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PA digitale, Mochi (FPA): “È ora di puntare in alto. Sulle persone”

Il nuovo anno ci costringe a essere ambiziosi, a intraprendere una strada che ci porti ad un futuro diverso da quello che scelte e politica al ribasso ci avevano fatto intravedere. Un anno di progetti, di promesse, di obiettivi in cui le parole chiave saranno responsabilità, persone, formazione e collaborazione

Pubblicato il 13 Gen 2021

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Il 2021 si presenta ancora con poche certezze e molti interrogativi, eppure appare già come un day after: l’anno che segue quello della grande pandemia e che vede sul tavolo tutti gli strumenti che la scienza prima e la politica dopo hanno messo a disposizione della comunità internazionale per uscire dal tunnel della malattia, ma anche della povertà.

Un anno quindi che si apre con l’inizio della campagna vaccinale e con la promessa di sostenere le nostre economie con una quantità di risorse quante mai prima avevamo neanche immaginato.

Un anno che ci costringe ad essere ambiziosi, a puntare in alto, a intraprendere una strada che ci porti ad un futuro diverso da quello che scelte e politica al ribasso ci avevano fatto intravedere. Un anno di progetti, di promesse, di obiettivi.

Il primo obiettivo: maggiore giustizia sociale ed ambientale

Ma se ci chiediamo qual è il primo di questi obiettivi, quello più urgente e ineludibile, quello senza il quale gli altri saranno inutili, a me viene immediatamente alla mente una maggiore giustizia sociale ed ambientale e, con essa, la riduzione delle disuguaglianze o, almeno, un netto stop al loro continuo incremento e la ripartenza del nostro ascensore sociale da troppo tempo fermo.

La “tragedia americana”, grottesca se non fosse tragica, che abbiamo visto il giorno di Befana non può che ricordarci quali abissi di violenza e di sopraffazione abbiamo davanti se non riusciremo a ridurre il divario fra chi nelle crisi si arricchisce e chi va in miseria. Certo non erano “corna di bufalo “e i suoi compagni dell’armata Brancaleone di Capitol Hill i “poveri”, ma chi li ha chiamati, incitati e spinti è a sua volta sostenuto dalla grande massa dei dimenticati, degli esclusi, di chi si sente invisibile e alimenta così quell’enorme serbatoio di rabbia che costituisce la ricchezza di molti vecchi e nuovi oligarchi o aspiranti tali.

Di fronte a questa deriva e a questo macro-obiettivo sta l’amministrazione pubblica. Una PA che ha insieme una grande responsabilità, ma che ha trovato anche una nuova centralità e con essa un’opportunità e una necessità di rigenerazione.

La responsabilità delle amministrazioni pubbliche

Le centinaia di miliardi che saranno disponibili, sempre che riusciamo ad ottenere i risultati che promettiamo, passeranno attraverso il settore pubblico. Attraverso amministrazioni che dovranno ripensare loro stesse e i loro modelli organizzativi se non vorranno essere sciaguratamente bypassate da improvvide amministrazioni parallele che, se sul momento danno alla politica la patina di decisionista, alla fine non costruiscono, ma anzi scoraggiano qualsiasi cambiamento. Se una migliore equità è il primo obiettivo, la rigenerazione delle amministrazioni pubbliche è quindi la prima priorità.

Ci servono quindi amministrazioni pubbliche rigenerate, che si riconoscano consapevolmente nel loro ruolo di garanti dei diritti dei cittadini, che siano in grado di fornire veri servizi, veloci e semplici, ma che non chiedano ai cittadini e alle imprese adempimenti che possono e devono fare loro. Che siano abilitanti per fornire a tutti libertà positive.

Ma queste amministrazioni, mi raccomando sempre al plurale perché la PA non è né una né uniforme, per essere efficaci e incidere quindi sulla qualità della vita devono necessariamente essere digitali, così come digitale deve essere la sanità, la scuola, la promozione culturale, la sicurezza, la gestione dell’energia e della mobilità. Amministrazioni quindi rigenerate, consapevoli dei loro compiti e delle aspettative del Paese e profondamente riformate da una modalità digitale trasformativa sia dei processi sia delle relazioni tra i soggetti. Amministrazioni quindi orientate alle grandi missioni strategiche che abbiamo di fronte e che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ci consegna.

Bene, ma di amministrazione digitale parliamo almeno da più di vent’anni, abbiamo speso molti soldi e impiegato bei cervelli, ma abbiamo raccolto non pochissimo, ma certamente molto meno di quel che ci eravamo impegnati portare a casa. Cosa possiamo allora fare all’inizio di questo anno di svolta?

