“Tea parties and Twitter, I’ve never been so bitter” – Fun., Some Nights (Intro)
Il recente acquisto di Twitter da parte di Elon Musk permette di sollevare alcune questioni teoriche sulla circolazione di informazioni all’interno delle piattaforme digitali, così come sulla natura di queste ultime e della loro attività di mediazione delle informazioni.
Il personaggio Musk e la comunicazione mediata da piattaforme
Nel dibattito pubblico, il takeover della piattaforma – e ciò che ne è seguito – ha acquisito notorietà e attenzione, aprendo ipotesi interpretative afferenti a molteplici ambiti discorsivi. Musk infatti è contemporaneamente protagonista del mondo FinTech e personaggio pubblico; è alla volta eccentrico miliardario, genio visionario, comico da prima serata sulla nbc e fine stratega; è ricordato tanto per le sue bizzarre dichiarazioni quanto per gli scandali legati alla sua relazione con la cantante Grimes. Come ricorda Carola Frediani, è un personaggio la cui sola notorietà genera degli effetti pragmatici, a prescindere dai suoi singoli meriti imprenditoriali. Ad esempio, sempre seguendo la ricostruzione di Frediani, per quanto riguarda il punto di vista strettamente finanziario, il suo comportamento non sembra trovare spiegazioni univoche ed esaurienti, né sembra rivelare una particolare lungimiranza: l’acquisto di Twitter non sembrerebbe essere stato, fino a ora, un ottimo affare.
Queste premesse sono necessarie per inquadrare le riflessioni a seguire. Pur non trattandosi di analisi strettamente semiotiche o basate sugli strumenti metodologici appartenenti alla disciplina, lo sguardo di chi scrive è informato dai suoi principi epistemologici: lo statuto pubblico di Musk, così come le sue dichiarazioni, non sono qui riportate per proporre improbabili psicologismi, o analisi di stampo internalista sulla sua personalità. Il “personaggio” Musk, l’attore sociosemiotico, i suoi tweet, il suo fare pragmatico saranno trattati invece – secondo lo spirito semiotico – come dei testi lungo i quali ritrovare alcune delle linee ideologiche del nostro tempo. D’altronde il suo carattere eccentrico, il suo genio, altro non sono che manifestazioni significative che emergono da un posizionamento all’interno di una rete – discorsiva, semiotica, ideologica. Da qui, un interesse nel guardare a questi fenomeni per condurre analisi e riflessioni teoriche sul presente della comunicazione mediata da piattaforme. Già ad aprile 2022, quando l’acquisto di Twitter non era ancora una certezza ma solo uno dei dichiarati obiettivi di Musk, Molly Ball scriveva sul Time: “his stunning move to buy Twitter and take it private has made his views on politics, society and human discourse a matter of urgent concern. The world’s richest man stands soon to control the world’s most influential media platform, a venture he claims to have undertaken not for profit but for the good of society”.
A global town square
Il 14 aprile 2022, mesi prima dell’effettivo acquisto di Twitter, ma già dopo aver apertamente manifestato la volontà di procedere con l’operazione e aver fatto un’offerta miliardaria per rilevare l’azienda allora guidata da Dorsey, Elon Musk partecipa a un Ted Talk nel quale viene intervistato da Chris Anderson. All’interno di quest’intervista Musk definisce Twitter una de facto Global Town Square. Probabilmente lontana eco alla fortunata locuzione macluhaniana di «villaggio globale», la metafora viene utilizzata da Musk per indicare uno spazio aperto, pubblico, attraversabile da chiunque a prescindere dalla sua collocazione nel globo o status sociale. Questa affermazione da sola è sufficiente per l’apertura di numerose questioni teoriche legate alle piattaforme digitali.
Twitter, è la fine della “piazza digitale pubblica”? Come pesa la variabile Musk sul futuro
Innanzitutto, cos’è Twitter?
Innanzitutto, è importante chiedersi: quest-ce que Twitter?
