giudizi e pregiudizi

Reputation economy: l’influenza del passaparola digitale (e quanto costa alle aziende)

Nell’epoca in cui il passaparola è diventato digitale e ha preso la forma della “temutissima” recensione online, un giudizio negativo si trasforma presto in una bufera le cui conseguenze spesso sfuggono di mano se non vengono gestite con piglio professionale. Ecco perché avere una buona reputation è un asset fondamentale

Pubblicato il 28 Giu 2021

Marco Aurelio Cutrufo

E-Reputation Manager & Founder Personal & Brand Reputation, Workengo

consumatori_ telco

Le parole hanno un peso, anche e mai come ora quelle pubblicate in rete.

Siamo infatti nel pieno della reputation economy, in cui l’economia di mercato viene regolata dalle conversazioni attorno ad un brand / prodotto/ servizio.

Tali conversazioni conformano nella psicologia del consumatore e dei portatori d’interesse giudizi che si trasformano in pregiudizi e che per vie dirette ed indirette, regolano il valore della domanda e dell’offerta a colpi di bit.

Ma perché accade ciò? Qual è la correlazione fra valore economico e reputazione?

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Il valore della reputazione

La reputazione è la considerazione in cui si è tenuti dagli altri; quello che dicono di te quando esci dalla stanza; la previsione dell’esito di una relazione che ancora deve avvenire.

Qualsiasi soggetto ed oggetto che può essere considerato buono o cattivo, positivo o negativo, raccomandabile o no possiede una reputazione da difendere: un’azienda, un prodotto, una persona, un’associazione e così via.

Non esiste una sola reputazione ma molteplici reputazioni per ogni soggetto.

Ciò dipende dal fatto che esistono infinite reputazioni relative presso ogni specifico pubblico di interesse, ovvero in base al punto di vista.

Ad esempio, Amazon ha un altissimo valore presso i clienti ma discutibile presso i dipendenti ed i sindacati.

Quando si parla di Reputazione aziendale ci riferiamo alla percezione condivisa sul marchio, organizzazione, i prodotti e servizi, attributi specifici legati al brand ed al suo mondo di valori comprese le persone che lavorano all’interno e che lo rappresentano.

I componenti che sono in grado di influenzare l’economia basata sulle conversazioni sono sicuramente i media tradizionali che da sempre hanno dettato l’opinione pubblica guidando ed ispirando l’agenda politica e sociale di tutti i giorni; ma anche internet ormai la fa da padrone con i suoi nuovi linguaggi di comunicazione, format, canali, algoritmi di diffusione e connessione con le persone che infine compongono il mercato.

Per mettere a fuoco il cambiamento basta soffermarsi sulle seguenti statistiche:

  • secondo la ricerca Adecco del 2019 Il 44,1% dei recruiter dichiara di aver scartato un candidato sulla base delle informazioni trovate in rete; quindi, della sua web reputation (reputazione digitale).
  • In Cina dal 2020 è partito “il sistema del credito sociale” ovvero un modello di gestione della società che assegna un punteggio reputazionale per ciascun cittadino che in base al proprio comportamento godrà di vantaggi (agevolazioni su mutui) o subirà svantaggi (sospensione di internet oppure impossibilità di accedere alle scuole migliori oppure di prendere i mezzi pubblici e molto altro).
  • Se ciò non bastasse a comprendere che la reputazione web ormai conta e decide la qualità della vita di persone ed aziende, prendiamo ad esempio AirBnB che ha brevettato un algoritmo che analizza la reputazione dell’ospite per fare i match con i proprietari di casa.

Il Social Credit System cinese: un esempio di big data al servizio del potere

Dunque, per ricapitolare, la Reputation Economy, termine coniato per la prima volta dal World Economic Forum, descrive la maggiore presenza delle dinamiche di mercato che mettono sempre di più in diretta relazione il valore economico di un soggetto e lo stesso passaparola (spesso digitale) su quest’ultimo con evidenti conseguenze nella realtà, oltre che in alcuni casi specifici, nel valore azionario in borsa delle società quotate.