Partire dalle persone

Io credo che dobbiamo fortemente impegnarci su quello che fa veramente la differenza che, mi perdonino gli informatici, non è un applicativo rispetto ad un altro, ma la competenza a tutti i livelli di chi deve governare questo passaggio che, per certuni, può essere traumatico. Il problema è che noi abbiamo cercato di far fare le corse di Formula 1 ad una vettura a cui abbiamo sgonfiato le gomme. Quindi il primo impegno non può che essere di rinforzare le amministrazioni. Quando leggiamo che nella PA (escluse forze dell’ordine, militari e infermieri) ci sono meno di 5 giovani inferiori a trent’anni ogni mille impiegati pubblici[1], quando vediamo che nelle PA centrali l’età media è di quasi 55 anni e il 24 % ha più di 60 anni non possiamo che chiedere con forza di riequilibrare la composizione anagrafica della PA e con essa il potere stesso di cambiarla. Ma dobbiamo cambiare radicalmente anche il modo di coinvolgerli, di selezionarli, di accoglierli nelle amministrazioni una volta che sono arrivati, in modo che i migliori non abbandonino.

Purtroppo, nella grande maggioranza le amministrazioni quando devono definire di quante e quali professionalità hanno bisogno contravvengono alla norma che definisce come redigere i piani dei fabbisogni di personale e non analizzano compiti e performance attese, ma si limitano a conteggiare le cessazioni e a sostituirle. Il piano diviene così un conteggio aritmetico e lascia le amministrazioni come sono. E non stanno bene. Non è raro che un giovane entrato nell’amministrazione dopo essere stato assunto come assistente sociale si senta dire dal vertice apicale dell’ente, come è capitato in un comune del mezzogiorno, “ma a me servivano vigili urbani”! Lo scollamento tra i bisogni e i posti messi a concorso è generalizzato. E d’altronde non potrebbe che essere così in amministrazioni che non si interrogano mai sulle missioni che ne giustificano l’esistenza in vita.

Quando poi si arriva a bandire i concorsi, questi sono lunghi in maniera indefinita, nel senso che non viene mai indicato il termine delle procedure. La normalità era una durata di 16-20 mesi, il Covid-19 sta attualmente spostando i termini portandoli a tre anni da quando si sono rilevati i fabbisogni, nonostante le dichiarazioni che i concorsi non si sarebbero fermati e avrebbero utilizzato modalità telematiche e digitali.

Se finalmente si arriva a espletare il concorso, le prove concorsuali rimangono ancora in molti casi nozionistiche e libresche e, contravvenendo anche qui alle norme e alle indicazioni, non discriminano in base alla capacità di risolvere problemi o a gestire situazioni più o meno complesse. Il criterio generale sembra essere quello di rendere possibile un giudizio del tutto oggettivo, spersonalizzato che quindi non chiami in causa la capacità di valutazione della commissione. Insomma, prima di tutto difendersi da possibili ricorsi, se poi assumiamo topi di biblioteca invece che solutori di problemi non sembra essere una preoccupazione.

La formazione che manca

Se circa 500mila nuovi assunti dovrebbero entrare anche solo per sopperire alle uscite degli ultimi dodici anni, non possiamo sottovalutare però la formazione on the job dei 2milioni e mezzo di lavoratori pubblici che resteranno. La formazione non può essere vista come un addendum alla gestione delle amministrazioni, ma ne è invece un elemento fondamentale che determina la qualità dell’azione amministrativa, ma anche il benessere organizzativo dei dipendenti e delle unità operative, oltre a costituire un importante fattore di integrazione tra personale presente e neoassunti e di costruzione dello spirito di squadra. Imparare continuamente non è solo una necessità per ogni organizzazione, ma è anche, in una società in costante e rapido mutamento, un diritto per ogni lavoratore e una garanzia di attirare nel lavoro pubblico i migliori e di essere capaci di trattenerli. La formazione determina anche la capacità della PA di dialogare con l’esterno, per questo dovrebbe prevedere momenti di condivisione con imprese, cittadinanza attiva, partner europei e favorire scambi, sperimentazioni e sviluppo di progettualità condivise.

Purtroppo, anche qui le ruote sono sgonfie: l’investimento in formazione si è quasi dimezzato in 10 anni, il volume della spesa sostenuta per la formazione ha subito una contrazione di ben il 41%. Dal 2008 al 2018 si è passati a spendere da 262 milioni a 154 milioni. Un investimento di 48 euro per ciascun dipendente, per 1,02 giornate per ciascun dipendente. Poca cosa se dobbiamo aumentare le competenze e le conoscenze in un sistema amministrativo a complessità elevata, in un sistema economico e sociale in fortissima evoluzione.

