capitalizzazione alternativa

Webfare e banche della virtù: la vera origine del valore dei dati e come redistribuirlo

La vera origine del valore dei dati sta non nel singolo ma nell’umanità, compresa quella che non ha niente (e a questa va restituita). Le banche della virtù costituirebbero dei corpi intermedi capaci di un’interpretazione e di una capitalizzazione alternativa. Qual è il loro ruolo, i limiti e i vantaggi per la collettività

Pubblicato il 12 Ago 2022

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

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Il patrimonio dell’umanità è per il momento monopolizzato da poche compagnie: a Occidente abbiamo il GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e in Cina, nelle rispettive aree di influenza ilBATX (Baidu, AliBaba, Tencent e Xiaomi).

È vero che, quanto a BATX, la socializzazione è molto maggiore, ma al prezzo delle libertà individuali, e ci si può chiedere se il gioco valga la candela. Per quanto riguarda GAFAM, allo stato, esistono già delle forme di retribuzione da parte delle piattaforme, che vanno dai microlavori online3 alla compensazione degli utenti per la cessione dei loro dati sino alla vera e propria proposta di capitalizzazione dei dati proposta ai clienti di una banca di Dubai, Emirates Nbd[1]. Ma si tratta di prospettive insufficienti, e, per ciò che riguarda il microlavoro, inique.

Perciò, in questa condizione, il grande passaggio a Nord-Ovest, il Graal della nostra epoca, è “un dispositivo che distribuisca istantaneamente ed equamente il sovrappiù di reddito di tutta l’economia, prodotto grazie all’automazione, a tutti i partecipanti al gioco economico”[2].

Webfare: ecco dove si forma il vero valore dei dati, per noi e il Pianeta

Le banche della virtù: una capitalizzazione alternativa per i nostri dati

Data la distanza tra ideale e reale, la risposta alla domanda circa il When, ossia sul quando, sembra rinviare alle calende greche, ma non è così. Già ora è possibile creare dispositivi come quelli descritti dall’ex direttore della Banca d’Italia, e che, per la loro finalità filantropica, propongo di chiamare “banche della virtù”. Il fondamento di queste banche è molto semplice. Non sta scritto da nessuna parte che le uniche a sfruttare i nostri dati debbano essere le piattaforme commerciali, mentre nel Regolamento europeo 679/2016 si legge che gli utenti hanno diritto di chiedere i dati alle piattaforme[3]. A ciò si aggiunga che il 25 marzo scorso è stata sancita la possibilità per gli utenti di acquisire anche i dati sintattici, che sono quelli che producono l’autentica capitalizzazione. A questo punto, chiunque volesse capitalizzare i dati, purché ne possegga in quantità sufficiente, ha le stesse possibilità delle piattaforme commerciali. In altri termini, dato (o, meglio, lasciato) a GAFAM quel che è di GAFAM, si potranno adoperare i dati per produrre valore in modo parallelo e con finalità umanistiche.

In questo quadro, le “banche della virtù” costituirebbero dei corpi intermedi (nuovi o che rifunzionalizzino istituzioni già esistenti), capaci di una interpretazione e di una capitalizzazione alternativa che crei un pubblico mercato dei dati, e che di conseguenza accompagnino alla fine del monopolio dei dati la fine del monopolio del loro valore. Si tratterebbe della creazione di piattaforme mutualistiche che rinnovino con altri soggetti e capitali lo spirito che ha generato il credito cooperativo. Coloro che cent’anni dopo la costituzione delle banche di mutuo soccorso perché non avevano soldi e non potevano accedere al credito sono, proprio in forza di quella mutualità, usciti dall’indigenza. Ma ci sono nuove povertà, quelle di coloro che non hanno soldi e hanno solo dati, e che potrebbero intraprendere proprio attraverso i dati il percorso compiuto cent’anni fa attraverso i soldi. Senza dimenticare che il solo fatto di possedere un conto corrente bancario su cui sarebbero distribuiti parte degli utili della capitalizzazione dei dati di tutti i correntisti conferirebbe immediatamente uno status diverso a coloro che sino a un momento prima godevano solo dei vantaggi formali della democrazia (quando li godevano) e non avevano alcun vantaggio reale.

