Fondazione COTEC

Intelligenza artificiale, è davvero la fine del lavoro? La sfida è sul filo delle competenze

Il rischio di perdita di posti di lavoro legato all’intelligenza artificiale, temuto da più parti, è una falsificazione della realtà, o forse una semplificazione di un quadro complesso che, paradossalmente, per essere affrontato richiede un aumento degli investimenti in tecnologia e nel reskilling dei lavoratori

Pubblicato il 08 Apr 2021

Paolo Di Bartolomei

ex Direttore Generale Fondazione COTEC

Photo by Clem Onojeghuo on Unsplash

Il costante aumento nell’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale (IA) nel mondo delle imprese sta creando grande preoccupazione e porta esperti e non a interrogarsi su una domanda cruciale: l’IA minaccia il ruolo umano sul posto di lavoro più di qualsiasi altra tecnologia? Visti i progressi significativi e a volte impressionanti registrati dall’IA negli ultimi anni, l’impatto sull’occupazione sarà davvero diverso questa volta?

A queste ed altre domande si è cercato di dare risposta nel corso del workshop organizzato qualche settimana fa dalla Fondazione COTEC, dal titolo “IA e futuro del lavoro tra automazione e nuove skill professionali”, secondo appuntamento del ciclo previsto dal progetto “intelligenza artificiale: Le grandi aspettative”, lanciato alla fine dello scorso anno d’intesa con il Dipartimento per la Trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio e con il supporto accademico dell’Università Roma Tre.

Intelligenza artificiale: è davvero la “fine del lavoro”

Era il 1995 quando Jeremy Rifkin, noto economista statunitense, scriveva un libro di grande successo, un vero best seller, intitolato “La fine del lavoro”, nel quale in sintesi sosteneva che mentre in occasione delle precedenti rivoluzioni industriali le masse di lavoratori sostituite dai nuovi macchinari e tecnologie avevano trovato occupazione nei nuovi settori emergenti, passando così dall’agricoltura all’industria e poi dall’industria al terziario, in occasione della rivoluzione determinata dall’avvento delle Information Technologies le masse di lavoratori che sarebbero uscite dal terziario sarebbero entrate inesorabilmente a far parte del mondo della disoccupazione. Rifkin profetizzava una rapida evoluzione verso una società in cui le masse di lavoratori sostituiti da computer e robot, sarebbero andate a ingrossare “orde di milioni di lavoratori che vengono licenziati e che si ritrovano, dalla mattina alla sera, irrevocabilmente chiusi fuori dai cancelli del nuovo villaggio tecnologico globale”.

Fortunatamente oggi sappiamo che quelle previsioni sono state sostanzialmente smentite e, nonostante l’aumento registrato nell’ultimo decennio dei forti squilibri tra fasce ricche e fasce povere della società, i sistemi economici di tutte le nazioni hanno conosciuto una crescita complessiva del benessere e una tenuta sostanziale dell’occupazione.

Eppure, oggi un nuovo spettro si aggira per le nostre società: l’intelligenza artificiale.

Il lavoro cognitivo soccombe all’avanzata dell’AI: ecco i rischi

Sebbene la diffusione e l’uso delle tecnologie dell’IA siano ancora a livelli relativamente limitati nelle nostre economie, tuttavia essa comincia concretamente a trasformare i mercati del lavoro. Solo per fare qualche esempio tra i tanti possibili, senza far riferimento ai giganti del web come Facebook, Amazon o Google, le cui piattaforme sono oramai totalmente basate su sistemi di intelligenza artificiale, si pensi all’uso che si è fatto dell’intelligenza artificiale in occasione della ricerca per realizzare i vaccini contro il virus Covid-19, o ai robot funzionanti grazie ad algoritmi di IA che raccolgono frutta o dirigono i sistemi logistici dei porti, o alle aziende che utilizzano big data e IA per il reclutamento, la formazione e la gestione del personale. È evidente che, in particolare in un momento in cui queste trasformazioni si aggiungono alle turbolenze causate dalla pandemia del Covid-19, con più di 45 milioni di persone disoccupate nei paesi dell’OCSE, inquietudine e preoccupazione aumentino ovunque tra i lavoratori.