Reputazione come futuro

Come suggerito nel libro “Reputation economy” di Michael Fertik e David C. Thompson, la reputazione è una vera moneta di scambio o meglio la moneta del futuro (es. di bitcoin della credibilità) del futuro e per questo deve essere costruita giorno per giorno e gestita al meglio, difendendola nei momenti di crisi.

Un buon pagatore può ottenere un prestito da una banca più facilmente; dunque, può permettersi il futuro grazie alla credibilità costruita giorno per giorno e dunque l’affidabilità prodotta da una reputazione positiva, come fanno i governi quando devono invogliare i compratori ad investire nei titoli di stato.

Reputazione come passato

Fin dai tempi antichi la reputazione era un’arma, uno scudo, che oggi chiameremo asset aziendale, utilizzato per far succedere o fallire una negoziazione.

Le legioni romane avevano la reputazione di essere invincibili in guerra ed il solo tremore della terra all’avvicinarsi sul campo di battaglia, mieteva vittime e disertori fra gli avversari nemici ancor prima di combattere. Durante il medioevo la chiesa utilizzava la religione per destituire o delegittimare un regnante inventando o mettendo alla luce pratiche considerato “da non fedele”, eresie che facevano comodo per fare sembrare un re poco cattolico e dunque destare scalpore e provocare totale sfiducia presso i nobili ed il popolo cattolico della propria nazione.

Perché una buona reputazione è un asset fondamentale

Dunque, il grado di reputazione è assimilabile al livello di potenza, esistenza, di persuasione, influenza, difesa ed attacco in un sistema di più soggetti.

D’altronde l’intera esistenza dell’uomo è una continua negoziazione tra persone, interessi, volontà, principi, domanda ed offerta.

Poter negoziare bene o male dipende sempre dalla forza contrattuale di cui si dispone e si è accumulata nel tempo.

Avere una reputazione netta ed estesa equivale ad avere un’aura di possibilità che per certi versi è in grado di precederci, dando vigore o sottraendo forza al nostro potere contrattuale.

Convincere qualcuno a firmare un accordo, vendersi a un maggior prezzo sul mercato, pagare meno i dipendenti in virtù di altri benefici e di un passaparola positivo, è ormai un asset fondamentale.

Ad esempio, esiste l’employer branding che serve alle aziende, proprio per creare un ambiente lavorativo attrattivo, calamita più accattivante per far avvicinare i talenti, senza dover pagare necessariamente salari molto grandi e di conseguenza, contendersi le migliori risorse umane secondo logiche estremamente competitive.

In un mercato economico gli attori in gioco sono:

  • le aziende che vendono soluzioni e competono tra loro
  • le persone ed altre aziende che comprano soluzioni per i propri bisogni

Questi attori, come in tutti i sistemi, si influenzano vicendevolmente secondo precise modalità.

Le aziende subiscono e cercano di dominare la percezione che i consumatori hanno sul marchio, i prodotti e servizi.

I consumatori, ormai sul web chiamati utenti, subiscono la percezione condivisa delle aziende ma con l’aggiunta di poter diventare recensori e co-creatori di questa percezione e più avanti vedremo perché.

Provando a spiegarlo in termini più semplici, le aziende vogliono ottenere credito, costruendo relazioni di fiducia con i propri stakeholder (pubblici d’interesse) e gli utenti cercano e comprano chi con il tempo ne ha acquisito di più, dimostrando di aver raggiunto lo status di “affidabile”; se sei un’azienda affidabile i consumatori tenderanno a ritenerti “raccomandabile”, più l’azienda viene raccomandata e consigliata e maggiormente diventerà autorevole nel settore e dunque competitiva ed in grado di acquisire quote di mercato da sottrarre ai concorrenti.

Cos’è che rende un marchio credibile?

Generalmente essere degni di fiducia è il primo tassello per instaurare un rapporto fra l’azienda e il suo cliente; la coerenza che c’è fra l’aspettativa creata dal marketing e dalla pubblicità deve coincidere con ciò che è l’esperienza della soluzione provata dal consumatore.