La logica di questa riappropriazione che non è esproprio poggia sulla circostanza per cui i dati, proprio come le idee, si possono condividere e riusare quanto si vuole, e richiedere i dati alle piattaforme commerciali non significa chiedere che non li usino più, tutt’altro. Ciò previene l’obiezione: come si fa a convincere le piattaforme commerciali a condividere la loro ricchezza? Semplice. Non c’è alcun bisogno di convincerle, visto che da loro non si tratta di pretendere soldi, ma dati, quelli che noi stessi produciamo. Le piattaforme rimangono in possesso dei dati, oltre che dei proventi delle loro capitalizzazioni, il che non esclude la possibilità di capitalizzazioni alternative dei dati da parte di soggetti diversi dalle piattaforme. Se, con un termine enfatico ma, mi auguro, espressivo, designo queste agenzie di capitalizzazione alternativa come “banche della virtù”, è perché si caratterizzano per la capitalizzazione dei dati prodotti da tutti coloro che liberamente avranno aderito al loro progetto (“da ognuno secondo le sue capacità”) e per la ridistribuzione dei proventi della capitalizzazione a coloro che, tra gli aderenti, non possiedono soldi o altre risorse, ma semplicemente dati (“a ognuno secondo i suoi bisogni”). Questa circostanza previene un’altra possibile obiezione: c’è un problema etico dietro questa alleanza con le piattaforme che basano i loro modelli di business sull’elusione fiscale, i lavoretti di persone sottopagate e una dipendenza dai mezzi tecnologici? Ora, non c’è alcuna alleanza con le piattaforme commerciali. Semplicemente, in base alla legislazione europea, gli utenti si fanno dare i dati che producono, e decidono di investirli usando delle altre piattaforme virtuose.

Le quattro attività alla base delle banche della virtù

Il funzionamento delle banche della virtù comprende quattro attività: l’acquisizione dei dati dalle piattaforme commerciali; l’interpretazione necessaria per conferire senso ai dati recuperati; la capitalizzazione dei dati resi semantici; e la ridistribuzione dei proventi della capitalizzazione.

Acquisizione

Il primo passo per l’acquisizione dei dati è il riconoscimento del fatto che il loro valore dipende in pari misura dalla mobilitazione della umanità e dal fatto che questa mobilitazione è intercettata e interpretata dalle piattaforme. Quanto abbiamo detto nel terzo intervento circa il carattere produttivo della antroposfera rispetto alla docusfera costituisce un argomento sufficiente per fondare il diritto di acquisizione dei dati, che personalmente preferisco giustificare in base alla prestazione d’opera (la mobilitazione) che gli umani esercitano sulle piattaforme piuttosto che con il richiamo all’esercizio di un diritto di proprietà. I dati in quanto tali, infatti, non esisterebbero senza le piattaforme e si trovano nelle piattaforme, che ne sono proprietarie; ciò rende dubbia la legittimità della richiesta di una proprietà libera dei dati a cui farebbe seguito una vendita[4]. Visto che però le piattaforme non sono proprietarie della mobilitazione che produce i dati, è proprio attraverso il richiamo a quest’ultima che si può fondare la richiesta di condivisione in vista di una capitalizzazione alternativa.