Da dove nasce la paura verso l’intelligenza artificiale

I dati disponibili, riferiti all’osservazione degli impatti provocati dalle tecnologie di IA negli ultimi dieci anni, in realtà, suggeriscono che, nel complesso, l’IA ha il potenziale per integrare e aumentare, piuttosto che sostituire, le capacità umane ed anzi, fino ad oggi, l’introduzione dell’IA nelle aziende ha creato più posti di lavoro di quelli che ha fatto perdere (dati OCSE gennaio 2021). Perché allora da parte di molti si continua a temere che la rivoluzione tecnologica determinata dall’IA sarà differente dalle precedenti, spingendo verso il basso la domanda di lavoro umano e i salari o rendendolo addirittura obsoleto ed inutile?

Il dibattito teorico condotto da economisti, informatici e sociologi, sull’impatto che avrà l’intelligenza artificiale su occupazione e salari, in effetti, ha condotto fino ad oggi a conclusioni ambigue, fortemente dipendenti da cosa si ricomprende nella definizione stessa di IA, dalla fase di sviluppo e di diffusione delle sue diverse possibili applicazioni e dal contesto esistente nei vari mercati in cui essa viene introdotta. Per tentare una sintesi delle varie opinioni e scuole di pensiero, possiamo allora provare a far riferimento ad un recente studio dell’OCSE (Marguerita Lane, The impact of Artificial Intelligence on the labour market: What do we know so far?, OECD Social, Employment and Migration Working Papers, 21 January 2021), dove si sostiene che le caratteristiche principali dell’IA che potrebbero rendere il suo impatto sul mercato del lavoro diverso da quello di altre tecnologie sono sostanzialmente tre.

L’intelligenza artificiale è una tecnologia di uso generale (General Purpose)

Come noto, General Purpose Technology (GPT) è un concetto sviluppato nel 1992 dagli economisti Bresnahan e Trajtenberg, per classificare tutte quelle tecnologie che possono avere un impatto significativo sull’intero sistema economico e sulla società grazie alla loro potenziale applicazione, con effetti dirompenti rispetto agli assetti precedenti, in molti settori dell’economia e della società. È ciò che è successo ad esempio con il motore a vapore, l’elettricità, l’automobile o, più recentemente, il computer o Internet.

Se è vero, come ormai generalmente accettato, che anche l’IA va considerata una GPT, ciò aggiunge profondità e scala alle sfide e alle opportunità presentate dall’IA al mercato del lavoro. La preoccupazione è infatti che poiché l’automazione ha già portato alla perdita di posti di lavoro in alcuni settori, l’IA, che verrà utilizzata trasversalmente in ogni settore economico, potrebbe portare alla perdita di un numero estremamente più elevato di posti di lavoro.

Naturalmente, ciò che trascurano i sostenitori di tale tesi è che se il potenziale di perdita di posti di lavoro legati all’IA è maggiore, ugualmente lo sarà anche il potenziale beneficio per i lavoratori, grazie alla capacità dell’IA di produrre essa stessa innovazioni e di generare industrie completamente nuove creando una grande quantità di nuovi posti di lavoro.

L’IA può eseguire alcuni compiti cognitivi non di routine

Fino a poco tempo fa, l’automazione aveva interessato principalmente compiti di routine e poco qualificati. Si pensi ad esempio all’amplissima diffusione dei robot industriali che ha avuto un impatto principalmente sui processi di produzione di beni. Ora l’IA introduce funzionalità di problem solving e di ragionamento e ciò significa che essa può svolgere alcuni compiti cognitivi non di routine. Il risultato è che alcune professioni altamente qualificate, come a puro titolo di esempio radiologi, tecnici di laboratorio, ingegneri, avvocati o commercialisti, diventano automaticamente altamente esposte a subire impatti occupazionali.

Tuttavia, anche in questo caso, le evidenze raccolte ad oggi suggeriscono che questi lavoratori altamente qualificati, potenzialmente più minacciati dall’IA, possono anche essere più capaci o meglio posizionati rispetto agli altri a sfruttare i benefici che l’IA comporta. In altre parole, essi sono più attrezzati professionalmente e culturalmente per utilizzare l’IA in un modo complementare al proprio lavoro, adattandosi più facilmente e, in definitiva, evitando impatti particolarmente negativi.

In realtà, la questione forse più rilevante su cui concentrarsi sollevata da questa nuova realtà è un’altra: se l’IA integra principalmente l’attività dei lavoratori altamente qualificati, mentre tendenzialmente sostituisce soprattutto i lavoratori poco qualificati, l’IA potrebbe provocare un’ulteriore crescita delle disparità di reddito e tale eventualità dovrà essere governata attentamente per evitare nuovi ed ulteriori squilibri sociali.