Come tutte le realtà appartenenti al mondo digitale, Twitter è una moltitudine sociotecnica. Nella fitta rete intertestuale apertasi negli ultimi mesi, il social media viene tematizzato come un’azienda che dà da lavorare a migliaia di ingegneri, programmatori e moderatori; come uno dei primi servizi socialmediali digitali; come un prodotto, al pari di una macchina elettrica autopilotata; come un servizio pubblico; come un’infrastruttura digitale la cui attività è di difficile regolazione e regolamentazione.
Dall’era dei Social Network all’età dei Social Media
Ian Bogost ha recentemente pubblicato sull’Atlantic un articolo intitolato “The Age of Social Media Is Ending”, all’interno del quale ricostruisce un processo che negli ultimi anni ci ha portato dall’era dei Social Network all’età dei Social Media. I Social Network si sarebbero diffusi a partire dalla proliferazione dei personal computer, fenomeno che li ha resi strumento prioritario per costruire e gestire le relazioni interpersonali, Nella visione di Bogost un Network è un “idle, inactive system”, una collezione di connessioni; un servizio di user-generated content che è tuttavia pensato per connettersi ad altre persone più che per la pubblicazione di contenuti su larga scala. Vent’anni fa i Social Network erano diffusissimi, e si moltiplicavano ad altissima velocità. Dal 2009 tuttavia, in seguito all’introduzione dello smartphone e al lancio di Instagram, secondo Bogost si è assistito alla graduale trasformazione di questi servizi da Social Network a Social Media. Questi ultimi sarebbero secondo lui dei sistemi costruiti esclusivamente per distribuire un flusso infinito di contenuti, e si distinguerebbero dai Social Network ‘inerti’ per il fatto di essere attivi, anzi “hyper-active”, distribuendo materiale sulle reti sociali composte dall’attività degli utenti, invece che lasciare che queste agiscano indipendentemente. Dove, quindi, i primi esprimevano una vera e propria funzione di networking, i secondi si concentrerebbero su una distribuzione mediale; se i primi funzionavano secondo il modello comunitario della cerchia di amici, i secondi favorirebbero la creazione di nicchie di disinformazione.
Relazioni deboli al posto delle connessioni
Per Bogost, Twitter ha rappresentato uno dei primi Social Media: nelle sue parole, una sorta di chat-room globale che permetteva di parlare a “chiunque”, inizializzando quell’infinito stream di contenuti che si sarebbe poi fatto prassi enunciativa di creazione e consumo di content. Questo è successo al fianco di Instagram, vero ponte per Bogost tra il social networking e l’età dei Social Media, nella quale le “latent routes for possible contact” sono diventate “superhighways of constant content”. La distinzione operativa tra i due sistemi è che se per i primi le connessioni tra utenti sono essenziali e indirizzano sia la creazione che il consumo di contenuti, i secondi favoriscono e necessitano connessioni il più fini e solubili possibile, al fine di permettere il flusso di contenuti. Secondo il teorico, questa trasformazione è avvenuta al fianco della scoperta da parte dei dirigenti dei Social Media che più i contenuti erano carichi emotivamente, più velocemente si diffondevano tra le reti degli utenti, costituendo un profitto notevole per le stesse aziende e consolidando quindi i rapporti con advertisers e attori interessati a quello spazio di influenza. Oltre ad aver creato l’influencer economy, i Social Media avrebbero mostrato che chiunque aveva il potenziale di raggiungere delle audiences massicce a un bassissimo costo e a un altissimo guadagno, dando loro di conseguenza l’impressione di meritare una tale audience.
È difficile non sentire risuonare nel testo di Bogost la distinzione che Geert Lovink e Ned Rossiter propongono nel 2018 tra gli Organized Networks e le piattaforme di Social Media. I due autori espongono in quest’occasione la necessità di network che permettano l’organizzazione; i Network sono delle “open, informal architectures” (ivi: 16), la cui eterogeneità e costitutiva differenziazione (ivi: 34-sgg) gli consente di essere sistemi di produzione e invenzione. La proposta dei due autori fondava nell’urgenza di progettare delle alternative ai monopoli delle piattaforme di Social Media, basate su “weak ties” e sostituirle con reti di “strong links” (ivi: 14), che permettessero di passare dalla comunicazione all’azione sociale, soppressa dai Social Media. Questi ultimi, attraverso il design di relazioni deboli – le connessioni fini e solubili di cui parla oggi Bogost – ammortizzerebbero la forza di trasformazione sociale del network, trasformandola in profitto per le piattaforme stesse. Se il sociale aveva finito per identificarsi con il Social Media, era arrivato il momento di “liberarlo” tramite reti di partecipazione.
