La prospettiva che la guerra commerciale Stati Uniti-Cina continui nel lungo periodo costituisce una seria minaccia per l’economia globale, già da tempo indebolita.
Si profila il rischio di una separazione delle catene di approvvigionamento, con ciascuna che ruota attorno alla propria orbita.
L’ultima notizia in tal senso è un’accelerazione del conflitto.
L’amministrazione Trump ha annunciato ieri il divieto per tutte le agenzie governative di acquistare apparecchiature di rete e telecomunicazione prodotte dalle cinesi ZTE, Huawei, Hikvision e Dahua a partire dal 13 agosto.
Il nuovo divieto, incluso nel National Defence Authorization Act (NDAA) ed approvato lo scorso anno, limita l’uso di denaro federale per l’acquisto di apparecchiature e servizi di telecomunicazione e apparecchiature di video sorveglianza definiti “covered”, rimandando a problemi di sicurezza nazionale. Il divieto si applica ad agenzie federali come il Dipartimento della Difesa, l’Amministrazione per i servizi generali e la NASA.
Lo scontro Usa-Cina
Da tempo, ormai, gli Stati Uniti stanno intensificando la loro pressione principalmente contro Huawei e ZTE, arrivando di recente a chiedere al Canada l’arreso di Meng Wanzhou (CFO di Huawei) con l’accusa – non ancora cristallizzata all’interno di un tribunale – che l’azienda cinese avrebbe venduto tecnologie all’Iran aggirando l’embargo imposto dagli USA. Washington ha ragione di sospettare che Huawei possa utilizzare la penetrazione del mercato occidentale delle sue tecnologie, in particolare quello del 5G, per prelevare informazioni sensibili e passarle, così, all’Esercito di Liberazione del Popolo e ai servizi segreti cinesi in modo da favorire la costruzione di un nuovo imperialismo di Pechino attraverso il mercato delle tecnologie.
Huawei, in risposta, ha sempre negato di essere una minaccia per la sicurezza nazionale, dichiarando che “continuerà a contestare la costituzionalità del divieto in tribunale federale”. Secondo la società cinese, le disposizioni previste dalla NDAA non sortiranno l’effetto desiderato, ossia garantire la protezione delle reti e dei sistemi di telecomunicazione statunitensi, ma rappresentano solo una barriera commerciale basata sul paese d’origine che invoca azioni punitive senza alcuna prova di comportamento errato, indebolendo – di fatto- le aziende statunitensi.
Il braccio di ferro commerciale tra Stati Uniti e Cina, iniziato il 23 Marzo 2018 quando Washington impose dazi del 25% e del 10% sulle importazioni dall’estero rispettivamente di acciaio e alluminio, si sta espandendo in diversi settori nevralgici dell’economia, condizionando i rapporti tra i due paesi. Il vero nodo della disputa, così come emerso dal recente G20 del Giappone, sono l’economia digitale e lo sviluppo delle nuove infrastrutture di comunicazione 5G.
Lo scorso agosto, il Presidente Trump ha annunciato – via Twitter – l’imposizione di nuovi dazi del 10% su 300 miliardi di merci cinesi che vengono importati dagli Stati Uniti a partire dal 1 settembre. Queste in aggiunta a quelle già imposte su 250 miliardi di dollari di importazioni, quasi la totalità dell’import cinese. Una decisione che di certo andrà a penalizzare le aziende cinesi fortemente dipendenti da fornitori americani.
Inaspettata mossa di Washington nella nottata, con il quale ha rinviato l’entrata in vigore di nuovi dazi del 10% sull’import cinese, inclusi cellulari, laptop e giocattoli, consentendo alla rete della grande distribuzione di fare scorte in vista del natale. Lo slittamento dall’1 settembre al 15 dicembre segue i contatti telefonici fra il vice premier cinese Liu He e il segretario del Tesoro americano Steven Mnuchin. I mercati hanno celebrato con rialzi la decisione americana.
La debolezza della Cina
Il tallone d’Achille del mercato cinese è costituito dal fatto che nella fabbricazione di semiconduttori non vengono prodotti chip di fascia alta, con la conseguenza che molte aziende tecnologiche cinesi fanno affidamento su forniture estere per i componenti cruciali (ad oggi si stima un import di chip intorno al 90%).
Un gap stimato in almeno 10 anni nella progettazione di chip di alta qualità ed ormai noto a Pechino, tanto da aver predisposto un programma decennale per l’avanzamento tecnologico del paese (vedi Grafico 1), “Made in China 2025”, volto al raggiungere entro il 2049 – a 100 anni dalla presa del potere da parte del Partito Comunista Cinese – la massima innovazione nei settori dell’Internet of Things, robotica e intelligenza artificiale, nonché la produzione “in casa” dell’80% dei componenti tecnologici di cui l’industria necessita.
Grafico 1: Obiettivi del Made in China 2025, Merics
I giganti della tecnologia possiedono catene di approvvigionamento incredibilmente complesse, dal momento in cui i componenti essenziali provengono da un numero di paesi relativamente piccolo.
Nel grafico di seguito, alcuni dei componenti chiave della supply chain di Huawei, incluse le risposte dei fornitori al divieto imposto dal governo americano.
La risposta della Cina
L’imposizione riguarda anche componenti di paesi terzi che contengono una significativa presenza di tecnologia o materiale statunitense, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’azienda cinese. In risposta all’ordine esecutivo recepito da Google, Huawei ha annunciato il lancio nel 2020 del proprio sistema operativo “Harmony”, basato su un microkernel che offre un’esperienza ottimale per tutti gli scenari, potendolo utilizzare su una vasta gamma di prodotti. L’economia americana sarebbe più forte se Google rientrasse nel mercato cinese, anche se con un motore di ricerca totalmente censurato. Il colosso cinese ha visto accelerare la crescita del proprio fatturato nel primo trimestre del 2019 (+39%), dopo che alcune divisioni cruciali sono riuscite a garantirsi le forniture necessarie alla produzione bypassando – temporaneamente – le restrizioni imposte dal governo americano all’export. Il secondo trimestre, invece, è stato caratterizzato da una decelerazione sino ad assestarsi al 30% nella prima metà del 2019.
