi della sicurezza nazionale.

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