“Io, io, io…” scrive Carlo Emilio Gadda nella Cognizione del dolore, lamentando l’eccessivo peso dato al primo pronome personale. “IA, IA, IA…”, potremmo scrivere decenni più tardi, meditando sull’ingresso della creazione digitale nella narrativa umana.
Con l’avvento nel XXI secolo dello strumento d’intelligenza artificiale generativa di OpenAi, ChatGPT, la compulsione a farvi ricorso per creare manoscritti da sottoporre alle case editrici mette a dura prova stagisti lettori ed editor sempre più coinvolti in un continuo test di Turing che li pone sotto esame, giacché dal loro intelletto “naturale” dipende la differenziazione – possiamo già chiamarla discriminazione? – tra il romanzo della macchina e quello dello scrittore comune.
Distinguere un romanzo artificiale da uno umano
Il “Trasformatore generativo preaddestrato” sviluppato da OpenAI, società statunitense fondata nel 2015 da Elon Musk e Sam Altman, già utilizzato con successo nel cofirmare articoli scientifici su riviste specializzate, se messo a disposizione del creatore di narrativa moltiplica anziché ridurre le implicazioni psicologiche legate strettamente alla stesura di un testo.
Distinguere un romanzo artificiale da uno umano forse è più difficile che operare il medesimo discernimento in ambito scientifico. Springer Nature, che pubblica circa tremila riviste del settore, rifiuta ChatGPT come dispositivo di ricerca per la sua inattendibilità nel differenziare le informazioni vere dalle false e le importanti dalle secondarie, ma ne ammette l’impiego come strumento per migliorare la leggibilità di un articolo. Già questo giudizio insinua l’idea di un’area compatibile tra artificio elettronico e funzionalità umana nella standardizzazione della scrittura in vista di una lettura sempre più livellata. Sulla scia delle previsioni di tempo di lettura poste in calce ai pezzi su riviste come Vanity Fair, la meccanicità evolutiva del Bot verrebbe dunque in aiuto al lettore permettendogli di meglio programmare il suo tempo e la sua fruizione del pensiero in regime di medietà.
La menzogna quale germe irrinunciabile della creatività narrativa
L’entità che da tempo impone bollini rossi, arancio o verdi ai nostri blog in base a ipotassi e paratassi, lunghezza dei periodi, sofisticatezza o semplicità dei vocaboli, parole chiave tra titolo e testo e chissà cosa diavolo altro significhi leggibilità, non si accontenterebbe più di limare la forma ma si avventerebbe sui contenuti con ampie pretese creative, mettendo in difficoltà le grandi case editrici sommerse da eserciti di millantatori che fanno ricorso a ghostwriter senz’anima pur di ottenere il loro quarto d’ora di gloria con opere di fantasia contraffatta.
Doppio scenario apocalittico, tra il valore riconosciuto alla scrittura omogeneizzata a favore di lettori sempre più infantili e l’inevitabile travaso dagli interventi formali alla costruzione dei concetti. Se a questo si aggiunge che l’accusa mossa all’IA scrivente di “inattendibilità nel differenziare le informazioni vere dalle false e le importanti dalle secondarie” è agevolmente traducibile nel comportamento umano dello studente che bluffa all’interrogazione sparando quello che gli viene in mente nella speranza che non si accorgano che non è veramente preparato, ecco profilarsi un’ulteriore qualità artificiale, devastante nella scienza ma preziosa nella fiction: la menzogna quale germe irrinunciabile della creatività narrativa.
Stendiamo ora un velo sulla dubbia destrezza combinatoria di ChatGPT nell’ideare trame, capitoli autonomi, personaggi complessi e credibili in situazioni non troppo ripetitive, con climax che non riproducano pedissequamente il Viaggio dell’Eroe di Campbell/Vogler condizionato da moralismi sbarcati direttamente dalla Mayflower, politicamente corretti fino all’ossessione, più di quanto già gli sceneggiatori hollywoodiani non insistano a fare, giacché i testi scritti da IA inviati fraudolentemente alle case editrici si assomigliano spesso ed è così che vengono smascherati. Ma teniamo presente che, trattandosi di un Trasformatore Generativo, il cervello elettronico potrà certo migliorare la propria efficienza. E sorvoliamo pure su quale piacere e arricchimento un lettore possa trarre da una creazione fondata su un arlecchino di informazioni letterarie non filtrate dal gusto di un autore, con i suoi peculiari difetti, manie, sfumature ed errori a renderlo personale suo malgrado. Concentriamoci invece sul bizzarro impulso di chi ordisce una truffa letteraria facendosi sostituire da IA nel produrre un manoscritto in cerca di pubblicazione.
La vera questione è: “A che pro?”
