lo scenario

Open Innovation, solo così la PA può cambiare davvero

Innovare significa accettare cambiamenti dirompenti e significa soprattutto realizzarli con l’apporto di chi ha le competenze per farlo. Per la PA, è la sola via per migliorare i servizi e risparmiare davvero. Ed è una via che passa dall’open innovation. In Veneto ci stanno provando, ma è una sfida durissima in Italia

Pubblicato il 13 Feb 2018

Gianluigi Cogo

Consulente PA digitale, ex Regione Veneto

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Siamo ormai tutti concordi che l’efficacia dell’innovazione nella PA (in particolar modo quella digitale) non viene percepita né come vantaggio, né tanto meno come valore.

Il problema non sono i piani, gli strumenti programmatori o gli investimenti, ma la cosiddetta ‘messa a terra’, ovvero l’attuazione di ciò che spesso rimane solo esercizio normativo, adempimento o al massimo sperimentazione.

Eppure piani e programmi di buon senso non mancano: Piano BUL, Piano Scuola Digitale, Piano Industria 4.0, Piano triennale per la PA, ecc.

Mercoledì scorso, in rappresentanza di Regione Veneto, ho partecipato ai lavori dell’advisory board di The Innovation Group dove ci si è confrontati sullo stato di attuazione di questi piani e si è poi spaziato sulle predizioni tecnologiche, digitali e innovative per il 2018.

È un lavoro che si fa spesso fra gli operatori della PA e che serve per creare empatia, darsi reciproca fiducia e scambiare metodi e buone pratiche per raggiungere quegli obbiettivi di efficacia che, come dicevo in premessa, difficilmente vengono percepiti.

Però mercoledì ero reduce da una conferenza internazionale che mi ha dato forza ed entusiasmo, da una parte, ma anche molto scetticismo sulla capacità della PA italiana di intendere ed applicare l’innovazione. Dunque ero poco propenso all’empatia a prescindere.

Blockchain e PA

LEGGI LE APPLICAZIONI BLOCKCHAIN PER LA PA

Tornavo da Santiago del Cile dove, ospite di Enel, avevo affrontato assieme a un gruppo di influencer internazionali il tema della blockchain e il suo utilizzo in campo energetico.

A Santiago era stato il mitico Joel Comm a condurre le danze con un talk memorabile che ci ha persuaso tutti sull’adozione, in modalità disruptive, di questa innovativa tecnologia che nei prossimi anni abbatterà rendite di posizione e intermediazioni ormai insostenibili.

Ma, tornando con i piedi per terra, realizzo, ora, che anche la tecnologia blockchain sconta un gap culturale profondo e un’ostilità da parte dei governi e degli apparati ad essi riconducibili (la PA in primis).

Joel Comm ha affermato, con parole sagge: “Ormai la tecnologia c’è, esiste da qualche parte nel web, ed è qualcosa con cui prima o poi tutti dovremo confrontarci. Enel, saggiamente, ha scelto di riconoscerne l’importanza fin da subito, di abbracciarla e di studiarla a fondo per sfruttarla al meglio. Non sappiamo dove tutto questo ci porterà, ma sappiamo che è la strada giusta da percorrere.”

Sui modi e sui tempi dell’adozione della blockchain in tutti i campi possibili, a cominciare dall’energia ma senza dimenticare le transazioni, la contrattualistica, i pagamenti, le informazioni, ecc., si è dunque discusso molto, convenendo, alla fine, che non di una blockchain ma di molte blockchain tematiche bisogna iniziare a parlare e immaginarne un adozione ampia, forse anche di una blockchain specifica per la PA.

Aprirsi dunque, per provare nuove soluzioni più convenienti per lo scambio non mediato e la gestione complessiva dei processi (contratti, procurement, pagamenti, ecc.) ma non solo. La disintermediazione, infatti, permette risparmi di gestione e dunque servizi più efficienti e questo è un grande vantaggio a portata di mano.

Open innovation per la PA

Tuttavia, per applicare tutto ciò e portarlo a valore ed efficacia tangibile, è necessario abbracciare il paradigma dell’Open Innovation.

Mi spiego meglio e parto da distante, visto che proprio questo è l’ambito nel quale sto lavorando con diverse progettualità finanziate dalla UE.

Per la spiegazione del modello, e per contestualizzare meglio il mio ragionamento, riporto la definizione di Wikipedia sull’Open Innovation:

Il modello tradizionale guardava all’innovazione come uno dei fattori principali di vantaggio concorrenziale nei confronti delle altre aziende che agivano sul mercato. Questo portava da una parte a mantenere alte le barriere con l’esterno, producendo in prima persona, attraverso settori di Ricerca e Sviluppo interni, innovazioni della quale l’azienda era l’unica proprietaria, generando così un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti basato sulla commercializzazione della ricerca.