Come in una relazione tra persone i valori sono le leve fondamentali che possono creare attrattività e coesione: onestà, trasparenza, affidabilità, coerenza, qualità, utilità, convenienza, personalizzazione.

Il consumatore quando decide di comprare un prodotto o servizio, vuole risolvere un problema o soddisfare un bisogno che l’azienda sa risolvere.

Quando il cliente acquista, compie un atto di fiducia “io scelgo te e non altri, perché mi ispiri fiducia e per dimostrarlo pago pegno in cambio della tua soluzione e garanzia”.

Ma come fa il “bisognoso” a decidere cosa acquistare in un mercato pieno di soluzioni simili ed alternative fra loro?

Processo decisionale ed automatismi bias

Nella reputation economy, le informazioni si trovano soprattutto online sotto forma di video, immagini, testimonianze/recensioni, post sui social media, articoli di giornale e blog di settore, siti web ed influencer con la loro propaganda. Infatti, più del 70% delle persone utilizza il web tramite un motore di ricerca per risolvere bisogni quotidiani, divenendo la prima fonte di informazioni (ad esempio: “ho male alla schiena cosa devo fare”, “hotel Firenze 4 stelle recensioni”, “dove mandare mio figlio a scuola”, “come si dice buongiorno in Giapponese” e così via).

Più dell’81% degli utenti decide di perfezionare i propri acquisti consultando le recensioni e testimonianze di altri utenti sul web (Hubspot). Parliamo di un processo primordiale, ovvero quello decisionale che ad oggi avviene prevalentemente online.

Tutto nasce da un bisogno da soddisfare, come ci insegna lo psicologo Abraham Maslow con la sua teoria di una piramide dei bisogni (1954) che si dividono in fisiologici, sicurezza e protezione, appartenenza, stima, realizzazione del sé.

Il marketing e la psicologia dei consumi hanno plasticamente individuato il processo che il consumatore segue ogni volta prima di fare un acquisto.

Perché siamo schiavi delle influenze e del passaparola

Le informazioni permettono di valutare quale può essere considerata la scelta di consumo migliore.

Prima dell’avvento di internet l’individuo si muoveva alla ricerca di informazioni nel mondo analogico scegliendo come prime fonti la famiglia e gli amici / conoscenti (es. “tu che telefono hai? quale mi consigli?”) e solo in seconda battuta i tecnici (ad esempio il venditore di telefoni).

Perché la famiglia e gli amici? Per istinto di autoconservazione.

Gli automatismi del cervello ci portano a trovare fonti apparentemente affidabili, sicure, prossime e per certi versi siamo letteralmente schiavi delle influenze e del passaparola provenienti dalle nostre cerchie più strette che sono facilmente raggiungibili.

Il paradosso è che al fine di prendere la decisione finale con serenità, le informazioni che raccogliamo devono apparirci attendibili ma non devono essere realmente tali.

Un esempio potrebbe essere il nostro genitore che ci consiglia in tutti i modi di fare l’avvocato invece del programmatore informatico.

Non è detto che egli sia competente o che abbia svolto una ricerca di mercato completa sulle opportunità di lavoro reali da consigliare da qui a 20 anni, ma la fonte appare autorevole e di fiducia, dunque convincente.

Da qui entra in gioco la caratteristica dell’autorevolezza della fonte che ci propina l’informazione.

Infatti, un soggetto costruisce la sua reputazione non solo in base alla quantità di persone che lo consigliano ma anche in base all’autorevolezza di chi lo consiglia.

Effetti collaterali di una scelta di consumo andata male

Fra gli automatismi del nostro complesso sistema neurologico ci sono alcuni effetti collaterali che il 99,9% delle persone ignorano coscientemente ma che inconsciamente conoscono.

