Prima Facebook con l’hate speech, il cyberbullismo e le fake news, poi Instagram con il body shaming, Twitter con il FOMO (Fear of Missing Out), Snapchat con la dismorfia da filtri, Whatsapp con l’ansia da disconnessione, YouTube con l’insonnia digitale e ora TikTok con i tic.
L’abuso delle piattaforme social – come del resto ogni tipo di eccesso – si sta rivelando sempre più dannoso per la salute mentale delle persone, soprattutto dei più giovani.
La consapevolezza dei pericoli insiti in questo rapporto complesso sta portando alla crescente diffusione di app e videogame con obiettivi dichiaratamente terapeutici, spesso regolamentati da specifiche normative che consentono di definirli “terapie digitali”, come, per esempio, avviene negli Stati Uniti e in Germania.
Social e salute mentale degli adolescenti: perché le nuove misure Instagram non convincono
Grazie all’attenzione rivolta a questo fenomeno di molti studi che andremo a esaminare, si profilano all’orizzonte oggetti e progetti digitali psicologicamente più virtuosi.
Social e salute mentale, cosa dicono gli studi
I social media garantiscono una connessione costante con i momenti più o meno importanti di amici e parenti, relazioni con individui di tutto il mondo, aggiornamenti su notizie, eventi, attività, prodotti, interessi, professioni, ma stanno altresì manifestando un lato oscuro crescente, preoccupante e raramente ben gestito, perché poco conosciuto e, di conseguenza, sottovalutato.
Sono ormai migliaia le ricerche a livello globale che riportano correlazioni certe o presumibili tra abuso dei social – e in generale di smartphone e Internet — e l’acuizione di problematiche psicologiche, fisiche, esistenziali. L’impatto negativo dell’inquinamento digitale crescente (“Digital Pollution”, Agrawal, 2021) sulle interazioni familiari e sociali si manifesta ogni mese di più.
Una nuova indagine pubblicata nel 2022 su Nature Communications condotta su più di 84.000 soggetti del Regno Unito ha riportato che le ragazze 11-13enni e i ragazzi 14-15enni che hanno trascorso più tempo sui social media sono meno soddisfatti della propria vita. In quelle età, i ricercatori sospettano che possano esserci “finestre di vulnerabilità” che si aprono in momenti diversi per maschi e femmine, con queste ultime più sensibili al condizionamento dei social rispetto ai coetanei, effetto probabilmente dovuto ai più precoci processi di maturazione, ma non solo.
Il report “The Mental State of the World” di Sapien Lab del 2021 – condotto in 34 Nazioni – riporta che la crescita dell’uso degli smartphone e dei social media e l’aumento dell’isolamento indicano un calo della salute mentale collettiva, soprattutto nei giovani adulti di età compresa tra 18 e 24 anni. Una media tra le 7 e le 10 ore trascorse online lascia poco tempo all’impegno sociale di persona. Prima di Internet, si stima che, all’alba dei 18 anni, un individuo avrebbe già trascorso da 15.000 a 25.000 ore interagendo “dal vivo” con i coetanei e la famiglia, mentre oggi l’intervallo potrebbe essersi drammaticamente ridotto a 1.500-5.000 ore. L’interazione diretta, però, è cruciale per uno sviluppo sano, individuale e relazionale, anche perché ci insegna a leggere il linguaggio del corpo, comprendere le espressioni facciali, interpretare le risposte emotive e molto altro.
Il calo della salute mentale tra i giovani adulti
Il calo della salute mentale, in particolare tra i giovani adulti di età compresa tra 18 e 24 anni, esacerba una tendenza che esisteva già prima della pandemia, ma che è iniziata dopo il 2010, insieme alla crescita dell’uso degli smartphone e dei social media. Prima del 2010, gli studi hanno dimostrato che i giovani adulti avevano livelli di benessere psicologico più alti, ma, da allora, la tendenza si è invertita. I sintomi includono scarsa immagine di sé, bassa autostima e fiducia nel futuro, sentimenti di distacco dalla realtà, pensieri suicidi, paura, ansia, sentimenti di tristezza, angoscia e disperazione.
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Insomma, il legame tra l’uso dei social e il benessere mentale è sicuramente molto complesso e ancora da esplorare, soprattutto in una fase così delicata come quella adolescenziale, in cui si manifestano importantissimi cambiamenti fisici, cognitivi, emotivi e relazionali, ma è piuttosto evidente che il problema esiste ed è imponente per diffusione e radicamento.
In ogni caso, si sta comprendendo che non è solo l’uso dei social media ad avere un impatto negativo sul benessere, ma una minor soddisfazione verso la propria vita può portare a un maggiore utilizzo dei social, seppur non tutti i giovani sviluppino relazioni malsane con queste piattaforme.
