il programma di ricerca

Societing 4.0, la via “mediterranea” e sostenibile per una nuova digitalizzazione

Gestite in un modo diverso, orientato a uno sviluppo ecologico e sostenibile e con forme che portino verso un nuovo contratto sociale, le tecnologie 4.0 possono contribuire a generare livelli più alti di occupazione e soprattutto generare lavori a maggiore utilità sociale. Vediamo in che modo e con quali benefici

Pubblicato il 04 Mar 2021

Alex Giordano

Docente di Trasformazione Digitale e Innovazione Sociale presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli

digital-innovation

Un fattore imprevisto (anche se non imprevedibile) come il Covid, sta avendo un ruolo forte nell’accelerazione di vari processi trasformativi delle nostre culture e di sicuro ha promosso la digitalizzazione di molti aspetti della nostra vita quotidiana: la DAD, lo smart working, l’uso di piattaforme digitali per la consegna del cibo, sono le evidenze più chiare.

Quale può essere, dunque, la direzione da dare alla massiccia diffusione della digitalizzazione? Una via viene indicata nel recente “Societing 4.0. Oltre il marketing una via mediterranea per la trasformazione digitale al tempo della pandemia” (Egea, 2020).

Il programma Societing 4.0

Societing 4.0 è un programma di ricerca-azione nel quale stiamo provando a immaginare e a sperimentare vie possibili, orientate a paradigmi distanti da modelli alieni alla nostra cultura, come sono per esempio il winner takes all della Silicon Valley o il modello Industry 4.0 tedesco rivolto ad un panorama omogeneo di imprese medio-grandi.

In particolare, stiamo studiando e verificando sul campo le modalità di interazione tra innovazione sociale e innovazione tecnologica, verso processi di cambiamento e modelli di sviluppo ecologici e sostenibili, che possano parlare anche con imprese piccole e piccolissime e con i territori (anche) rurali e delle aree interne del Sud Italia.

Nel modello che stiamo definendo proviamo ad immaginare delle modalità e delle forme che portino verso un nuovo contratto sociale: una nuova intesa fra Stato, capitale e lavoro, organizzata intorno a una nuova combinazione tra tecnologie, valori e forme di partecipazione. In questa ipotesi, le condizioni per abilitare la trasformazione del nostro modello sociale ed economico derivano da tre ambiti di ispirazione: uno culturale, uno spaziale e uno strumentale:

  • c’è la Dieta Mediterranea, prezioso scrigno di valori: conoscenze, biodiversità, identità, qualità, salute. Elementi che ci consentono di andare ben oltre il modello alimentare, identificando una serie di aspetti da portare nel nuovo paradigma di sviluppo socioeconomico. Per noi, ma in realtà anche per l’Unesco, la Dieta Mediterranea è un metodo che non nega, anzi valorizza al massimo pluralismo e complessità;
  • poi ci sono i territori e le comunità. I territori intesi come luoghi fisici e geografici da ripensare in nuove geografie e in nuove geometrie fatte di interazioni, relazioni, occasioni, scambi. E le comunità intese come l’insieme degli attori che possono condividere trasformazioni e cambiamenti all’interno degli stessi territori fisici e, insieme o in alternativa, all’interno di territori “metafisici” come le comunità di interesse (secondo la definizione data da Ezio Manzini) sempre più vicine ed unite dalla dimensione dell’infosfera;
  • infine, ci sono le tecnologie e, in particolare, quelle cosiddette 4.0 che possono diventare strumenti-chiave nei processi di trasformazione sostenibile e di innovazione sociale.

Un modello sociale per realizzare il potenziale del paradigma Industria 4.0

Negli ultimi anni le discussioni su innovazione e digitalizzazione sono state dominate dal paradigma di Industria 4.0, presentato come un insieme di nuove tecnologie che permettono di aumentare l’efficienza produttiva in modalità data driven. L’Industria 4.0 ha stimolato risposte entusiaste da parte di policy makers, accademici e politici. Meno entusiasti invece sono i manager che, secondo indagini che hanno coinvolto dirigenti di grandi multinazionali, apprezzano il potenziale delle tecnologie di Industria 4.0 ma non vedono chiari business cases nel presente, ritenendole tecnologie interessanti e affascinanti ma che, allo stato attuale, sostanzialmente non stanno portando la rivoluzione attesa.