Infatti, il nostro cervello quando deve processare informazioni per partorire delle decisioni, si sforza parecchio perché cerca di riassumere le infinite informazioni per interpretare in modo corretto la realtà, dunque si serve di semplificazioni che gli permettono di lavorare senza sovraccaricarsi come ad esempio: i pregiudizi, assiomi, preconcetti, teorie, stereotipi.

Questo processo necessario ci porta verso i cosiddetti bias cognitivi o distorsioni della realtà ( qui i 200 bias più famosi ).

Un esempio attuale è quello del “base rate effect” (o fallacia del tasso di base) applicato al vaccino AstraZeneca.

Su pochi casi di incidenti mortali, si sono creati pregiudizi fortissimi avendo la percezione del pericolo più esteso di quello che è a livello numerico, provocando diserzione agli appuntamenti per le somministrazioni delle dosi.

Il sopra citato bias viene tecnicamente descritto così: “Tendiamo ad ignorare le informazioni generali (ad esempio, le statistiche) e ci concentriamo invece sulle informazioni che riguardano casi specifici, anche quando – invece – le informazioni generiche sono più rilevanti.” (fonte:www.hce.university)

Per il nostro cervello e per istinto di sopravvivenza sbagliare la risposta vuole dire fallire e non sopravvivere e per questo quando accade l’errore, il cervello si comporta in due modi per scaricare l’ansia fisiologica:

  • ignora a livello conscio di aver errato e si autoconvince in tutti i modi di aver fatto la scelta giusta, omettendo a sé stesso la verità (esempio classico è la negazione totale o parziale della realtà che a volte sfocia persino nella patologia)
  • ammette che la scelta è quella sbagliata ma deve scaricare la colpa su fattori esterni (il cosiddetto capro espiatorio) a costo di trovare giustificazioni marginali al limite del ridicolo, pur di non ammettere un’errata valutazione della realtà.

Cosa c’entra tutto questo con l’economia della reputazione digitale

Il punto è che oggi il consumatore percepisce più che mai in modo distorto la realtà e il mondo di internet sfrutta i nostri bias cognitivi per darci ciò che vogliamo e non propriamente ciò esiste.

Infatti, il consumatore è diventato utente di prodotti e servizi digitali, utilizza il passaparola digitale per raccogliere informazioni prima dell’acquisto e sfoga il suo stress secondo gli stessi automatismi, scrivendo recensioni, commenti che a volte sfociano anche nella diffamazione ed ingiuria.

In questo tipo di economia, più dell’85% dei consumatori crede alle recensioni come fossero consigli di amici e parenti (Bright Local) ed 8 persone su 10 non sanno distinguere una informazione vera da una falsa.

Inoltre, secondo il World Economic Forum la reputazione aziendale rappresenta almeno il 25% del market value dell’azienda stessa, in altri termini, il fatturato ed il valore dell’azienda è rappresentato da quello che le persone pensano, percepiscono e dicono sul brand.

È un’epoca che nasce con l’avvento di strumenti come i motori di ricerca, social network, app, i quali hanno preso il sopravvento nelle abitudini dei consumatori, di fatto cambiando completamente interi usi e costumi.

L’esempio della gig economy

Un esempio di business model basato sulle dinamiche della reputation economy, è quello collegato alla cosiddetta gig economy”, ovvero, la tipologia di azienda, sempre più diffusa, che media la compravendita di prodotti e servizi, tramite app digitali; queste permettono all’utente consumatore, di scegliere cosa comprare ed esprimere votazioni pubbliche sulla propria esperienza, servendosi del sistema delle recensioni online.

Queste testimonianze pubbliche a loro volta influenzano costantemente i trend di consumo ed insieme ad altri fattori reputazionali, decidono il successo o il fallimento di un’azienda.

Fra le più note aziende pioniere, conosciute in tutto il mondo, ci sono: AirBnb, Uber, Amazon, TripAdvisor, Deliveroo.

In un mondo dove un’azione complessa può essere eseguita per gioco con un click (vedi la bambina che ha comprato un divano all’insaputa dei genitori), l’immagine o percezione digitale, diviene sempre più importante se non tutto ciò che conta nelle gran parti di negoziazione fra azienda e cliente.

