finalità della tecnologia

Il metaverso? È una questione politica. Ecco perché (e le conseguenze)

Chi controlla la percezione della realtà controlla il comportamento degli esseri umani: ecco perché, nonostante l’attuale frenata degli entusiasmi, il metaverso, con la sua convergenza di realtà virtuale, aumentata e tecnologie indossabili, ha sicuramente una portata politica da cui non si può prescindere

Pubblicato il 02 Mag 2022

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

extended reality - metaverso

Il progetto del metaverso ha di sua natura un significato politico: la politica è l’ambito in cui viene regolata l’interazione pubblica degli esseri umani e il loro rapporto con le cose e con l’ambiente, perlomeno nei limiti in cui questi rapporti non possono essere più semplicemente demandati a scelte e preferenze personali. Pensare dunque ad un convergere di realtà virtuale, realtà aumentata e tecnologia indossabile significa sicuramente ipotizzare una trasformazione della vita quotidiana che prima o poi sicuramente ha un senso politico: e porsi la domanda sulla finalità umana del metaverso non è quindi affatto una digressione.

Il mito della caverna di Platone, che abbiamo scelto come uno sfondo per riflettere sul Metaverso, non per nulla viene introdotto come un grande discorso di natura politica: chi controlla la percezione della realtà controlla il comportamento degli esseri umani.

Il Metaverso come la caverna di Platone? Il vero mondo è altrove

Il metaverso, la tracotanza e l’effetto Osborne

Certo, per coloro che avevano visto con preoccupazione e forse anche con disdegno l’annuncio del Metaverso, gli ultimi mesi possono avere concesso qualche sospiro di sollievo. Anzitutto, all’annuncio sono rapidamente seguite le notizie di un rapido deprezzamento di Meta (ex Facebook). Forse questo sarebbe accaduto in ogni caso, in fondo la tendenza al declino nell’uso di Facebook pare inarrestabile, ma forse può essere addebitato (ciò che se non erro finora non è stato notato) anche a quello che nell’ambiente informatico è noto come l’effetto Osborne: annunciare qualcosa che non è neppure lontanamente disponibile ottiene il solo effetto autolesionista di squalificare i propri attuali prodotti come obsoleti, e quindi mettere a rischio pure quelli annunciati.

D’accordo sul fatto che un elemento fondamentale del Metaverso è la realtà virtuale, ma questa virtualità a sua volta dovrebbe essere reale e non solo virtuale e annunciata! I conoscitori della tragedia greca potranno quindi sorridere dicendo che ancora una volta la tracotanza (in questo caso commerciale) è stata punita. In secondo luogo, e molto più tristemente, la guerra tra Russia e Ucraina, non dissimile da altri anche recentissimi conflitti ma raccontata minuto per minuto e percepita come vicina e potenzialmente letale per la pace mondiale, ha improvvisamente allentato l’attenzione sulla «realtà aumentata» e la «realtà virtuale», per riportare le preoccupazioni sulla «realtà reale» e il suo futuro. Del dramma in corso ovviamente non c’è in alcun modo da gioire: ma in una certa misura può essere consolante vedere che la sensibilità umana, unita ad una sana dose di paura, nei momenti decisivi ristabilisce una più ragionevole gerarchia.

Il problema della finalità tecnologica

E tuttavia, seppure in un modo così triste che nessuno avrebbe desiderato, ciò che è avvenuto non è stato solo un riequilibrio delle gerarchie, ma anche la messa in primo piano del problema della finalità della tecnologia. Ciò è avvenuto solo implicitamente: proviamo a ridirlo esplicitamente. Quando il contesto è stato appropriato, ho spesso proposto ai miei studenti questo semplice gioco-esperimento: scrivo alla lavagna una sequenza che più o meno inizia così: «Windows 3.1, Windows 95, Windows 98, Windows 2000…» e arriva fino alle versioni attuali, ora quindi «… Windows 10, Windows 11». Poi chiedo brevemente di elencare i progressi che sono avvenuti, o almeno di confermarmi che ciò che è avvenuto è effettivamente un progresso: la risposta positiva è praticamente corale. Dopo che il consenso è stato raggiunto, aggiungo: «Quindi ora siamo tutti più felici, vero?». La reazione è sempre stata la stessa: dopo un attimo di esitazione, tutti si mettono a ridere. La controdomanda è allora semplice: «Ma allora a che cosa serve il progresso tecnologico, se non serve alla nostra felicità? Forse serve alla felicità dei computer?…». Questo è il modo più semplice che sono riuscito a trovare per porre una questione filosofica cruciale e profonda, senza mai citare neppure un filosofo né costringere alla lettura di qualche complessa e forse astrusa pagina. Basta porre la questione della felicità, riguardo alla quale tutti sono grosso modo d’accordo che valga la pena di essere cercata: la sua ricerca viene addirittura citata come un diritto umano nella Costituzione degli Stati Uniti.