Il secondo passo è la quantificazione. Occorre trovare dei metodi per capire quanti dati produciamo nel nostro rapporto con le piattaforme. Esistono già proposte e iniziative[5] volte a chiedere il controllo sui propri dati[6] e a quantificarli[7]. A tal fine, abbiamo a che fare con un caso di serendipity: le norme elaborate in sede europea per la tutela della privacy, che poggiavano su un fondo di civil law, l’inalienabilità dei diritti della persona, divengono lo strumento per riconoscere la quantità di dati prodotti. Nell’ambito della quantificazione dei dati è così possibile formulare una legge: quanta minore è la privacy, tanto maggiore è il numero di dati raccolti dalle piattaforme, e inversamente. Ma quantificare i dati non è ancora quantificare il valore dei dati, e questo è il grande problema. Contrariamente alle letture che vedono nell’economia digitale un prevalere del mercato sull’azienda[8], qui l’azienda si sostituisce al mercato e rende impossibile la determinazione di un valore pubblico. Quanto valgono le informazioni che permettono di far volare gli aerei a pieno carico grazie ai dati sui comportamenti dei passeggeri? Ecco una domanda a cui non si potrà mai rispondere se l’acquisto dei dati è il frutto di una trattativa privata tra una piattaforma e una compagnia. Se esistesse un mercato (e non potrà non esistere con l’ingresso di investitori di dati che siano diversi dalle piattaforme) ci sarebbe una domanda e un’offerta e, su quella base, si determinerebbe il valore.

È questa difficoltà, cioè in ultima analisi l’assenza di una borsa dei dati, che rende difficile l’attuazione di politiche di compensazione volte a ridistribuire il plusvalore delle piattaforme commerciali.

Questo vale, prima di tutto, per le proposte di tassazione[9] prospettate dalla Cina[10] e già in parte attuate dagli Stati Uniti e dalla Unione Europea[11]. Contrariamente a quanto suggerito da alcuni, queste iniziative non corrono il rischio di far ricadere i costi sugli utenti[12] (le piattaforme perderebbero tutta la loro attrattività qualora cessassero di fornire gratuitamente dei servizi), ma trovano il loro limite maggiore proprio nella circostanza per cui, sino a che non ci sarà una borsa dei dati, risulta molto difficile determinarne il valore, e dunque esercitare la giusta pressione fiscale sulle piattaforme.

La compensazione, tuttavia, non si limita alla ridistribuzione del prelievo fiscale, e in particolare (valorizzando il concetto di “patrimonio dell’umanità”) può consistere nell’accrescimento delle zone di gratuità di beni e servizi, del resto coerente con gli interessi commerciali delle piattaforme. Coerentemente con l’impostazione generale che sto seguendo, secondo cui l’apporto degli utenti consiste nella mobilitazione, e quello delle piattaforme nella registrazione e dunque nella produzione dei dati, la gratuità non deve essere considerata come un bene comune, ma piuttosto come un prodotto cooperativo. Con questa differenziazione terminologica indico la circostanza per cui attraverso la gratuità gli utenti non vedono riconosciuto un diritto sul patrimonio ottenuto dalla capitalizzazione dei loro dati da parte delle piattaforme (esercitare prelievi sul plusvalore e ridistribuirli è di competenza della fiscalità statale), bensì l’apporto della loro mobilitazione nella produzione dei dati.

Il quarto passo, diverso dalla compensazione e che richiede l’intervento della banca della virtù è la condivisione non dei dati, ma del loro valore. Se la compensazione consiste in un intervento su dati già capitalizzati, qui abbiamo a che fare con due processi radicalmente differenti. In primo luogo, abbiamo a che fare con una produzione di valore attraverso una capitalizzazione alternativa e autonoma rispetto a quella attuata dalle piattaforme commerciali, il cui apporto si limita alla condivisione dei dati con le banche della virtù. In secondo luogo, affinché il termine “banca della virtù” non appaia abusivo e insopportabilmente retorico, è necessario che la virtù sia effettiva, e cioè che sia chiaro che lo scopo della banca della virtù non consiste nel remunerare i correntisti (per questo si deve ricorrere ai servizi tradizionali della banca e della borsa, che valgono per chi ha soldi), bensì far entrare nel gioco economico quella stragrande maggioranza dell’umanità che non ha soldi ma ha dati, e che deve essere inserita nel mondo della cittadinanza non formale ma sostanziale attraverso l’apertura di un conto in banca fatto prima di dati, poi di soldi. Ma perché questo obiettivo possa venire conseguito occorre anzitutto che la banca della virtù si doti di strumenti interpretativi che le permettano di dare significato ai dati, ciò che costituisce la condizione imprescindibile per la loro capitalizzazione e ridistribuzione.