Ne è un esempio l’invasione delle logiche del marketing digitale, avanzato in ambienti insospettabili come la politica e la religione.

Tweet, social media, sentiment analysis, big data, sono ormai pane quotidiano per aziende, politici, governi, media per scoprire una sola cosa: cosa si dice su un determinato argomento per influenzare la percezione dei pubblici di interesse e spingerli verso comportamenti precisi.

Cattiva reputazione: quanto costa alle aziende

Avere una reputazione negativa può costare molti soldi in pochissimo tempo.

È il caso di Deliveroo che, in 24 ore, ha visto cadere in picchiata la quotazione in borsa marzo perdendo circa 30 punti percentuali nella Borsa di Londra per motivi finanziari ma sorprendentemente anche e soprattutto per ragioni reputazionali.

Infatti per gli investitori l’azienda è stata riconosciuta come modello “Socialmente non accettabile”; Il Sole 24Ore lo ha etichettato come “debutto da brividi” ed in effetti lo è stato.

Nello specifico la perdita di valore era dovuta alle polemiche dei riders a cottimo, che hanno protestato nelle città per denunciare una situazione di trattamento di lavoro inadeguata e non sostenibile da ogni punto di vista.

Dunque, il passaparola negativo attraverso i media, ha fatto fare inversione di marcia agli investitori i quali sono fedeli ai progetti imprenditoriali sostenibili nel lungo periodo.

Di problemi simili ne soffre anche Amazon, infatti è montata la polemica in tutto il mondo sulle condizioni di lavoro dei dipendenti che pur di fare le consegne in tempo, a volte sono costretti a “fare pipì nelle bottiglie”.

Portali di recensione e attività economiche

A ragion veduta, le aziende devono essere attente a come strutturano il business ed al coinvolgimento sano di tutti gli attori in gioco e degli stakeholder, ma non è solo in borsa che le società possono acquisire o perdere valore per ragioni di pessima reputazione.

Infatti, da ultimo sono le piattaforme di recensioni a mettere a volte alle strette aziende piccole, medie e grandi.

Per fare degli esempi, nel mondo del turismo si sono sviluppate le OTA le Online Travel Agencies, ovvero portali turistici che rappresentano l’offerta in termini di ospitalità, proponendo le strutture ricettive con l’effettiva disponibilità e le tariffe aggiornate.

Le più conosciute sono Booking, Expedia, Hotel.com, Agoda, AirBnB.

Le OTA vengono prescelte come canale di vendita perché capaci di incanalare grandi traffici di clientela senza dover investire in un marketing “fatto in casa”.

Fra le varie funzionalità di queste piattaforme, c’è la possibilità data all’utente consumatore, di lasciare una recensione sulla struttura utilizzata.

Ecco che ogni struttura ricettiva ad oggi possiede un rating da 1 a 5 stelle, indicatore ormai che guida letteralmente la scelta dei clienti in tutto il mondo.

Anche nel settore della ristorazione esiste lo stesso sistema ed è un mondo popolato da app come TripAdvisor, Yelp, The Fork.

Le attività commerciali, i liberi professionisti, le aziende possono essere recensite su Google My Business, oppure si siti specifici per professione come Prontopro, TrustPilot.

Come è naturale pensare, a tutti piacciono le recensioni positive ma cosa accade quando un hotel, un negozio, un professionista, un’azienda riceve una recensione negativa?

Studi dimostrano che 1 passaparola negativo è in grado di far perdere dai 7-9 potenziali clienti, contro il passaparola positivo capace di attirare 2-4 clienti, ma se passiamo dalla dimensione analogica a quella digitale questi numeri diventano ancora più significativi nella loro caratteristica di influenzare direttamente i comportamenti di acquisto e decisione.

Una recensione negativa può precludere dai 9 ai 15 clienti.

Per questo è necessario un vademecum su come gestire in modo professionale le recensioni online, soprattutto le negative.

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