Per Bogost la distinzione tra il Network e il Medium si fonda quindi sulla portata di attività e intervento che questi modelli esercitano sulle relazioni sociali (inerzia delle reti vs. iperattività dei media); per Lovink e Rossiter la differenza tra i due modelli è invece qualitativa e politica, e risiede nella differenza tra un modello organizzativo rizomatico e produttivo di novità che si deve sostituire al modello omogeneizzante, neutralizzante ed estrattivista della piattaforma Social, che impedisce la collettivizzazione. In entrambi i casi, il modello del Network enfatizza la necessità di connessione e di relazione tra attori sociali eterogenei, la cui interazione con l’alterità – gli altri nodi della rete – è vista come contemporaneamente l’obiettivo e la forza del modello. Le piattaforme Social invece non sembrano configurarsi per favorire questa funzione partecipativa basata sull’incontro, ma si predispongono per essere strumenti di produzione individualizzata di content, dove l’alterità diventa semplicemente un’audience da attraversare per mezzo di scrolling infinito, perdendo le potenzialità politicamente emancipative dell’organizzazione e subordinando l’attività dell’utente alla produzione di contenuti nel flusso.
La parabola di Elon Musk
Qual è la relazione tra questi due modi di concepire le reti sociali digitali e l’acquisto di Twitter da parte di Musk? Queste definizioni operative, più che costituirsi come tipologie rigide di servizi digitali, devono leggersi come strumenti per dischiudere modelli di funzionamento e tratti tipici dinamici. La Global Town Square di cui parla Musk infatti è uno spazio pubblico, aperto, libero e inclusivo: questo modello rispecchia la sua idea di Twitter, il suo progetto per la piattaforma – una piattaforma inclusiva, che permetta una versione radicale della libertà di espressione, dove tutti devono essere liberi di esprimersi nei limiti della legge. Ma è davvero così? Fin dall’inizio delle diverse operazioni che hanno portato all’effettivo acquisto di Twitter – tra aprile e ottobre, due proposte di acquisire la piattaforma pagandola 54 dollari ad azione, diverse trattative e ritrazioni, finalizzandone poi l’acquisto a novembre – questa visione della libertà di espressione è sempre stata il cavallo di battaglia ideologico di Musk. Si vuole qui suggerire che uno studio delle piattaforme come collezioni inerti di connessioni o come attori iper-attivi può aiutare a guardare più da vicino questa posizione ideologica.
Ridistribuire il potere alle persone
Nella pratica, quest’ultima si è tradotta ad esempio nell’ampliamento delle funzioni di certificazione dell’account: la proposta di Twitter Blue consiste in un abbonamento a pagamento per ottenere lo status di account verificato sul sito; tutti gli utenti, indipendentemente dal numero di followers o dal fatto che essi ricoprivano una funzione pubblica, hanno potuto ottenere a pagamento il badge “blu” di fianco al proprio handle. Questa è stata definita dallo stesso Musk una mossa per porre fine al «sistema di signori e contadini di Twitter», dove alcuni account avevano più potere di altri, per ridistribuire il «potere alle persone». Musk ha anche ridotto drasticamente il numero di bot per lo spam sulla piattaforma, e si è apertamente dichiarato contrario al ban permanente degli utenti in seguito all’infrangimento delle policy.
Un’idea di libertà di espressione “faziosa”
Esperti di libertà di espressione online, teorici dei media e commentatori politici in tutto il mondo si sono tuttavia espressi per sottolineare la parzialità e la pericolosità di questa visione radicale – o radicalmente naif – della libertà di espressione. Per Siva Vaidhyanathan ad esempio, l’idea di libertà di espressione di Musk è “juvenile”, se non addirittura faziosa: “Twitter is an advertising company. But it’s also a forum for expression. So its rules and design are, understandably, built to consider both the commercial and expressive desires of advertisers and users. That’s a difficult balance to maintain. No social media company has come close to protecting users and fully satisfying advertisers while also allowing for full range of expression in more than 100 languages around the world. Content moderation at a global scale is impossible to do well, but it can always be done better“.