Grafico 2: Supply Chain della Huawei, Eurasia Group
Nonostante la battuta d’arresto per Huawei, il governo cinese attraverso i fondi nazionali di investimento sta incentivando la creazione di un canale di fornitura alternativo così da poter sostituire, da qui a breve, i fornitori americani. Un obiettivo reso ancor più chiaro dalla visione che la Cina ha del proprio apparato militare.
Il recente White Paper sulla difesa nazionale rileva come tecnologie avanzate quali l’intelligenza artificiale, l’informazione quantistica, i big data, l’Internet of Things e il cloud computing stiano prendendo piede in ambito militare, riconoscendo anche il rischio di un crescente divario tecnologico con le grandi potenze globali. Si è quindi dato avvio ad un processo di meccanizzazione (stimato entro il 2020), informatizzazione e modernizzazione (stimato entro il 2035) del proprio esercito.
In tal senso, le grandi aziende tecnologiche cinesi si stanno sempre più interessando all’industria dei chip. Alibaba, attraverso la controllata Pingtouge, ha introdotto un chip pensato per le applicazioni dell’Internet of Things, nello sviluppo dell’intelligenza artificiale e della guida autonoma, basandosi su tecnologie open source così da mitigare l’impatto di qualsiasi possibile conflitto geopolitico futuro.
Dello stesso avviso anche Tencent, che all’indomani del bando degli Stati Uniti contro ZTE, ha investito 50 milioni in Enflame, start up cinese nel settore dei chip.
Il procedimento introdotto dalla NDAA prevede la possibilità che il governo statunitense possa accettare commenti sulla normativa per una durata massima di 60 giorni prima che venga cambiata e resa definitiva. Ciò consentirà alle agenzie di usufruire di deroghe fino al 13 agosto 2021, ma solo con riferimento agli appalti del governo federale per i quali non ci siano esigenze legate alla sicurezza nazionale.
L’impatto dello scontro
Sul fronte commerciale, il maggiore rischio derivative dalla disputa tra Stati Uniti e Cina riguarderebbe il calo delle esportazioni americane verso la Cina del 40%, a fronte di una riduzione delle esportazioni cinesi negli USA del 29% e con un riduzione del deficit commerciale bilaterale degli USA parti al 23%.
Le aziende tecnologiche statunitensi saranno maggiormente esposte delle rivali cinesi: Apple, il quale ottiene un quinto delle sue entrate dalla Cina, vedrebbe ridurre i propri guadagni del 30%. Stessa sorte per le principali aziende dello S&P500, incluse Qualcomm, Texas Instruments, Nvidia e Microsoft, le quali ottengono più del 10% delle loro vendite dalla Cina.
La contrazione dei flussi commerciali potrebbe incidere oltre sui prodotti finiti, anche sui legami “a monte”, ossia sul commercio bilaterale di materie prime e input intermedi, dal momento che la Cina risulta essere il principale fornitore di beni intermedi statunitensi.
Il mercato hi-tech, tra i più danneggiati dalla spirale dei dazi, sta affrontando una fase di riassetto organizzativo attraverso piani di riconfigurazione delle attività volte al potenziamento fuori dai confini cinesi, premiando paesi a basso costo come Messico e sud-est asiatico. In particolare, Apple sta valutando di spostare dal 15% al 30% della sua produzione dalla Cina all’India. Dell e HP, società leader dei PC e dell’innovazione tecnologica, guardano a Taiwan, Vietnam e Filippine con l’obiettivo di trasferire quasi un terzo della produzione. Amazon, Microsoft e Google puntano a Taiwan. Samsung è attratta dal Vietnam e la GoPro dal Messico. Società leader in servizi data center quali Foxconn, Quanta e Invece si sono spostati verso Taiwan, Messico e Repubblica Ceca.
L’obiettivo del governo americano consiste nel ridurre il vantaggio comparato cinese nella produzione che da anni ha indebolito la sua competitività e occupazione, rafforzando la propria industria manifatturiera attraverso l’istituzione di una iniziativa nazionale volta alla modernizzazione e automatizzazione industriale.
L’amministrazione Trump, con l’avvicinarsi delle elezioni del 2020, potrebbe avere meno incentivi per raggiungere un accordo commerciale che, senza dubbio, attirerebbe il fuoco incrociato dei candidati democratici. Pechino, alle prese con le recenti proteste nella ragione semi autonoma di Hong Kong, amplificate dalle accuse delle autorità nei confronti degli Stati Uniti di alimentare le proteste soprattutto in seguito all’incontro tra il console americano sul territorio e i leader dei dimostranti, sarà alle prese con il 70° anniversario della Repubblica Popolare Cinese. Un momento patriottico che difficilmente permetterà di scendere a compromessi con il rivale americano. In attesa di ulteriori sviluppi, il rinvio dei dazi segna un punto a favore di Xi Jinping, evidenziando che la posizione negoziale di Trump non gode proprio di una superiorità soverchiante.
In tutto questo le prospettive di una crisi internazionale si moltiplicano, con la Cina – ritenuta il motore della crescita globale – che nel secondo trimestre del 2019 ha registrato una crescita del +6,2%, la più bassa dal 1992 post Tienanmen, e un incremento del costo del lavoro e dell’età media che rendono l’innovazione un imperativo assoluto per la crescita della produttività interna.