La collaborazione che manca

Non ci sarà attenzione ai suoi impiegati né formazione che basterà però se le amministrazioni non impareranno ad essere aperte e capaci di collaborare con il mercato, il Terzo Settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte ed essere parte della loro realizzazione[2]. L’obiettivo di un’amministrazione condivisa non è infatti un argomento (solo) di convegni, ma deve essere la stella polare di ogni vera innovazione. La partecipazione è infatti uno dei veicoli principali per combinare i saperi dei grandi centri di competenza e dei saperi diffusi nei territori e per disegnare quindi politiche a misura delle “persone nei luoghi”. E’ su queste basi che può ricostruirsi la fiducia del cittadino nelle istituzioni e nel Governo. La nuova amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione condivisa e adeguata a collaborare su un piano paritario riuscendo così a innovare il tradizionale modello dei processi deliberativi e attuativi. Investendo continuamente su nuove sperimentazioni e nuove governance, che superano i tradizionali approcci dando più potere alla società civile e rendendo più flessibile l’azione pubblica.

Serve, insomma, un più profondo coinvolgimento della società sia nella fase ascendente delle strategie – come ora nel disegno del Piano Ripresa e Resilienza – sia nella fase di realizzazione delle iniziative, ricorrendo sistematicamente alla co-programmazione e co-progettazione e cercando di fronteggiare l’incertezza attraverso sperimentazioni e continui aggiustamenti. Perché questo sia possibile è necessaria una nuova e coraggiosa politica di trasparenza e di collaborazione basata sulla condivisione dei dati e il loro uso pubblico.

Altrettanto importante è una nuova collaborazione che deve essere sperimentata con il mercato, le aziende private innovative, le società a capitale pubblico. Un primo passo fondamentale in questo senso è ripensare il procurement che vede ora il mondo pubblico giocare in difesa, attento soprattutto a non farsi male.

In questa area alcune riforme sono indispensabili. In questo momento la complessità e la lunghezza dei processi d’acquisto e una deplorevole corsa al ribasso nelle tariffe calcolate per i professionisti, tale da far tollerare una consapevole impossibilità a rispettarle, sono tra i principali ostacoli alla trasformazione digitale della PA. Il Codice degli Appalti, nato per altro rispetto all’acquisto di tecnologie e di servizi innovativi, deve essere rinnovato prevedendo specifiche norme per un settore che ha specifiche caratteristiche. L’adozione massiva in tutte le stazioni appaltanti di piattaforme tecnologiche per l’acquisizione delle domande, la messa in funzione definitiva della banca dati degli operatori economici, una coraggiosa riduzione dei centri di acquisto e una loro qualificazione, assieme all’introduzione di criteri reputazionali per la scelta dei fornitori, basati sulle esperienze pregresse sono solo alcuni dei radicali cambiamenti che speriamo ci porti che l’anno che ora comincia.

In conclusione

In questo articolo, che guarda al panorama dell’anno appena cominciato, non ho parlato dei task più noti quando si parla di pubblica amministrazione digitale e che costituiscono anche larga parte degli investimenti previsti dal Piano di Ripresa e Resilienza. Non ho parlato delle infrastrutture, della connettività, del necessario passaggio al cloud con la dismissione dei datacenter non sicuri. Non ho esaminato il tema della sicurezza, né della governance dei dati e dell’uso del patrimonio informativo pubblico per una vera interoperabilità che permetta il famoso principio “once only”.

Non ho neanche esaminato la qualità dei servizi pubblici che vanno rivisti nella corretta ottica di limitare al minimo la necessità per cittadini e imprese di rivolgersi all’amministrazione se non per veri servizi, che non sono certo i certificati, neanche fatti online.

Non ne ho parlato non perché non siano temi importanti, anzi decisivi per quel salto di qualità delle amministrazioni che auspichiamo, ma perché sono convinto che l’attenzione alle persone, il riequilibrio generazionale, la formazione e la collaborazione siano condizioni abilitanti, senza le quali qualsiasi successo tecnologico è destinato a rimanere senza conseguenze effettive sul funzionamento delle amministrazioni e quindi sullo sviluppo del paese.

___________________________________________________________________________________

  1. Circa lo 0,45% ossia meno di 12mila impiegati su 2.650mila. Fonte Conto annuale della RGS
  2. Cfr. per il tema partecipazione, ma anche per tutta l’impostazione dell’articolo l’appello di FPA – Forum Disuguaglianze Diversità – Movimenta “Se la PA non è pronta” https://www.forumpa.it/riforma-pa/un-appello-di-forumdd-movimenta-e-fpa-per-trasformare-la-pa/

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