Il costo di questa visione della libertà di espressione
Altri commentatori e commentatrici si sono invece concentrati sul fatto che l’acquisizione di Musk sia stata poco utile o lungimirante rispetto ad alcune delle sfide che la piattaforma dovrà affrontare. Ad esempio, per quanto riguarda l’uso di Twitter da parte di attivisti o gruppi che vogliono esprimere dissenso all’interno di contesti nazionali in cui la libertà di espressione è severamente – e veramente – limitata, Vittoria Elliott su Wired fa notare come il fatto che Twitter sia interamente posseduto da Musk ne affievolisca gli obblighi fiduciari nei confronti degli investitori, fattore che ne costituiva di fatto una difesa contro le richieste repressive da parte dei governi di questi stessi stati.
Qual è il costo di questa visione della libertà di espressione? L’implementazione di Twitter Blue ha avuto delle ripercussioni negative sulla piattaforma, risultando in un’ondata di troll e account che fingendosi grandi brand hanno causato pesanti conseguenze finanziare sulle aziende target e sullo stesso Twitter. Come ricorda sempre Frediani, Twitter non è mai stato un investimento redditizio, e per renderlo sostenibile al momento Musk deve cambiare il modello di business della piattaforma, ad esempio tramite gli abbonamenti o attraverso operazioni come la sua trasformazione in una super-app che fornisca anche servizi di money transfer e banking, seguendo una tendenza internazionale che vede sempre più servizi digitali trasformarsi in pacchetti eterogenei di funzioni. Ma anche Frediani, come Vaidhyanathan, sottolinea la duplice natura di Twitter: non una semplice azienda Tech, ma contemporaneamente uno strumento di comunicazione politica, in nessuna maniera indipendente dal posizionamento politico di Musk e della sua cerchia di consiglieri e amici.
Le migliorie che Musk può apportare al “prodotto” Twitter
Se molte sono state le critiche alla concezione di libertà di espressione di Musk, accusata di scarsa expertise (o fondamentale naïveté), il commentatore politico Matthew Yglesias ha invece cercato deliberatamente di adottare una prospettiva meno critica, concentrandosi sulle migliorie che Musk può apportare al “prodotto” Twitter grazie alle sue capacità imprenditoriali e visione orientata insistentemente all’innovazione. Nel tentativo di minimizzare le preoccupazioni dei critici e riportare il dibattito su un piano di realtà, Yglesias riflette sul fatto che alcuni contenuti ritenuti offensivi da parte della piattaforma – e normalmente sanzionati dalla stessa, almeno prima dell’acquisto di Musk – non sarebbero effettivamente considerati offensivi dalla maggior parte degli americani: “What Musk wants is content moderation decisions that command broad consensus rather than reflect a niche progressive view”. Nella sua visione, il dibattito apertosi sulle implicazioni della Weltanschauung muskiana sul futuro di Twitter e della libertà di espressione, riflette più una paranoia e una preoccupazione dei commentatori di sinistra che non un’analisi di ciò che sta succedendo.“Trying to stitch Musk’s various statements into a first-principle philosophy of free speech probably isn’t going to yield anything coherent”; per Yglesias, ciò su cui bisognerebbe concentrarsi sono le migliorie che possono essere applicate al prodotto, evitando di concentrarsi su questioni partigiane.
Tuttavia, nello stesso pezzo, pubblicato online il primo novembre, si può leggere l’autore sostenere che: “But the actual partisan implications of these changes are often unclear. Nobody in the Republican Party, including Elon Musk, is in a rush to get Donald Trump back on Twitter because his account is embarrassing to the GOP. Selectively moderating some of the most extreme alt-right accounts while letting hammer-and-sickle Twitter fly makes the left look crazier than it is and the right look saner”.