L’attaccamento ansioso ai social
Un altro interessante contributo recente suggerisce che le persone che hanno più difficoltà a regolare l’uso dei social media nella quotidianità tendono a essere anche quelle che non hanno creato legami sicuri di fiducia con una figura di riferimento nelle prime fasi della vita, trovando in queste app un “parziale surrogato”, che evidentemente non può sostituire una relazione così profonda. In questi casi, ansia e solitudine percepite aumenterebbero l’uso dei social, che, a sua volta, accrescerebbe ansia e solitudine, attivando uno spiacevole circolo vizioso.
Inoltre, un’ulteriore ricerca condotta su oltre 300 studenti universitari che usano Facebook quotidianamente, conferma che le persone con una bassa autostima nelle relazioni sono più sensibili ai segni di rifiuto e abbandono, ricercando così forme eterogenee di approvazione e trovando nelle “Vanity Metrics” – il numero di follower e di like – una rapida rassicurazione, seppur illusoria. Difatti, gli studenti che hanno dichiarato di avere maggiori difficoltà a gestire l’uso dei social media hanno anche ottenuto i punteggi più alti nello spettro dell’attaccamento ansioso.
Le abitudini digitali di tutti noi possono trasformarsi progressivamente in vere e proprie (tecno)dipendenze fonte di stress e disagi di vari tipo. Per questo motivo, è importante ascoltare i potenziali campanelli d’allarme, possibilmente facendosi aiutare da un professionista della salute mentale preparato su queste nuove problematiche psicologiche.
La “tiktokenizzazione” del cervello
Il Wall Street Journal ha recentemente pubblicato un interessante articolo legato al funzionamento di un cervello che fruisce costantemente di contenuti su TikTok.
Sembrerebbe, infatti, che le scariche di dopamina – il cosiddetto “neurotrasmettitore del piacere” che viene rilasciato quando si aspetta una ricompensa e che rafforza il desiderio di qualcosa di piacevole – legate alla incessante fruizione di brevi video che rientrano nelle preferenze personali, alla lunga, possano rendere difficile per i giovani spettatori sia mantenere l’attenzione su contenuti più lunghi (es.: un film), sia dedicare concentrazione su compiti che lo richiedono (es.: ascoltare una lezione, leggere un libro, scrivere un tema, risolvere un problema matematico).
Come sappiamo, l’ambiente di TikTok non richiede un’attenzione prolungata. Le incessanti abbuffate di video personalizzati da 15 secondi portano i ragazzini a cambi repentini dai ritmi incalzanti. Questa modalità non abitua i loro cervelli ad attività non digitali, in cui le cose non si muovono così velocemente. I centri di ricompensa del cervello continuano così a ricevere gratificazioni immediate e costanti, in una spirale dal funzionamento molto simile agli esperimenti condotti nelle “gabbie di Skinner”.
In uno studio della Zhejiang University, le scansioni cerebrali di studenti cinesi hanno mostrato che le aree coinvolte nella dipendenza erano altamente attivate in coloro che guardavano video personalizzati. Alcuni soggetti faticavano a smettere di guardarli, facendo ipotizzare che i ragazzi con una minor capacità di autocontrollo avessero più problemi a spostare l’attenzione verso altre attività.
In genere, bambini e adolescenti hanno più difficoltà perché la corteccia prefrontale non è completamente sviluppata fino ai 25 anni. Più la corteccia prefrontale è matura, infatti, più migliora il controllo degli impulsi, l’attenzione diretta, la capacità di inibire le distrazioni e, più in generale, i processi decisionali e la pianificazione delle priorità.
Nel suo ultimo libro “Rewired: Protecting Your Brain in the Digital Age” (2022), lo psichiatra e neuroscienziato Carl Marci parla di un’era di distrazioni digitali che sta alterando i meccanismi del cervello. Stiamo vivendo il paradosso di una connessione costante che ci fa sentire sempre più disconnessi dai rapporti che ci sostengono e ci mantengono sani, a favore di legami più fragili ed effimeri. Si tratta di una condizione in cui il nostro bisogno di formare forti relazioni sociali è stato dirottato verso una sovrastimolazione dei meccanismi neurochimici della ricompensa, che sta snaturando l’attenzione, la memoria, l’elaborazione delle informazioni, le emozioni e, appunto, il modo di comunicare e relazionarsi.
Il pediatra John Hutton afferma che TikTok è una “macchina per la dopamina” ed è molto probabile – ma non ancora inequivocabile – che quando il cervello elabora ripetutamente contenuti rapidi e gratificanti, la sua capacità di elaborare cose meno rapide e meno gratificanti può cambiare o addirittura essere danneggiata.
