economia cognitiva

Fake news, i meccanismi cognitivi che ci fanno cascare (tutti) nelle bufale

Per quale motivo le fake news trovano terreno fertile sui social e perché a caderci siamo più o meno tutti, non solo i laureati all’università della vita. Come funziona la mente nel crearsi un’opinione e quali sono le scorciatoie cognitive che ci inducono in errore. E, soprattutto, vediamo come immunizzarci dalle bufale

Pubblicato il 05 Dic 2018

Daria Grimaldi

docente di psicologia sociale delle comunicazioni di massa, Università di Napoli Federico II

fake-news

Quali sono i meccanismi che ci inducono a credere alle bufale (o come si dice ora… fake news) e come possiamo immunizzarci? Perché sui social, spesso, l’ignoranza sembra avere la meglio sulla preparazione, gli incompetenti vincono sugli esperti? E, soprattutto, sfatiamo un mito: a cadere nel circolo vizioso delle fake news non sono soltanto le persone con scarsa cultura o un basso livello d’istruzione. Ecco quindi quali sono i meccanismi che ci fanno cadere in errore.

Perché crediamo alle fake news?

“Sembra che FB abbia un nuovo algoritmo che sceglie le stesse persone (circa 25) che leggeranno i tuoi post. Dicono che, per aggirare questo, occorra postare questo messaggio (facendo “copia” / “incolla”) e invitare i lettori a lasciami un commento veloce, un ‘buongiorno’, un adesivo, o altro. Dopo di che, chi lo avrà fatto dovrebbe apparire nella mia sezione notizie”.

Quanti di voi hanno visto questo post girare sul proprio news feed?

Probabilmente non pochi. Forse qualcuno l’ha persino condiviso.

Più o meno per la stessa ragione per cui ventuno milioni di utenti – fra like e condivisioni su Facebook – hanno creduto che Barack Obama avesse vietato di giurare fedeltà alla bandiera.

Perché accade? Perché ogni volta che leggiamo qualcosa sul social che frequentiamo più assiduamente o ci arriva una catena via whatsapp da un amico, la nostra prima reazione è crederci.

Non importa quanto siamo colti e preparati. Se una notizia ci arriva da una persona fidata, noi come prima reazione, ci crediamo, punto.

Può sembrare controintuitivo, visto che tendenzialmente ci consideriamo esseri molto intelligenti, ma è un processo innato della nostra mente. Ci fidiamo e lo facciamo essenzialmente per una pratica questione di “economia cognitiva”: per risparmiare sforzo e tempo.

Ritenere implicitamente che qualcun altro abbia già vagliato l’informazione al posto nostro, riduce notevolmente il nostro carico cognitivo, libera spazio nella nostra mente già oberata da milioni di informazioni da gestire nel quotidiano.

Sia chiaro, questo prescinde da quanto sia attendibile o meno la notizia: noi siamo portati a credere inconsciamente a ciò che leggiamo, a maggior ragione se riteniamo la fonte sufficientemente credibile.

Questo è il motivo per cui le fake news trovano terreno fertile sui social network, avvantaggiate da due fattori:

  • sono costruire ad hoc per attirare l’attenzione e generare un arousal
  • sono propagate all’interno di una rete di “amici”, rete che per sua natura ha un pregiudizio positivo di affidabilità.

Ripetiamocelo spesso: questo processo non risparmia nessuno, a prescindere dalla cultura, dal livello di istruzione ed intelligenza.

Se qualcuno resta immune è o perché ha una reale competenza sul contenuto o perché è personalmente molto motivato al “fact checking”. Tertium non datur.

L’economia cognitiva

Facciamo un passo indietro per capire essenzialmente come funziona la nostra mente nel crearsi un’opinione, dentro e fuori la rete.

Pur semplificando molto un processo complesso, diciamo che per validare le informazioni che provengono dal mondo esterno, generalmente utilizziamo delle scorciatoie cognitive, tra cui spicca l’operato delle “euristiche”.[1] Nome complesso per un processo facile: una sorta di intuizione che ci aiuta a prendere velocemente decisioni nella nostra vita quotidiana. Faccio o non faccio like, commento o meno, accetto una amicizia o la rifiuto, tra le altre cose.

Tecnicamente le euristiche sono scorciatoie cognitive che semplificano la nostra elaborazione della realtà ed aiutano il nostro cervello a non sovraccaricarsi. Si basano, su teorie implicite che la nostra mente costruisce in base all’esperienza, alla cultura ed alle relazioni quotidiane e prende per assodate.