Figura 1. Screenshot del 19 novembre 2022
Il 19 novembre, Musk pubblica un tweet contenente un poll, chiedendo agli utenti di Twitter di votare per la re-istituzione del profilo dell’ex-presidente Donald J. Trump, chiuso per incitamento alla violenza in seguito all’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Prima ancora che si chiudesse il sondaggio – conclusosi a favore del ritorno di Trump – Musk continuava il thread con un altro tweet, recitante: Vox Populi, Vox Dei.
Vox Dei, Vox Populi
Iniziano così ad emergere gli effetti dell’idea radicale di libertà di espressione di Musk applicata alle piattaforme digitali: da un lato, la messa in crisi della gestione del peso politico di una piattaforma usata per l’espressione di dissenso in contesti illiberali, dall’altro la priorità simbolica data alla “restituzione” agli utenti del potere di ritornare su una decisione di content moderation presa in precedenza dal board dell’azienda. Senza alcuna pretesa di esaurire la questione, ci si vuole concentrare su questo esempio per chiedersi, finalmente: la moderazione dei contenuti su una piattaforma Social è un problema che riguarda la libertà di espressione?
Come ha scritto Irene Donda sul Tascabile, il problema fondamentale della moderazione dei contenuti da parte delle piattaforme digitali è un problema di transfer di legittimità politica. La determinazione della pericolosità dei contenuti che circolano, lungi da essere qualcosa di valutabile oggettivamente, è lasciata in mano alle piattaforme che possiedono le infrastrutture su quei contenuti circolano, e la cui circolazione genera profitto: “Le policy di moderazione hanno un impatto comparabile a quello di leggi nazionali nel dare forma agli ambienti digitali. Anche se, talvolta, come utenti abbiamo l’impressione che il web sia una sorta di lavagna bianca, dietro quello che viene pubblicato – che è possibile o non è possibile pubblicare, distribuire e visualizzare – ci sono interessi ben chiari. Anche un web del tutto non moderato, dove chiunque ha, potenzialmente, il diritto di dire e mostrare qualsiasi cosa desideri non è politicamente neutro: in questi giorni si sta discutendo in Texas di una legge che equipara, di fatto, la moderazione dei contenuti da parte delle piattaforme a una forma di censura. L’assolutismo della libertà di parola, come lo ha definito Elon Musk – al momento della sua prima offerta di acquisto di Twitter – è una forma di ideologia ben precisa, che porta a determinate conseguenze – di solito un aumento esponenziale di odio, violenza e attacchi personali organizzati online”.
Le molte sfumature della libertà di manifestazione del pensiero online
È utile qui riprendere la distinzione tra Network e Medium introdotta all’inizio: nei Social Media la promozione di un certo tipo di contenuti corrisponde a un margine di profitto da parte della piattaforma. Uno dei punti per interrogare la libertà di espressione radicale di Musk quindi potrebbe consistere nel fatto che, de facto, non esiste una forma di espressione non moderata all’interno delle piattaforme. Ma questo non esaurisce la domanda che fa collassare la content moderation all’interno della libertà di manifestare il proprio pensiero.
Blogger di riferimento per la Silicon Valley e fondatore di TechDirt, Mike Masnick è un esperto di online free speech, e adotta un posizionamento chiaro sull’argomento: “platforms require moderation”. La sua posizione è che la radicalità, inconsistenza e inesperienza dei discorsi pubblici di Musk sul tema della libertà di espressione siano perfettamente allineati con i discorsi che hanno accompagnato la prima diffusione di Social Media come Facebook, che promettevano inizialmente una rivoluzione nella possibilità di esprimersi, prima di scontrarsi con gli effettivi problemi di gestione degli spazi di connessione e comunicazione tra attori sociali. Ciò su cui Masnick cerca di porre l’attenzione è la varietà di sfumature che circondano il problema della libertà di manifestazione del pensiero online, che rende la soluzione della questione non riducibile alla semplicità con cui viene posta da Musk.