Se l’obiettivo del grafomane, nell’accezione che ne dà Milan Kundera nella sua Arte del romanzo, è di vedere scritto il proprio nome sul frontespizio di un libro, tanto che lo scrittore ceco suggerisce una legge che costringa gli autori all’uso di uno pseudonimo per scongiurarne l’inflazione, un’opera prodotta artificialmente farebbe al caso suo. Il desiderio di tale individuo non sarebbe quello di creare una forma artistica che significhi e influisca sulla cultura della società in cui vive, bensì il perseguimento forsennato di un Io Ideale che lo rappresenti esteriormente come un “tipo figo” che sa di Lettere e possiede una profondità intellettuale degna di nota, guadagnando magari un bel po’ di soldi in diritti d’autore usurpati nel regno del chissenefrega. “Io, io, io…”
Se per tale persona fama e successo fossero lo scopo della presunta scrittura, potrebbe ottenerli indifferentemente mandando in classifica un romanzo non proprio, compiendo una serie di rapine impunite o spacciando qualche quintale di cocaina con cui comprarsi uno yacht da esibire sulla Costa Azzurra. Negli ultimi due casi i rischi sarebbero maggiori, data la tenue normativa che regola invece l’ambito letterario, ma maggiore sarebbe pure la certezza dei ricavi. Il fatto che proprio il romanzo, la scrittura, la creazione letteraria siano propulsori dell’intento truffaldino suggerisce l’esistenza di un elemento sfuggente legato piuttosto alla vastità e alla durevolezza dell’impatto sull’immaginario altrui, cui l’imbroglione evidentemente aspira. Aspirazione che esorbita dalla semplice mitomania.
Tutto vale per fingere l’abilità creativa
Il fascino della scrittura, dai tempi antichi, è quello dell’immortalità: immortale l’eroe cantato dal poeta, immortale il poeta che lo cantò. Ma chi sono questi poeti che creano grazie a un talento non equamente distribuito tra gli esseri umani e perché non tutti i mortali possono accedere a tale opportunità? Nel gesto furtivo di chi per darsi un tono d’autore senza averne l’auctoritas si serve di un “negro”, nell’accezione coniata da Alexandre Dumas padre, a gridare è l’ingiustizia percepita dal privo di talento. Come pure la pigrizia di chi non vuole studiare e scrivere milioni di parole per arrivare forse un giorno a sfornare qualcosa di decente. A questo punto il tipo di scorciatoia è ininfluente: si tratti di un individuo o di una macchina pensante, tutto è buono per fingere l’abilità creativa che non si possiede e strappare i lacci di una mortalità avvilente.
Nel servirsi di una macchina come complice, il preteso scrittore sceglie una comoda compagna di bugie teoricamente priva di coscienza e soprattutto incapace di creatività letteraria autogenerata. Una sorta di affinità elettiva lo lega a ChatGPT più che a un ghostwriter vivente, in quanto quest’ultimo di tanto in tanto è in grado di produrre di proprio impulso qualcosa anche per sé. Pur essendo capace di combinare storie pescando a strascico negli infiniti dati del suo deposito in continuo aumento, e superando in questo le attitudini del richiedente, il congegno ne spartisce invece l’inettitudine a compiere una simile impresa per conto proprio. E poi, una persona potrebbe rivelarsi chiacchierona e spifferare in giro il malfatto mentre l’IA, chissà perché, si presume incapace di delazione, tomba elettronica di un segreto inconfessato in un rapporto totalmente intimo. “IA, IA, IA…”
Valore e scopo della creazione letteraria
Questo tipo di malversazione spinge comunque a una riflessione confortante su valore e scopo della creazione letteraria come sulla polarizzazione tra uno scrittore teso unicamente all’esteriorità e un sacerdote del mistero della scrittura. Uno come Marcel Proust, James Joyce, per intenderci, o Franz Kafka.
“Cantami o Diva…” esordiva nell’Iliade Omero che, fosse uno o trino, non era certo artificiale. La sua invocazione alla Musa affinché riversasse in lui la poesia, creazione di cui non si sentiva ideatore ma depositario, la dice lunga sull’atteggiamento di uno scrittore votato alla scrittura per qualcosa di più che la sola gratificazione di vedersi pubblicato e pavoneggiarsi in società. L’autore è invasato dalla Dea e se ne fa tramite. Come svela Jean Cocteau secoli più tardi, il poeta tiene pulita la stanza per servire un padrone che non sa quando e se lo visiterà. Che la stanza sia una strofa di otto versi, una disposizione d’animo o la camera stessa dello scrittore, ciò che vi avviene non è la semplice avventura di un «Io».