Prendo la macchina ogni giorno ma evito l’aereo; condivido le notizie dal mio giornale preferito, non mi fido di un’altra testata; ritengo più sicuro comprare la frutta al supermercato o dal fruttivendolo. Sembra facile. Scelte immediate e apparentemente semplici che prendiamo ogni giorno quasi come se non fossero vere e proprie decisioni. Con tutte le migliaia di notizie, immagini, post e – più in generale – stimoli che abbiamo in rete quotidianamente, sarebbe impossibile districarsi se non potessimo utilizzare questa capacità selettiva.

Il problema è che questo stesso meccanismo, che offre al nostro cervello un vantaggio competitivo – e pur ci salva dal sovraccarico informativo quotidiano – ci porta con estrema facilità a commettere errori di valutazione: quelli che chiamiamo Bias.

Il funzionamento proprio delle euristiche comporta che per elaborare velocemente una notizia ci avvaliamo essenzialmente della disponibilità di informazioni che abbiamo su quell’evento (processo data-driven). Ciò comporta che i nostri giudizi siano formulati in base alle informazioni e conoscenze di cui disponiamo, materiali cognitivi accessibili in memoria che riflettono le nostre esperienze in forma agevole ed essenziale e, dunque, comunicabile. Se non abbiamo competenza o esperienze dirette o se queste sono decisamente limitate, utilizzeremo come bagaglio la salienza che su quel tema ci offrono i media (o i nostri opinion leader). Un esempio banale è il tema delicato ed attuale relativo agli immigrati: in assenza di conoscenze personali e competenti sulla questione, se sento spesso che rubano il lavoro, sono dediti alla criminalità e portano malattie, questa informazione diventerà per me un dato di realtà su cui costruirò (nel bene o nel male) il mio giudizio sugli eventi futuri. Così quelli che si comportano bene saranno una eccezione alla regola, quelli che si comportano male una conferma della stessa.

Ovviamente, per noi una notizia sarà tanto più vera o tanto più rilevante se ne abbiamo sentito parlare molto o da molti, oppure se è qualcosa che abbiamo già sentito dire a persone di cui ci interessa molto l’opinione.

Accadrà, quindi, che utilizzeremo i nostri personali stereotipi per validarne l’attendibilità. Se una notizia ci sembra verosimile rispetto agli standard che abbiamo in mente questo sarà sufficiente per considerarla attendibile.

D’altronde, i nostri giudizi sono formulati in base alle informazioni e conoscenze di cui disponiamo, materiali cognitivi accessibili in memoria che riflettono le nostre esperienze in forma agevole ed essenziale e, dunque, comunicabile.

Il ruolo degli strumenti

I mass media sono una fonte primaria di dati accessibili nelle comunicazioni interpersonali: ad esempio, quando ci esprimiamo sulla frequenza di eventi catastrofici, delitti e malattie o enunciamo la gerarchia delle cose che ci preoccupano siamo influenzati dalla quantità di volte che abbiamo sentito parlare di questi eventi, ritenendoli, per questa ragione più probabili (agenda setting).

Ad oggi quello che un tempo era “lo ha detto il Tg” è diventato “l’ho letto su Facebook”, con il progressivo spostamento dell’agenda all’interno della rete.

In generale tendiamo ad organizzare ed integrare coerentemente opinioni e giudizi in un sistema quasi-stazionario e dunque pur sempre dinamico. Ogni giudizio espresso diventa un punto di ancoraggio per ogni ulteriore giudizio correlato.

Su queste premesse agisce l’euristica dell’ancoraggio/accomodamento, dal momento che i dati per noi più salienti, diventano il punto di riferimento per valutare tutte le nuove informazioni.

Sarebbe veramente complicato valutare, di tutte le informazioni, ogni dettaglio, per cui le euristiche sono valide alleate nella nostra selezione quotidiana. Il problema è che il frutto del loro funzionamento, non del tutto attendibile, è la base su cui costruiamo buona parte delle nostre opinioni e dei nostri commenti online, già a sua volta semplificato dal processo dell’agenda setting.

I mass media – ed oggi in maniera sempre più prepotente i social media – definiscono quella selezione di notizie che ha il potere di focalizzare l’attenzione del pubblico su un limitato numero di temi che vanno a formare l’opinione pubblica.