Innanzitutto, la trattazione di Masnick, expert witness all’interno di processi giuridici sulla libertà di espressione online, permette di analizzare più in profondità il transfer politico di cui parla Donda: il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, in Nordamerica, è garantito dal Primo Emendamento: questo rende ad esempio l’hate speech e l’utilizzo di bot per lo spam perfettamente legale. Masnick ricorda come alcuni tentativi di limitare questo diritto dal punto di vista giuridico abbiano in passato portato a misure di effettiva repressione del dissenso da parte di governi autocratici e illiberali, e che è perfettamente giusto che la legge riconosca a tutti e tutte la libertà di esprimersi liberamente, nei limiti della diffamazione e dell’accountability di ciò che viene detto. Tuttavia, Masnick è perfettamente consapevole che il fatto che l’hate speech sia legale non lo rende giusto, ma sposta teoricamente la responsabilità di gestire i contenuti potenzialmente pericolosi sulle piattaforme. La rimozione di un contenuto pericoloso da una piattaforma non coincide quindi con la riduzione della libertà di espressione dei cittadini, ma con una protezione degli altri utenti e un ritorno in termini di fiducia. Se si trattasse di un sistema pubblico, questa responsabilità di mediazione coinciderebbe con una accountability del sistema. La narrazione di Musk invece, volutamente vaga, è totalmente deresponsabilizzante rispetto all’attività di mediazione della piattaforma, e restituisce alle “persone” (ossia gli utenti) l’accountability della diffusione dei contenuti.
Le argomentazioni di Musk si limitano ad una vaga garanzia di permettere a qualcuno che non la pensa come noi di esprimere la propria opinione: tuttavia, la moderazione dei contenuti, argomenta Masnick, non riguarda il fatto che qualcuno possa scrivere online qualcosa con cui non siamo d’accordo. Il problema riguarda in primo luogo fornire una serie di regole specifiche, adattabili a diversi contesti internazionali, che devono essere fatte osservare da moderatori – dipendenti dell’azienda, ossia attori sociali, non computazionali – e quindi non referenti solo al contesto nordamericano, ma applicabili anche in posti dove la libertà di espressione non è garantita dagli stessi governi, per proteggere gli utenti.
In secondo luogo, il problema della moderazione dei contenuti è quello dell’abuso verbale, della violenza, delle molestie, della diffusione di informazioni false orientate a obiettivi pericolosi, delle minacce. La moderazione dei contenuti solleva il problema dell’accountability della piattaforma, che dovrebbe garantire la sicurezza e privacy dei suoi utenti e contemporaneamente essere responsabile della circolazione dei contenuti al suo interno. Nel dichiarare la radicale libertà di espressione, Musk sta negando l’iperattività di mediazione della piattaforma, di fatto chiamandosi fuori da ogni tipo di responsabilità. Questo è permesso anche dal fatto che l’online speech, nel contesto nordamericano, è regolato da un’interpretazione del Decency Communication Act del 1996 che non riesce ancora ad inquadrare le piattaforme come publishers, spogliandole della responsabilità dei contenuti di cui si fanno supporto – e che in molti casi promuovono.