L’IA introduce nuove opportunità ma anche nuove sfide per l’ambiente di lavoro

La capacità dell’IA di raccogliere ed elaborare grandi quantità di dati può renderla uno strumento di grande utilità e interesse per sostenere i processi di gestione del personale – dal monitoraggio della produttività dei lavoratori, ai processi di selezione, all’organizzazione, alla formazione – ed in effetti molte grandi aziende stanno già iniziando ad utilizzarla per tali applicazioni. Tuttavia, queste applicazioni comportano anche rischi significativi per l’ambiente di lavoro: l’utilizzo di un monitoraggio estensivo, abbinato alla mancanza di trasparenza e di responsabilità riguardo alle previsioni algoritmiche applicate ai lavoratori, può generare un clima di sospetto e sensazioni di oppressione e insicurezza, creando stress e ripercussioni su clima aziendale e produttività.

Alla luce di queste caratteristiche generali individuate dai ricercatori dell’OCSE, se da un lato possiamo affermare che l’IA non determinerà una sostituzione del lavoro umano, dobbiamo però anche essere consapevoli che l’impatto che avrà sul mercato del lavoro potrebbe effettivamente essere diverso da quello avuto nel passato da altre tecnologie, nel senso che i cambiamenti e le trasformazioni che determinerà saranno probabilmente più profondi e toccheranno anche lavori cognitivi che nelle precedenti rivoluzioni industriali erano rimasti esenti da conseguenze.

Formazione, la vera sfida per il futuro

Come emerso chiaramente dal dibattito tra gli esperti che hanno partecipato al workshop della Fondazione COTEC, il rischio della perdita di posti di lavoro, temuto o minacciato da più parti, è una falsificazione della realtà, forse potremmo dire una semplificazione di un quadro complesso che invece, paradossalmente, per essere affrontato richiede proprio un aumento degli investimenti in tecnologia. Come infatti sta dimostrando anche la crisi economica in corso, le aziende che rischiano di determinar disoccupazione, o addirittura di non riuscire a sopravvivere, sono proprio quelle che non hanno puntato abbastanza sull’innovazione tecnologica.

In base ai dati presentati dall’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, a 15 anni da oggi ci sarà in Italia una carenza di offerta di lavoro di circa 1.5 milioni di posti, a fronte di una domanda di 3.3 milioni sempre in aumento. Con questo gap occupazionale, quindi, investire in nuove tecnologie e puntare sull’IA, non solo non comporta rischi, ma, al contrario è una vera e propria necessità per mantenere gli attuali livelli di sviluppo economico.

Il mondo del lavoro però subirà forti e profonde trasformazioni e la sfida centrale dei prossimi anni per politici, imprenditori e lavoratori, sarà quella della formazione e dell’acquisizione di nuove competenze. I lavoratori dovranno adattarsi all’emergere di nuove attività, ma soprattutto a nuovi modi di organizzare i compiti già oggi svolti: l’IA non cambierà solo in modo significativo tutte le attività, ma anche il modo stesso in cui i lavoratori interagiscono e come sono gestiti.

Ci sarà dunque bisogno di inserire nuove figure professionali all’interno dell’azienda ed in questo senso un impegno particolare è richiesto alle scuole secondarie e alle università per ottimizzare il rapporto tra formazione universitaria e competenze ICT rese necessarie dal contesto determinato dall’introduzione dell’IA, ma soprattutto è necessario sin da oggi per le aziende investire sul reskilling e upskilling dei propri dipendenti. È evidente infatti che sarebbe impossibile pensare di portare avanti una strategia di transizione digitale puntando solo sull’inserimento dall’esterno di competenze nuove, lasciando indietro la grande massa degli attuali lavoratori che costituiscono il vero motore dell’azienda.

È una grande sfida che coinvolge l’intera società. La politica, le istituzioni, le scuole, le imprese e i lavoratori possono insieme, attraverso azioni coordinate e sinergiche, svolgere un ruolo chiave nel garantire a tutti che l’IA contribuisca a una transizione equa verso un futuro di lavoro più positivo, facendo sì che tutti possano navigare con successo un mercato del lavoro in rapido e profondo cambiamento.

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