Negli ultimi mesi all’opinione sono interessati più gli sbarchi degli immigrati che le guerre di mafia, solo perché nell’agenda la prima notizia era più presente. Ma l’opinione pubblica siamo noi, così sulle nostre bacheche online e nelle nostre interazioni quotidiane irrompe il tema facendocelo sentire particolarmente rilevante.

Tutti i nostri altri giudizi si collegheranno a questo.

La differenza sostanziale rispetto al passato – pur semplificando moltissimo il discorso – è che oggi pubblico e privato sono intrinsecamente mescolati e una notizia di cronaca compare tra un meme, una foto al mare e l’ultima uscita tra i colleghi.

Il livello di approfondimento con cui si partecipa a ciascuno di questi “eventi comunicativi” appare sempre più inquietantemente omogeneo: così farò like alla foto di vacanze del mio amico e dopo un secondo alla notizia del terremoto nelle marche.

Questo non vuol dire che mi piaccia realmente l’inquadratura o il soggetto della foto, né tantomeno che sia felice del terremoto. Il mio like (o più genericamente il feedback) a queste informazioni è prevalentemente un mero segno di partecipazione a quello che accade della mia bolla; è un atto di presenza, che ha l’obiettivo di non farmi sentire fuori dal gruppo, dagli eventi e dalle interazioni.

Informazione verticale e orizzontale

Inoltre, l’agenda setting si complica ulteriormente giacche all’informazione ufficiale, quella che arriva dai mass media – che Shaw (2016) definisce verticale – si va ad integrare con quella orizzontale, generata dalla rilevanza che queste notizie hanno per gli “algoritmi social” di ciascun utente: ognuno sulla propria bacheca avrà un’ulteriore selezione generata da commenti e condivisioni di quella notizia da parte della sua propria community.[2]

In più, la proprietà stessa delle notizie maggiormente virali è la reiterazione, che a sua volta ha un ruolo determinante nel giudizio di credibilità di un’informazione: secondo Gord Pennycook, psicologo che ha studiato la diffusione della disinformazione alla Yale University, quanto più sentiamo ripetere una notizia tanto più aumentano le probabilità che diventi per noi reale.

In tal senso, dinanzi ad una notizia dotata di viralità intrinseca (come le fake news), che attiva l’arousal dei lettori (quindi la spinta ad agire con un like, un commento o una condivisione), anche qualora si tenti di correggerla, resterà nella memoria la notizia molto più incisivamente della correzione (rettifica) apportata alla stessa.[3]

Detto ciò abbiamo compreso come fanno alcune notizie ad attirare la nostra attenzione e beneficiare della nostra credibilità. Il punto è perchè da qui, spesso, diventiamo difensori fin troppo accaniti, addirittura violenti, di una determinata opinione o notizia, nonostante sia inattendibile?

Il bias di falso consenso e conformismo sociale

Una volta che le nostre euristiche ci hanno portato a costruire un giudizio su su un evento, accade spesso che siamo portati a proiettare sugli altri il nostro modo di pensare, convincendoci che tutti la pensino come noi. In questo modo incappiamo in un noto errore cognitivo: l’effetto del falso consenso.

Questo processo è estremamente diffuso nei gruppi ed è alla base del conformismo sociale.

Chiaramente questa presunta omogeneità di idee è statisticamente infondata, ma fuorviata da un pregiudizio di consenso rispetto alle nostre convinzioni: all’interno del gruppo crediamo che le nostre opinioni siano generalmente più diffuse tra il pubblico di quanto non siano realmente.

Come un pesce rosso viviamo all’interno della nostra bolla social convinti che il mondo inizi e finisca al suo interno. Il principio di quantità che accompagna la diffusione delle informazioni in rete avalla ulteriormente il bias di falso consenso, attraverso l’associazione fuorviante che il gran numero di persone che condivide una notizia è di per sé prova sufficiente della sua attendibilità.

A questo concorre, inoltre, il principio dell’ignoranza pluralistica. [4]

Quando ci si confronta con un comportamento diffuso in un gruppo, come può esserlo la condivisione di una notizia, ciascuno pensa che gli altri abbiano più informazioni. In questo modo le persone osservano il comportamento altrui per regolare il proprio, senza riflettere sul fatto che ciascuno utilizza la medesima strategia.

Così, se molte persone hanno condiviso la notizia ciascuno procederà a fare lo stesso.