Musk davanti alla sfida più grande: la moderazione su Twitter
Come argomentato in precedenza, sostenere che i Social Media non operino attività di mediazione dei contenuti user-generated è semplicemente falso. Un altro degli argomenti di Masnick è il fatto che la posizione naif e populista di Musk non riconosca il lavoro fatto fin qui per distinguere il free speech e la content moderation. Uno dei riferimenti di Masnick è Kate Klonick, autrice di un paper (2018) pubblicato sulla Harvard Law Review intitolato The New Governors: the People, Rules and Processes of Governing Online Speech. Il paper si apre con la constatazione che l’attività di mediazione delle piattaforme online di cui sopra è costitutivamente opaca e intricata. Klonick sostiene che le piattaforme regolino attivamente l’online speech per tre ordini di ragioni: il primo è quello di allinearsi con la legislazione nordamericana; il secondo è legato alla responsabilità aziendale di chi gestisce le piattaforme di fronte alla pubblicazione di materiale illegale o pericoloso, scaricando di fatto l’accountability di questa circolazione sugli utenti; il terzo invece è quello della necessità economica di creare un ambiente che risponda alle aspettative dei propri utenti. Secondo Klonick le analogie con il primo emendamento e i problemi classici della libertà di espressione non inquadrano bene l’attività delle piattaforme, che lei stessa chiama New Governors: “Instead, platforms should be thought of as operating as the New Governors of online speech. These New Governors are part of a new triadic model of speech that sits between the state and speakers- publishers. They are private, self-regulating entities that are economically and normatively motivated to reflect the democratic culture and free speech expectations of their users. […] this conceptualization of online platforms as governance fits into scholarly concerns over the future of digital speech and democratic culture. […] the biggest threat this private system of governance poses to democratic culture is the loss of a fair opportunity to participate, which is compounded by the system’s lack of direct accountability to its users. (Klonick 2018: 1603)”
L’invisibilizzazione della propria responsabilità come mediatore e la problematicità politica della versione di Musk della libertà di espressione emergono se si ritorna all’esempio del poll su Trump. Quel tweet fa prevalere una logica della rappresentazione sopra a una logica della rappresentanza: facendo coincidere la vox populi, vox dei con un click sul poll, da un lato spazza via in un solo gesto la legittimità delle istituzioni democratiche tradizionalmente delegate alla costruzione del consenso e mediazione delle istanze politiche; dall’altro riconosce un’assenza di responsabilità nella comunicazione trumpiana rispetto agli avvenimenti del 6 gennaio 2021, ri-legittimando lo strumento attraverso cui un leader carismatico aveva diffuso pubblicamente l’idea che le elezioni che lo vedevano sconfitto erano state truccate. La rappresentanza democratica è un processo che passa dalla collettività ai luoghi della politica attraverso istituzioni, corpi intermedi, partiti e associazioni. Le garanzie che danno forma alla macchina democratica sono il frutto di una storia e una tradizione che cerca di evitare il ripetersi di abusi di potere: promuovere l’idea che un click su un tweet pubblicato dal proprietario di un servizio digitale corrisponda all’esercizio di un diritto costituzionale all’interno di un sistema di rappresentanza è fuorviante. La democrazia non si esercita in un vuoto, e tantomeno all’interno di reti di distribuzione di contenuti digitali, ma all’interno di reti di partecipazione e rappresentanza.
Conclusioni
Dichiarare che qualcosa è una Town Square dove vige l’assoluta ed inclusiva libertà di espressione non equivale a costruire una siffatta piazza globale. Seguendo Masnick: “Twitter is not the town square, and it’s a ridiculous analogy. The internet itself is the town square. Twitter is just one private shop in that town square with its own rules”.
Uno spazio, per dirsi inclusivo, dovrebbe proteggere i suoi abitanti più deboli, e farsi responsabile e accountable di ciò che succede al suo interno. Una town square è uno spazio pubblico, democratico, dove la partecipazione è garantita dalle istituzioni che la animano.
Forse, i Social Network idealizzati da Bogost, gli Organization Networks ideati da Lovink e Rossiter continuano a essere un modello asintotico a cui tendere più che un concreto spazio che possiamo ritrovare nella realtà o nella recente storia di internet. Sicuramente, leggere uno strumento come Twitter al pari di un network neutro, pretendere che attraverso alcune sue implementazioni tecniche si stia “allargando” la libertà di espressione delle persone, significa non situare correttamente nella realtà sociale tutti questi elementi.
La libertà di espressione non è un diritto universale, assoluto, sovrastorico, che esiste al di fuori di confini nazionali o garanzie sociali. Come ogni diritto, è l’esito di un’attività sociale che lo mette in essere all’interno di complessi sistemi di forze. Dare per scontato che attraverso un click che esprime un’opinione si possa restituire la complessità del millenario sistema di garanzie quale è la democrazia è la vera cartina al tornasole del discorso tecnopolitico contemporaneo. Inoltre, ridurre la libertà di espressione alla possibilità di essere violenti online non tiene conto di quei contesti dove la libertà di espressione tout court viene soppressa attraverso l’esercizio del potere. Questo modello di libertà di espressione rivela dei tratti tipici del discorso populista, finanche del sentimento anti-politico che ha accompagnato la trasformazione del dibattito pubblico negli ultimi trent’anni: c’è un popolo senza nome, senza storia, che viene nascosto e opacizzato dietro complesse reti socio-tecniche, a cui vengono delegate delle scelte che poi avranno delle ricadute nella vita politica e sociale delle democrazie. Non c’è alcuna traccia della costruzione di una cittadinanza attiva, consapevole della propria storia e dei propri diritti, ma l’eterno presente di una preferenza individuale gestita e governata da una piattaforma privata.