Una condizione necessaria affinché queste tecnologie possano realizzare il loro potenziale produttivo è la presenza di un modello sociale dove si possano aprire nuovi mercati. Fino a ora, invece, gli scenari concretizzati sono quasi tutti stati immaginati nell’ambito di una intensificazione del modello industriale: automatizzazione, robot e intelligenza artificiale che sostituiscono i lavoratori; piattaforme di delivery che sostituiscono i canali tradizionali di distribuzione; algoritmi che sostituiscono le scelte esercitate da parte dei consumatori. Per ora quella che viene chiamata Rivoluzione 4.0 non ha avuto ancora alcun effetto sulle condizioni del sistema sociale.

Se pensiamo l’Industria 4.0 nell’ambito di un modello industrioso e non industriale (labor intensive and capital poor), le cose cambiano radicalmente perché questo modello di innovazione, che pone la trasformazione del tessuto sociale ed economico come una nuova fonte di bisogni ed opportunità, potrebbe offrire le nuove nicchie di mercato necessarie affinché queste tecnologie acquisiscano un reale valore produttivo. Dunque, si dovrebbe stimolare l’accesso popolare alle nuove tecnologie al di fuori delle grandi industrie (che fino ad ora sono state gli attori più interessati alla loro implementazione).

Come stimolare una massiccia ondata di innovazione sociale

Modalità sandbox di sperimentazione, sostegni all’imprenditorialità, facilitazioni in materia di accesso al credito e ai mercati, potrebbero stimolare una massiccia ondata di innovazione sociale, dove le tecnologie diventano il punto focale per l’elaborazione di una nuova regime di regolazione, un nuovo tessuto sociale fatto di soluzioni per la finanza anche a livello comunitario, la distribuzione, la condivisione, e l’integrazione di valori sociali ed ecologici in tutti gli aspetti produttivi. Un’importante direzione dell’innovazione potrebbe essere quella di realizzare un’economia più circolare, capitalizzando sulle potenzialità delle tecnologie 4.0 per assicurare la tracciabilità dei prodotti industriali così come gli scarti di produzione.

“Abbiamo bisogno di molto lavoro di invenzione per ripensare radicalmente il sapere, i modelli teorici dominanti e l’interpretazione della realtà”. Sono parole pronunciate dal grande filosofo francese Bernard Stiegler (che purtroppo qualche mese fa ci ha lasciati). Come si producono questi nuovi saperi? Stiegler, e noi con lui, dice che è importantissimo produrre teorie che sappiano inventare o utilizzare nuovi modelli economici, nuovi modelli di ricostruzione dello spazio fisico e dello spazio sociale. La sua visione è chiara: oggi tutti sanno che i dispositivi tecnologici, utilizzati secondo il modello della Silicon Valley, possono distruggere la società e l’economia. Serve un modello di società completamente differente e va inventato un nuovo modello di sviluppo. Questo si può fare attraverso le tecnologie che sono un pharmakon, cioè sono insieme il veleno e anche la cura possibile. Per questo bisogna inventare una “terapeutica”, vale a dire dei modelli di cura per trasformare il pharmakon (che può sempre divenire un veleno) in una nuova possibilità di cura.

Il ruolo della ricercar nella comunità

Il mondo della ricerca ha, quindi, una sua funzione-chiave nei processi di innovazione e cambiamento e l’Università con le sue competenze e i suoi centri d’innovazione ha un ruolo fondamentale da coprire in questa trasformazione. Come? Mantenendo sempre i legami con le comunità scientifiche globali, le università devono allo stesso tempo rendersi utili per il nuovo contesto sociale ed economico più locale e resiliente. Le facoltà scientifiche ed ingegneristiche possono orientarsi verso i problemi locali: collaborare con i contadini nel riorientamento dei sistemi agricoli, e con i piccoli produttori nello sviluppo e perfezionamento di macchinari e mezzi di produzione. Troppo spesso, invece, è un mondo ancora dominato da approcci top-down. La ricerca stessa ha dimostrato che l’innovazione aperta e l’innovazione responsabile possono essere complementari.

Il lavoro realizzato con le comunità, sperimentando una gamma di strumenti e metodi per l’innovazione, è in grado di raccogliere problemi e soluzioni attraverso diversi strumenti, tra cui metodi digitali, studi comparativi e metanalisi. Questi metodi possono produrre nuove forme di intelligenza sociale e modalità di scambio, attraverso occasioni e dispositivi che mettono in relazione i sistemi di intelligenze delle comunità (intelligenze umane, intelligenze artificiali) attraverso eventi di networking, cluster, laboratori dimostrativi, feste popolari, test dimostrativi e consultazioni; e attraverso una moltitudine di spazi informali pensati proprio per il confronto, lo scambio, la conoscenza e l’interazione.