Infine, il tecnologo James Williams utilizza una chiara metafora: è come se i bambini vivessero dentro a un “negozio di caramelle”, in un flusso infinito di piaceri immediati che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
L’era delle app e degli influencer di salute mentale
In una situazione così compromessa, è comunque consigliabile per le figure di riferimento (es.: genitori, insegnanti, professionisti sanitari) non imporre l’azzeramento dell’accesso ai dispositivi digitali, ma sicuramente di ridurlo e compensarlo con attività emotivamente e cognitivamente rilevanti quali il gioco libero, l’esercizio fisico, lo sport, le gite in famiglia, che, oltre a essere auspicabili per un maggior benessere e una miglior socialità, permettono al cervello di focalizzarsi e sviluppare l’attenzione.
Inoltre, ci si può esercitare a stoppare periodicamente la fruizione dei social, così da rafforzare le capacità cerebrali che permettono di abituarsi a pause digitali, magari programmando momenti quotidiani in cui non si usa la tecnologia, come ad esempio a tavola e negli spazi famigliari, fissando dei limiti di tempo alle sessioni sullo schermo e sfruttando le nuove funzionalità di stand-by messe a disposizione sia dalle piattaforme social, sia dai sistemi operativi degli smartphone.
C’è un altro importante fattore essenziale per favorire la concentrazione e l’attenzione, ovvero un sonno salutare, spesso alterato dai dispositivi, che dovrebbero essere tenuti fuori dalla camera da letto e spenti durante la notte.
Le terapie digitali
Davanti a un flusso negativo così impetuoso, ce n’è uno di segno opposto che sta emergendo esponenzialmente con decisione e ingenti investimenti. In tante nazioni, infatti, si stanno moltiplicando app e videogame con obiettivi dichiaratamente terapeutici, spesso regolamentati da specifiche normative che consentono di definirli “terapie digitali”, come, per esempio, avviene negli Stati Uniti e in Germania.
La competizione benefica appena conclusa “The Mental Health Game Jam”, organizzata da DeepWell Digital Therapeutics in collaborazione con Global Game Jam, ha riunito una comunità di sviluppatori globali per creare esperienze terapeutiche attraverso l’uso dei videogiochi, promuovendo un supporto per le persone che affrontano problemi di salute mentale.
Il vincitore del concorso è stato il videogame “Inner Room”, un gioco in cui si assume il ruolo di una persona che affronta la depressione, mentre al terzo posto si è classificato “Fumble”, un puzzle game che racconta la storia di un individuo che soffre di ansia sociale senza rendersene conto, offrendo una possibile rappresentazione di come ci si sente a vivere questa particolare condizione.
Inoltre, i social sono progressivamente presidiati da nuovi professionisti della salute mentale – medici, psicologi e neuroscienziati – che stanno diventando dei veri e propri influencer. Questi specialisti sanno parlare di disagi psicologici, dalla solitudine all’ansia, di disturbi psicopatologici, dai disturbi alimentari alla depressione, di psicofarmaci e relativi effetti collaterali, di diversità, utilizzando tecniche comunicative social-specifiche, attraverso forme di psicoeducazione capaci, per loro natura, di ridurre l’effetto negativo dei sempre presenti, annosi pregiudizi.
Tipicamente, sono personaggi in grado di produrre contenuti autorevoli, ma ingaggianti e accattivanti, capaci così di attirare l’attenzione di pubblici ampi e diversificati e, allo stesso tempo, di aiutare le persone bisognose a comprendere che non sono sole né incurabili, ma vivono problematiche che appartengono a molte altre persone e che possono essere superate se conosciute e gestite anche grazie all’accompagnamento di professionisti affidabili.
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Conclusioni
A questo punto, dato che il digitale si frappone sempre più prepotentemente tra noi, il nostro tempo libero e le nostre relazioni, la controffensiva verso l’aggressione digitale delle “economie della dopamina e dell’attenzione” dovrebbe essere triplice.
In primis, educativa, per informare continuamente ed estesamente giovani e adulti sulla gamma di problemi comportamentali in cui potrebbero incorrere.
Poi terapeutica, per invertire l’attuale paradigma tecno-insalubre e valorizzare il digitale come promotore della salute psicologica.
Infine normativa, per imporre alle Big Tech di superare il “modello captlogico” dell’ingegneria comportamentale orientata a condizionare il cervello, come peraltro sta già avvenendo in alcuni Paesi come gli Stati Uniti e la Cina. Infatti, i dati provenienti dalle varie ricerche potrebbero orientare sia gli upgrade delle piattaforme esistenti e future, sia la fabbricazione dei nuovi modelli di smartphone, inaugurando così oggetti e progetti digitali psicologicamente più virtuosi.
Insomma, app, videogiochi e social media del domani dovrebbero essere concepiti con una attenzione verso il benessere psicofisico e il cambiamento positivo delle persone, ma ci vorrà (tanto) tempo, consapevolezza e generazioni di politici, manager e professionisti in grado di guidare con coscienza la prossima trasformazione digitale.