Uno scambio di battute non può ovviamente sostituire un discorso elaborato, né di ambito tecnologico né filosofico. Il piccolo dialogo di cui sopra è efficace anche perché, prendendo di sorpresa gli ascoltatori, fa compiere spontaneamente grosse semplificazioni: tecnologicamente non è vero che quella lunga sequenza indichi sempre un progresso (chi vi è passato lo sa bene!), filosoficamente la parola «felicità» non è facile da definire e su di essa esistono idee anche molto diverse, combinando poi le due cose non sarebbe difficilissimo trovare punti di vista o contesti per i quali, se non un’astratta felicità, il progresso ha senza dubbio aiutato a realizzare più facilmente progetti e aspirazioni, a sviluppare meglio relazioni o talenti. Ma che per una volta queste importanti sfumature siano messe tra parentesi ha l’effetto straniante di mostrare come il nesso tra il progresso tecnologico e ciò che spontaneamente desideriamo, ciò che ci può rendere felici o tristi, è tutt’altro che ovvio. Tanto poco ovvio, anzi, che basta supporre che sia centrale per provocare una reazione di ilarità. Il fatto che tutti coloro che vivono nell’avanzato mondo occidentale sono immersi nella tecnologia (quella ad uso privato o quella incorporata nella gestione della cosa pubblica) non aiuta poi per nulla a vedere questo nesso: tutti sappiamo che privati improvvisamente della nostra tecnologia ci guarderemmo intorno smarriti, forse patiremmo qualche crisi di astinenza: ma questo (che può essere anche un semplice esperimento mentale) ci fa concludere semmai che siamo dipendenti dalla tecnologia, forse anche intossicati: ma non certo che essa è una componente della nostra felicità.

Il metaverso aiuterà l’umanità a vivere in pace?

Il metaverso aiuterà l’umanità a vivere in pace? Aiuterà l’uomo ad «imparare a vivere senza ammazzare», come cantava Francesco Guccini più di mezzo secolo fa? La «pace» in fondo non è altro che il nome che viene dato alla felicità collettiva, nei limiti in cui appunto la collettività può farsi carico delle esistenze individuali. Anche di fronte a queste domande la reazione rischia di essere simile alla precedente: ovviamente lo scopo non è questo! (Immaginiamo quale sarebbe l’imbarazzo di Mark Zuckerberg se improvvisamente interrogato in questo modo.) E tuttavia, come nel caso precedente, la domanda è tutt’altro che bizzarra e si potrebbe replicare: «Ma allora a che serve? ».

Forse non è un caso che la pubblicità del Metaverso abbia coinciso con il primo esempio nella storia di una propaganda politica effettuata in una realtà virtuale: quella di Emmanuel Macron, che per le elezioni presidenziali ha fatto allestire un server Minecraft. Il livello ancora elementare può far giudicare l’iniziativa come una semplice dimostrazione di modernità e vicinanza al mondo giovanile, tanto più che la campagna che si svolge in tali ambienti virtuali è del tutto simile a quella che avviene nella vita reale (fatta eccezione, come è stato fatto notare, che gli abitanti hanno tutti una testa cubica!): ma come escludere che questa iniziativa passerà alla storia come il primo timido esempio di una politica che riesce nei suoi intenti trasferendo i cittadini in una città virtuale?

Problemi e soluzioni

I problemi già li intravediamo, nella misura in cui essi sono incorporati nelle attuali tecnologie: li vediamo per esempio nel nesso strettissimo tra potere e controllo dell’informazione, li vediamo in tutte le circostanze che, in un’epoca di straordinaria facilità nell’accumulazione e analisi dei dati, rendono più sfumato e fragile il confine tra pubblico e privato e costringono a leggi di tutela sempre più dettagliate (e forse sempre più in ritardo rispetto alla realtà), li vediamo in quello smottamento che rende la politica una variabile dipendente dell’economia e gli stati sempre più deboli e poveri delle multinazionali tecnologiche. Certo: non esiste nessuna assicurazione che i progetti del Metaverso davvero siano realizzati ed ottengano quella popolarità che Zuckerberg si augura: la storia anche recente è piena di esempi di tecnologie annunciate ma non realizzate, o anche realizzate ma poi abbandonate.

Ma, nell’incertezza, sarebbe davvero irresponsabile se non si cominciassero ad elaborare principi e criteri non tanto per «regolamentare» una tecnologia sempre più pervasiva, ma per far sì che le sue promesse umane siano rispettate. Come la bizzarra diffidenza di Platone nei confronti della pittura non ha impedito un meraviglioso sviluppo della storia dell’arte, così non è affatto escluso che qualsiasi tecnologia diventi un luogo di umanizzazione.

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