E qui si torna a Gadda e alla sua repulsione per il pronome più usato nell’era dei post in Internet, manifestata ben prima che la Rete esistesse. Gadda, che nello stile si è rappresentato attraverso anomalie inconfondibili, protesi del linguaggio talmente elitarie da renderlo unico nella narrativa mondiale, rifiuta il primo pronome personale in favore di un caustico panorama delle comuni miserie condiviso nella solidarietà della sofferenza umana. Non è per esibizionismo che l’Ingegnere malmostoso preferisce la fauna popolare che si agita intorno a via Merulana e le bassezze pregiudiziali di un poliziotto tutt’altro che imparziale: è per includersi a suo modo nella schiera degli scriventi che senza scrivere non saprebbero che farsene della vita. E lo fa a rischio di non essere letto che da pochissime persone a causa dell’ostica ricercatezza del suo codice linguistico. Nessuna IA saprebbe sormontare un simile insieme di imperfezioni alla ricerca di un Io ortodosso ormai dissolto.
Il filosofo Maurice Blanchot annota ne Lo spazio letterario: “Scrivere vuol dire rompere il legame che unisce la parola a me stesso”. E a suffragio della sua convinzione riporta l’osservazione sorpresa e ammirata di Kafka che dichiara “di essere entrato nella letteratura dal momento in cui ha potuto sostituire «Io» con «Egli»”. Nella vertigine di questa metamorfosi, lo scrittore è trasportato dalla solitudine e dal silenzio in un dominio universale che non riguarda più la mera espressione della propria personalità, ma l’adesione a un contesto superiore, immemore, partecipato da poeta a poeta, in cui l’«Egli» si sostituisce all’«Io» e “«Egli» è me stesso diventato nessuno”. Parte “di quella potenza neutra, senza forma e senza destino, che è dietro tutto ciò che si scrive”.
Cos’è lo stile?
La si chiami indagine sulla natura umana o ricerca del senso dell’esistenza, questa potenza neutra strappa la personalità alle trappole narcisistiche da cui l’individuo credeva di essere attratto nel mettersi allo scrittoio e la scaglia in un universo parallelo unico e costante, un fluire cui innumerevoli scriventi contribuiscono per lo scorrere dell’Opera, il cui autore come nei testi sacri scompare nelle pieghe del tempo per riemergere di tanto in tanto in qualche guizzo stilistico. E se lo stile secondo Roland Barthes non è il risultato di una scelta ma la somma di automatismi accumulati dallo scrittore dalla nascita a oggi, ecco che a immettersi in quella potenza neutra è una struttura verticale e solitaria del pensiero, una prigione ipofisica che scioglie i propri vincoli nel libero movimento complessivo della letteratura.
E ci sono anche mezze misure. C’è chi tiene un diario, chi scrive a prescindere dalla pubblicazione, per il gusto di entrare in quella stanza letteraria particolare e sostarvi di tanto in tanto. Nell’epoca in cui l’autofiction raggiunge l’apice della celebrazione grazie al Nobel assegnato alla sua massima rappresentante, tenendo sempre in conto l’inversione cara a Oscar Wilde secondo cui ogni recensione non è che autobiografia, l’«Io» si scompone ancora nei mille rivoli di saggisti che non saprebbero rinunciare al piacere di entrare in una discussione contribuendovi a suon di primi pronomi plurali. Perché un piacere esiste nella scrittura e il disgraziato che ricorre a un cervello altrui per fingere di produrre la propria opera non ne godrà mai.
Come potrà ChatGPT mettersi in rapporto con tutto questo? A quale stile o trasparenza rifarsi, a quale agglomerato di solitudine e silenzio, comunanza di specie o etnia, rivendicazione o anelito, a quale felicità adattarsi?
Conclusioni
È vero, c’è anche la letteratura di intrattenimento, meno profonda di quella cui fanno riferimento Kafka e Blanchot, laddove la trama è più rilevante del senso e personaggi standardizzati seguono schemi stimolo-risposta per fruitori a caccia di distrazioni. Ma è ancora una volta lo scopo della scrittura a contare nel suo compromettersi per il risultato. È il lettore a essere interpellato nel suo comprensibile bisogno di svago. Forse lì un’Intelligenza Artificiale ben istruita potrà arrivare a offrire quanto desiderato, così come sa già migliorare la leggibilità di un articolo, giustapponendo a una facile forma un facile contenuto. Ci sarà comunque bisogno di una madre che racconti la fiaba al piccolo prima di dormire, e lo standard umano, difettoso o sublime, tornerà in rilievo.
Il libero appello dello scrittore alla libera rivelazione del lettore, teorizzata da Jean-Paul Sartre in Cos’è la letteratura, richiede un umano da entrambe le parti, a meno che l’IA non scriva per un suo simile. Solamente in tal caso l’equazione potrebbe combaciare nuovamente. Il lettore al cospetto di un’opera scritta da un calcolatore elettronico non ha nessun desiderio in cui specchiarsi, se non la firma fasulla del grafomane che ha voluto raggirarlo. Se l’IA riuscirà nell’intento, sarà perché il lettore avrà ridotto il suo sogno a un puro criterio di migliore leggibilità, senza alcuna altra pretesa.