Superando la diffusa autoreferenzialità della ricerca, l’Università dovrebbe impegnarsi nella diffusione di tutte quelle tecnologie ormai consolidate, a vantaggio delle piccole e medie aziende già esistenti sul territorio. Facendo incontrare chi opera nelle Università e nei centri di ricerca con gli artigiani (e parlo anche di falegnami o idraulici) e i piccoli imprenditori (dai carrozzieri agli imprenditori edili), si potrebbe ottenere una nuova combinazione fra innovazione, attenzione al design e alla tecnologia -tipica dell’economia delle start-up- con l’orientamento concreto ai valori d’uso dei piccoli imprenditori.

Le imprese di un territorio, insieme ad altri attori dell’ecosistema, potrebbero condividere progetti di intelligenza collettiva con una ricaduta positiva sui singoli e sull’intero territorio. E alcuni soggetti intermedi, come le Camere di Commercio e/o le associazioni di categoria e le Università potrebbero coordinare percorsi di raccolta e uso di data commons che servano interi comparti con l’intento di supportare la valorizzazione e la vendita, oltre che favorire la creazione di strategie locali di sviluppo.

Una condizione importante per superare le difficoltà dovute alla piccola dimensione delle aziende, alla frammentazione degli attori sul territorio e alla difficile situazione socioeconomico-ambientale è la creazione di forme di cooperazione. Queste, anche grazie ai vantaggi che possono portare le tecnologie, dovrebbero favorire non un singolo attore alla volta ma ampi territori insieme. Le alleanze tra attori locali (istituzionali e non) potrebbero svolgere un’azione di supporto alla riprogettazione locale attraverso:

  • un ruolo di supporto, per esempio sulla formazione o per il coordinamento di momenti di co-progettazione);
  • un ruolo di cerniera tra gli interessi del territorio, per esempio tra produttori agricoli e mense pubbliche);
  • un ruolo di facilitazione nella condivisione di occasioni per esempio l’incontro con la ricerca e/o con soluzioni tecnologiche.

Conclusioni

Probabilmente gestite in un modo diverso da quello proposto dai profeti di Industry 4.0 e dai critici dell’automatizzazione e dell’economia delle piattaforme, le tecnologie 4.0 possono contribuire a generare livelli più alti di occupazione e soprattutto forme di occupazione dotate di maggiore utilità sociale a vantaggio di persone che possano affrontare e mettere in discussione i troppi lavori-burla che hanno consentito a molti di diventare ricchi svolgendo ruoli-chiave a vantaggio del nuovo capitalismo globale. Lavori che potrebbero non esistere perché di fatto offrono contributi poco significativi al mondo.

Come suggerisce Rutger Bregman (nel suo Utopia per realisti), questa è una delle ragioni che ci fanno capire come mai le innovazioni degli ultimi trent’anni non abbiano raggiunto le aspettative: perché, in fondo, è diventato sempre più proficuo non innovare. E in questo modo ci stiamo perdendo un progresso possibile mentre moltissime menti brillanti sprecano il loro tempo a escogitare prodotti finanziari sempre più complessi e, alla fine dei conti, distruttivi. O passano il loro tempo a investire il loro talento nello studiare -anche grazie alle tecnologie più evolute- come consentire al mais OGM di diventare capace di girarsi verso il sole (capacità che alcune specie modificate hanno perso!).

Oltre il totalitarismo del marketing, dunque, percorrendo una via mediterranea per la trasformazione digitale della società con uno sguardo plurale per riguardare i luoghi favorendone il loro sviluppo. Riguardare nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli perché nessuno sviluppo può avvenire sulla base del disprezzo dei luoghi, della loro vendita all’incanto, dagli stupri industriali della modernità a quelli turistici della postmodernità (come dice bene Franco Cassano).

E ora ci pare utile estendere il significato di quel riguardare, intendendolo come un riguardare aumentato grazie alle possibilità offerte da una nuova alleanza tra intelligenze collettive e tecnologie digitali finalizzata a creare ponti tra le comunità locali e le comunità di intenzione di tutti gli impatti positivi generati sul pianeta da una certa visione del mondo.

Ormai è urgente. Non possiamo più perdere tempo.

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