Dall’altro lato il ricorso a risorse esterne per migliorare e arricchire la ricerca interna veniva ridotto ai minimi termini visto che l’accento veniva posto sull’importanza di governare in termini “proprietari” tale processo, investendo maggiormente sulla attività di tutela della proprietà intellettuale.

Numerosi sono i fattori specifici che hanno stimolato una revisione e aggiornamento del concetto di innovazione. Alcune dinamiche, determinate del cambiamento dei mercati e dei modelli economici, hanno reso svantaggioso e vulnerabile il modello tradizionale. Con la mobilità data dal nuovo mercato del lavoro sta diventando sempre più difficile trattenere le conoscenze e i talenti all’interno delle mura aziendali, ed anche i mercati dei capitali, stanno maggiormente investendo su proposte di business fondate su combinazioni di saperi e apporti diversi. Inoltre si sta affermando come modello organizzativo di successo la filiera e le relazioni orizzontali tra imprese. Questo ha portato le aziende verso una apertura, da qui “open innovation” sia nella ricerca delle competenze sia per quanto riguarda innovazione e ricerca.

Non si ritiene che sia più necessario sviluppare internamente la ricerca per generare valore, ma la tendenza è quella di puntare su di un modello di business che sappia sfruttare e valorizzare al meglio le migliori innovazioni che il mercato offre all’esterno, trasferendole all’interno del nostro modello di business.

La creazione di valore passa così da essere il risultato della trasformazione interna di input in output, nella sintesi migliore tra risorse interne ed esterne. L’innovazione chiusa offre benefici nel momento in cui il network interno è molto esteso da possedere tutte le risorse per poter sviluppare con continuità nuovi prodotti o servizi, quando però questo viene a mancare diventa più vantaggioso per l’azienda mettere in atto un networking che includa agenti esterni come università, start-up, istituti pubblici e privati, fornitori esterni, creando un flusso mobile di informazione e scambio più adattabile alla situazione attuale.

Inoltre l’utilizzo di risorse esterne permette una riduzione del processo che intercorre dall’ideazione di un prodotto alla sua effettiva commercializzazione. Per il passaggio da un modello tradizionale a quello dell’open innovation è stato di fondamentale importanza l’incremento sostanziale del numero di risorse esterne a cui le aziende possono attingere ed i soggetti utili alla cooperazione e collaborazione.

BINGO! È quello che Enel sta facendo e che sta alla base del successo della sua trasformazione digitale.

La PA fa altrettanto? È disposta a fare altrettanto?

È un po’ quello che abbiamo discusso e che ho portato a critica costruttiva durante i lavori di mercoledì scorso.

Insomma mettiamola così: innovare significa accettare cambiamenti dirompenti e significa soprattutto realizzarli con l’apporto di chi ha le competenze per farlo.

Attualmente nei piani e nei programmi di digitalizzazione della PA ci sono innovazioni tecnologiche che non possono essere realizzate con il solo apporto della sua forza lavoro tradizionale. Quella forza lavoro appiattita sugli adempimenti e poco propensa ad acculturarsi, rimettersi in gioco con nuove competenze e soprattutto incapace di essere creativa e disruptive.

Ho portato l’esempio di Enel perchè è significativo. Se questa azienda volesse (è un ipotesi) costruire auto elettriche, sa perfettamente che non può farlo con le competenze interne. Deve necessariamente aprirsi e accettare l’apporto di idee, ricerche, creatività e rischi che solo le startup, gli hacker e i ricercatori possono darle.

La PA è capace di fare lo stesso?

Open innovation in Veneto

In Veneto stiamo per aprire un bando a valere sul POR-FESR che prevede l’attivazione di Innovation Lab per offrire Open Data e altri asset all’iniziativa di chi vive l’innovazione con entusiasmo, creatività e nuove competenze digitali. Parallelamente abbiamo appena vinto un bando UE transfrontaliero (Odeon) con il quale sperimenteremo la stessa modalità in un area vasta del mediterraneo.

Vogliamo provare a capire se quello che per l’industria diventa un must può essere un beneficio anche per la PA. Se portare innovazione e competenza dagli Innovation Lab ci permetterà di rendere più efficaci i nostri servizi ed aumentare il valore di ciò che i nostri dati potenzialmente possono offrire.

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