Come rinunciare, sollecitati dalla nuova routine della partecipazione, a presenziare con la propria opinione, anche infondata ed incompetente, al dibattito collettivo?

Mai discutere con gli imbecilli

L’ormai noto effetto Dunning-Kruger ci spiega perfettamente il proliferare di esperti “laureati all’università della vita” che sui social non lesinano approfonditi commenti ed analisi sui temi più disparati: dall’ingegneria strutturale con la caduta del ponte Morandi, alla medicina infettiva nelle questioni relative ai vaccini, solo per citare esempi noti.

Sui social questa distorsione prolifera e l’incapacità metacognitiva da parte di chi non è esperto di riconoscere i propri limiti ed errori, diventa irrilevante dinanzi alla possibilità di partecipare alla Res Publica anche solo per il tempo di un commento, per affermare con supponenza il proprio diritto ”democratico” ad esprimere la propria opinione.

Il risvolto di questo effetto, per converso, è che chi è realmente competente, potrebbe produrre la distorsione inversa: consapevole della complessità di un tema sarebbe più propenso a mettersi in discussione e più disponibile a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio.

Tutti conosciamo il famoso adagio: non metterti a discutere con un imbecille perché il mondo potrebbe non riconoscere la differenza. Così, per evitare lunghe e noiose conversazioni da cellulare, l’esperto potrebbe evitare di intervenire lasciando ai tanti webeti spazio e credibilità social.

Diviene quindi più probabile che gli incompetenti invadano la rete delle proprie dissertazioni e gli esperti restino ai margini del dibattito, sia per la difficoltà oggettiva ad argomentare con persone accecate dalla propria hybris, ritrovandosi in uno sterile flusso di discomunicazione; sia per effetto di quella che quella che la Noelle-Neumann chiamò la spirale del silenzio.[5]

Qualora per qualche ragione non ci lasciassimo convincere del tutto, saremmo più propensi a non rivelare la nostra reale opinione. Applicando lo studio classico sul tema ai social media si è individuato un incremento della spirale del silenzio online: ciascun utente percepisce di avere un’opinione minoritaria, rispetto alla rete dei propri contatti, decide di non esprimerla in percentuali maggiori che nella vita reale. [6]

Una soluzione per immunizzarsi dalle fake news

Come ogni problema, se è tale ha almeno una soluzione. Per immunizzarsi dalle fake news si può utilizzare il “fact checking professionale”: affidare la validazione delle notizie a persone competenti o a fonti affidabili. In generale, se non si ha una competenza specifica, sarebbe opportuno mantenere una saggia e dignitosa riserva sui fatti finché non si è potuto verificarli.

Comunicare ad utilizzare buone prassi nella comunicazione online, ad oggi, è uno strumento attivo e militante di impegno sociale, ma è fondamentale comprendere che ciò che va modificato è a monte il processo di scarsa comprensione della realtà, dell’ appiattimento culturale che segue la sfiducia verso la competenza, che ha trovato nella rete una discutibile agorà di incompetenti, inconsapevolmente protagonisti delle strategie di Mass Interpersonal Persuasion di abili utilizzatori della propaganda digitale.

_______________________________________________________

BIBLIOGRAFIA

  1. In senso esteso, le euristiche si identificano con le regole generali che gli individui seguono per pervenire – in modo rapido ed efficiente – a formulare giudizi valutativi ed a giungere acerte conclusioni sulla base di determinate premesse. (Smiraglia, 2009)
  2. Shaw D. L. et alii, The_Agenda_Setting_in_the_Digital_Age_How_We_Use_Media_to_Monitor_Civic_Life_and_Reframe_Community, Jordan Journal of Social Sciences, Volume 9, No. 1, 2016
  3. Putnam, A.L., Sungkhasettee, V. & Roediger, H.L. (2017). When misinformation improves memory: The effects of recollecting change. Psychological Science, 28(1), 36-46.
  4. Taylor D. G. (1982), Pluralistic Ignorance and the Spiral of Silence: A Formal AnalysisPublic Opinion Quarterly, Volume 46, Issue 3, 1 January 1982, Pages 311–335
  5. Elisabeth Noelle-Neumann (1984), The Spiral of Silence – (PDF) Premessa all’edizione italiana del 2002
  6. Social Media and the ‘Spiral of Silence’ – PEWResearch Internet Project August 26, 2014

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