Se è bene ascoltare l’ammonizione di Yglesias sul non criticare in maniera ossessiva e non oggettiva personaggi come Musk, bisogna allo stesso modo stare attenti a non tracciare una linea netta tra gli “engeneering problems” e i “political problems”. I media non sono uno spazio neutro dove tecnica e politica possono rimanere distinti, ma come insegna invece Mike Masnick, nella gestione delle piattaforme digitali “there are massive trade-offs to every decision”: se queste decisioni sono prese su versioni naif, idealizzate e strumentali di concetti complessi e sfumati come la libertà di espressione, il rischio è che alla costruzione di consenso corrispondano costi di difficile sostenibilità politica e sociale.
Sitografia
Fonti consultate per la stesura dell’articolo in ordine cronologico di pubblicazione. Tutte le fonti sono state consultate nel mese di novembre 2022.
The New Governors: The People, Rules and Processes Governing Online Speech
Kate Klonick – Harvard Law Review
04/2018
https://harvardlawreview.org/wp-content/uploads/2018/04/1598-1670_Online.pdf
India’s New Cyber Law Goes Live: Subtracts Safe Harbor Protections, Adds Cmplled Assistance Demands For Intermediaries
Tim Cushing – TechDirt
26/02/2021
Americas’ Favorite Flimsy Pretext for Limiting Free Speech
Jeff Kosseff – The Atlantic
04/01/2022
“Elon Musk Demonstrates How Little He Understands About Content Moderation”
Mike Masnick – TechDirt
15/04/2022
What Elon Musk Really Believes
Molly Ball
26/04/2022
https://time.com/6170696/elon-musk-politics-twitter/
“Will Musk walk the talk on free speech post-Twitter acquisition?”
Avi Gopani – Analytics India Magazine
27/04/2022
Elon Musk doesn’t understand free speech – or Twitter – at all
Siva Vaidhyanathan – The Guardian
28/04/2022
The Evolution of Super Apps
Digital Methods Initiative – Summer School Research project
08/2022
https://wiki.digitalmethods.net/Dmi/SummerSchool2022EvolutionofSuperApps
Una questione privata? La moderazione dell’odio in rete e la legittimità politica delle infrastrutture
Irene Doda – Il Tascabile
28/10/2022
https://www.iltascabile.com/societa/moderazione-web/
Hey Elon: Let me Help You Speed Run The Content Moderation Learning Curve
Mike Masnick – TechDirt
02/11/2022
Elon Musk Wants Us to Think He’s at War with the Elites
Edward Ongweso Jr
03/11/2022
https://www.vice.com/en/article/7k8mqb/elon-musk-wants-us-to-think-hes-at-war-with-the-elites
Elon’s Twitter-Tilt
Dave Karpf
04/11/2022
https://davekarpf.substack.com/p/elons-twitter-tilt
Elon Musk Has Put Twitter’s Free Speech in Danger
Vittoria Elliott
7/11/2022
https://www.wired.com/story/twitter-free-speech-musk-takeover/
Elon Musk is recycling his X.com playbook for Twitter
Owen Thomas
09/11/2022
https://www.protocol.com/fintech/elon-musk-x-com-twitter
“The age of Social Media is Ending”
Ian Bogost – The Atlantic
10/11/2022
Guerre di Rete – House of Tweets
Carola Fredianni
13/11/2022
Layoffs, ultimatums, and an ongoing saga over blue check marks: Elon Musk’s first month at Twitter
Catherine Thorbecke
(updated at) 27/11/2022
https://edition.cnn.com/2022/11/27/tech/elon-musk-one-month-twitter/index.html