intelligenza artificiale

Lavoro e automazione, un nuovo modello economico è necessario

L’attuale modello economico va cambiato: non è adatto a una realtà ben diversa da quella di due secoli fa, quando venne teorizzato. Un aiuto, per creare benessere collettivo, potrebbe arrivare dall’intelligenza artificiale, ma occorre intervenire fin da subito su formazione e competenze dei lavoratori, specie in Italia

Pubblicato il 09 Set 2019

Piero Poccianti

past president AIxIA

intelligenza artificiale e lavoro

L‘intelligenza artificiale e la forte automazione del lavoro prevista, a dispetto di molte fosche previsioni, potrebbe essere un ottimo alleato per sovvertire l‘attuale modello economico, ormai obsoleto e incapace di rispondere alle sfide generate dall’evoluzione tecnologica, e per creare quel benessere collettivo necessario alla sopravvivenza del Pianeta.

Ma ciò potrà accadere soltanto se i sistemi di AI verranno utilizzati in maniera equa e etica, cominciando ad affrontare fin da subito il nodo della formazione e delle competenze necessarie ad affrontare l’impatto dell’automazione sul mercato e sui lavoratori, che come vederemo – secondo uno studio PWC – avverrà in tre ondate.

Il significato del termine lavoro

Il termine lavoro deriva dal latino labor che significa fatica. Sono noti i detti della letteratura classica durar fatica e operar faticando. Altro termine di parlate italiane per “lavoro” è travaglio, che deriva dal latino tripalium (strumento di tortura): ad esempio in siciliano “lavorare” si dice travagghiari e in piemontese travajè e così via. Ancora oggi in alcuni dialetti regionali si usano i termini faticare, andare a faticare (per dire lavorare, andare a lavorare).

Da sempre l’uomo ha usato la sua intelligenza per realizzare strumenti che consentissero di migliorare l’attività lavorativa, per faticare meno e, se possibile, lavorare pure meno. Dall’invenzione della ruota alle successive rivoluzioni industriale sino ad oggi, tutto è stato pensato e realizzato in tal senso.

Col tempo è emersa però la paura che le macchine e l’automazione possano rubare il lavoro all’uomo. Un timore in verità legittimo perché oltre ad alleviare i compiti umani, sostituiscono inevitabilmente anche alcune attività salariate, creando quindi una potenziale disoccupazione e aumentando le diseguaglianze fra chi possiede i mezzi di produzione e chi presta la propria opera in cambio di uno stipendio.

Le previsioni per il futuro: AI e lavoro

Mentre in passato le macchine hanno migliorato o sostituito lavori manuali, gravosi o ripetitivi, oggi abbiamo macchine in grado di affrontare anche attività intellettuali, di prendere decisioni in modo autonomo, di esprimere creatività, di inventare cose nuove e risolvere problemi complessi imparando dall’esperienza. E sono soprattutto queste nuove possibilità a preoccupare maggiormente anche se le opinioni non sono unanimi.

Alcuni studi presentano scenari negativi, altri invece illustrano ipotesi più positive.

In un lavoro pubblicato nel 2013 da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne della Oxford Martin School intitolato “The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?” si prevede un rischio di disoccupazione per il 47% dei lavoratori americani fino al 2025 a causa di macchine capaci di compiere le loro mansioni. Uno studio successivo, diffuso nel 2016 “Technology at work v2.0: the future is not what it used to be” conferma la stima per i lavoratori americani e denuncia un rischio del 56% per i lavoratori dei paesi OCSE, del 77% per i cinesi, dell’87% per gli etiopi, e così via.

L’anno dopo, Mckinsey Global Institute pubblica invece uno studio con una previsione alquanto differente: i lavori a rischio di sostituzione sono pochi. La novità per moltissime occupazioni potrebbero essere i notevoli tagli in termini di tempo impiegato. Nel settore alberghiero – servizi e cibo – considerando che il 52% delle attività sono routine e riproducibili, si stima un’automatizzazione del 95%. In altre parole, dove oggi ci sono due cuochi potrebbe bastarne solo uno.

