La proposta

Un Champion, molti Champions

A fianco del prossimo Digital Champion, creiamo una rete di digital evangelist nei vari Ministeri.
Per dar vita a una serie di piani settoriali in partenariato pubblico-privato

Pubblicato il 26 Mag 2014

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Maggio 2014: e siamo ancora qui, fermi al palo del Digital Champion. Ne avremo presto uno, e sarà Agostino Ragosa. A lui, salvo sorprese dell’ultimo minuto, verrà (ri)affidato il ruolo di interfaccia tra il governo italiano e la Commissione Europea in tema di attuazione dell’agenda digitale. Una sorta di “rapporteur”, in estrema sintesi.

Difficile immaginare – perlomeno secondo le indiscrezioni che circolano vicino a Palazzo – che a Ragosa vengano affidati compiti ulteriori: né quello di “commissario all’attuazione” (non ce n’è bisogno, dicono i più stretti collaboratori del Premier) né tantomeno quello di “primo evangelista/ambasciatore dell’innovazione”.

Su questo secondo ruolo è il caso di spendere qualche parola in più. Anche perché si tratta del nodo cruciale intorno al quale si dipana (o, nella peggiore delle ipotesi, si aggroviglia definitivamente) la matassa dell’innovazione e della modernizzazione del Paese. Un grande comunicatore, una persona capace di rendere finalmente sexy (e comprensibili ai più) temi che sinora sono stati relegati in cenacoli ristretti o convegni mortalmente noiosi. Di una figura così, c’è gran bisogno. E, sempre stando ai solitamente ben informati, il Presidente del Consiglio potrebbe tirar fuori dal cilindro un volto nuovo al quale affidare questo compito.

Perché qui, più che di qualcuno che vada una volta al mese a Bruxelles a mostrare slides, c’è bisogno di definire strategie e – possibilmente – attuarle.

Cominciando dai ministeri, dove (salvo pochissime eccezioni) i vari CIO non riescono a prendere iniziative di promozione del digitale se non all’interno dei loro piani di sviluppo portati avanti a fatica e in ristrettezze di budget.

Qualcosa in questa direzione lo ha fatto recentemente il MIBACT (Beni Culturali, Ambientali e Turismo) con la nomina di un team di consulenti cui affidare lo sviluppo delle strategie digitali per il turismo italiano.

Qualcosa bolle in pentola anche al Ministero della Salute, dove si lavora alla costruzione di un coordinamento delle strategie di sanità digitale.

E gli altri?

Se si creasse un nucleo di evangelist dell’innovazione in ciascun ministero sarebbe probabilmente più facile giungere in tempi stretti alla definizione di una serie di “agende digitali settoriali” (salute, trasporti, agricoltura, giustizia, scuola, ecc.) sintetizzate poi in un Master Plan governativo.

Idem per le Regioni, dove in molti casi sono già stati costituite task force per l’agenda digitale in più o meno stretta collaborazione con gli enti locali e con i vari portatori di interesse a livello territoriale ma dove ancora si fa fatica a vedere un disegno preciso e declinato in azioni concrete asservite al raggiungimento di obiettivi misurabili. Dove, soprattutto, non sempre questi comitati o gruppi di lavoro sul digitale hanno coinvolto assessorati e direzioni generali di settore (salute, trasporti, eccetera), tendendo a perpetuare una certa attitudine all’autoreferenzialità.

Il rischio è quello di rimanere “generalisti”, con agende digitali necessariamente omnicomprensive e stilate in modalità declaratoria di massimi principii tipo “vogliamo la pace nel mondo, la banda più larga e la PEC per tutti”.

Questo lavoro di costruzione delle agende digitali di settore non può che partire a livello centrale, in ogni singolo ministero, e deve coinvolgere regioni, enti locali e tutti i portatori di interesse rappresentati dalle varie associazioni di categoria.

Avendo cura di scendere a un livello di dettaglio capace di fare di queste “agende” dei veri piani strategici e non una semplice sommatoria di desiderata e di liste per la spesa.

Tra l’altro, lavori di questo genere – se fatti con metodo e giudizio – possono diventare un enorme supporto all’attività quotidiana della task force sulla spending review, in quanto possono rappresentare un punto di partenza per un’azione di vera razionalizzazione non basata sui famigerati tagli lineari.

Il modello di riferimento per queste task force non può che essere il partenariato pubblico-privato: la ricerca di fonti di finanziamento cospicue e garantite da iniziative progettuali basate su business plan asseverati da enti terzi. Un mix di fondi europei e investimenti privati attivabili attraverso project financing e affidamento di servizi in concessione. In sostanza, si parte dalla redazione di un piano settoriale (obiettivi, strategie, azioni) e poi si identificano le fonti di finanziamento coinvolgendo tutti gli stakeholder. A una “regia superiore” (a livello di Presidenza del Consiglio) spetta il coordinamento dei vari piani settoriali e la gestione (attraverso l’AgID) delle iniziative trasversali condivise da tutte le amministrazioni e da tutti i “settori” coinvolti.

Il tutto, magari, senza troppi nuovi tavoli o nuove commissioni: una struttura molto snella, veloce, dotata di tutta la copertura politica necessaria a non farne l’ennesima promessa non mantenuta. L’alternativa è tra il restare dove siamo e il cambiare davvero la PA italiana; incidentalmente, scegliendo la seconda strada, riusciremmo a portare a casa qualche punto di PIL e – soprattutto – un ranking migliore nella classifica della competitività dei Paesi.

Non ce lo possiamo permettere, di scegliere la busta Uno.

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