Secondo invece lo studio internazionale sull’automazione dei posti di lavoro di PwC intitolato “Will robots really steal our jobs? An international analysis of the potential long term impact of automation”, in cui sono stati analizzati più di 200 mila lavori in 29 paesi per esplorare i benefici economici e le sfide potenziali poste dall’automazione, sembra che solo il 3% dei posti di lavoro rischi un’effettiva automazione entro il 2020. Percentuale che però tende a salire nel corso degli anni: sarà infatti il 30% entro la metà degli anni ’30 e tra i lavoratori coinvolti, il 44% ha un basso livello di istruzione. Lo studio del Word Economic Forum del 2018 afferma però che a fronte di 75 milioni di posti lavoro eliminati, altri 133 milioni ne verranno creati.

Le tre ondate dell’automazione del lavoro

Lo studio sopracitato di PWC prevede tre diverse ondate di automazione:

  • Ondata algoritmica (fino ai primi anni 2020): in questa fase si assisterà all’automazione di calcoli e di analisi di dati strutturati, e coinvolgeranno settore basati principalmente sui dati, come quello dei servizi finanziari.
  • Ondata di potenziamento (fino alla fine del decennio 2020): questa fase è caratterizzata dall’interazione dinamica con la tecnologia che farà da supporto al lavoro d’ufficio e alle decisioni manageriali. Alcune mansioni, come lo spostamento verranno svolte dai robot in ambienti protetti, come ad esempio i magazzini.
  • Ondata dell’autonomia (fino a metà del decennio 2030): in questa ondata prevarrà l’automazione nel lavoro manuale e nel problem solving in situazioni del mondo reale. Saranno coinvolti soprattutto il settore dei trasporti e quello edilizio.

Diversi impatti non solo sul mercato ma anche sui lavoratori: nelle prime due ondate saranno coinvolti maggiormente quelli con un’istruzione bassa o media e più le donne degli uomini, mentre nella terza si prevede un’inversione di tendenza (o un livellamento conseguente).

Per quanto riguarda invece l’impatto a livello di paese, la differenza si basa sul tessuto socio economico territoriale e il livello di istruzione della forza lavoro. Da qui la posizione ad alto rischio dell’Italia, con il 40% di automazione potenziale (appena sopra USA e Francia).

Prendendo a riferimento sempre lo studio PWC emerge che le previsioni di crescita dell’impatto non seguono un andamento lineare.

La necessità di un nuovo modello economico

Prevedere, soprattutto il futuro, non è semplice, ma cambiare il presente sì.

L’economista inglese naturalizzato negli USA Kenneth Ewart Boulding diceva: “chi crede che la crescita può continuare all’infinito in un mondo che è finito o è un pazzo o un economista”.

Eppure ancora adesso, a livello mondiale, ci affidiamo ad un modello economico, basato su teorie nate 2 secoli fa, che considera il capitale e la forza lavoro delle risorse scarse, e l’ambiente come un bene infinito.

In verità, oggi, siamo consapevoli di una realtà diversa: il capitale è abbondate, ma non distribuito equamente, la forza lavoro non manca visto il forte fenomeno di disoccupazione, mentre le risorse ambientali, sfruttate senza limiti, stanno terminando, minacciando seriamente la sopravvivenza della Terra. Se vogliamo salvare il nostro pianeta dobbiamo quindi iniziare ad immaginarlo come una grande astronave da preservare insieme al suo ecosistema. E per farlo potremmo trovare un valido alleato nell’Intelligenza Artificiale.

Il condizionale però è d’obbligo perché se utilizzata in modo sbagliato potrebbe accentuare gli impatti negativi già reali come le diseguaglianze sociali ed economiche o i numerosi problemi ambientali, mentre se impiegata correttamente potrebbe diventare lo strumento perfetto per cambiare l’attuale modello ed ottenere un benessere collettivo capace di tutelare il pianeta e la vita che lo caratterizza.

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