Interpretazione

Il presupposto della ermeneutica dei dati è che si ponga fine alla ingannevole identificazione tra i dati e il petrolio. Quest’ultimo, per valere, richiede soltanto l’esistenza di macchinari che se ne servano come fonte di energia. I dati, invece – oltre a essere il frutto della mobilitazione di esseri umani presenti invece che della decomposizione di dinosauri passati – non hanno alcun valore in assenza di un processo interpretativo che deve essere sviluppato di volta in volta, e che richiede, oltre alla disponibilità di ampie quantità di dati e di enormi computer per calcolarli, una serie di operazioni che ripropongono, nella contemporaneità, i quattro sensi della scrittura compendiati nel distico Littera gesta docet, quid credas allegoria, Moralis quid agas, quo tendas anagogia[13]. Questo richiamo a vecchi canoni non deve sorprendere. Si è giustamente osservato, ragionando sulla ermeneutica dei dati, che le questioni tecniche non sono semplicemente tecniche[14]. Per non trasformare questo richiamo in un rituale appello a un supplemento d’anima o alla irriducibilità dell’umano (cioè all’appello in cui si concentra, molto più che lo splendore, la miseria dell’umanesimo) occorre però tener conto che, d’altra parte che gli umani, senza la tecnica, sono soltanto animali molto svantaggiati. E che dunque non c’è nulla di più squisitamente umanistico del risalire al significato e all’origine umana di dati generati dalle macchine.

Il senso letterale, il grado zero della interpretazione dei dati, è garantito dalla uniformazione. Occorre che i dati siano tutti ricondotti al medesimo formato, il che comporta il ricorso a principi ontologici[15] che devono tornare a essere di dominio pubblico, superando la privatizzazione per scopi commerciali e militari. In questa operazione, le banche della virtù hanno un vantaggio ermeneutico rispetto alle piattaforme commerciali, perché dispongono non solo di dati sintattici, ma anche di dati semantici. Nel gergo informatico, i dati semantici si chiamano SQL, structured query language: strutturati in modo da poter essere cercati. Con ciò si intende che con questi dati si registrano, in modo ordinato, per esempio, gli estremi anagrafici del paziente di una azienda sanitaria, le patologie cui è soggetto, le terapie cui è stato sottoposto; e ogni volta che si digita il suo nome si recupera l’informazione e se necessario la si arricchisce non nuovi dati. Lo stesso vale per le opere di un certo autore in una biblioteca, gli esami sostenuti da uno studente e i punteggi ottenuti, le fatture emesse da una azienda.

Si tratta di dati molto chiari ma necessariamente limitati, perché per essere registrati devono avere un senso, e richiedono l’intervento umano. Completamente diversi sono i dati sintattici (no SQL, sempre nel gergo informatico), che consistono in lunghissime liste di documenti raccolti con la logica della Enciclopedia Cinese di Borges: geolocalizzazioni, ricerche, comportamenti, acquisti, velocità di spostamento, bioritmi. La loro ricchezza dei dati no SQL è evidente, ma il loro uso è sub-ottimale, perché la loro valorizzazione è posta in capo agli algoritmi, che sono intelligenti, ma solo fino a un certo punto, non essendo umani, e dunque potendo prendere delle cantonate da idiot savant nel correlare i comportamenti dell’umanità. È proprio a questa intrinseca debolezza degli algoritmi che potrebbero porre rimedio le banche della virtù, accoppiando i dati strutturati in loro possesso con altri non strutturati (quelli relativi ai suoi iscritti ottenuti dalle piattaforme commerciali) realizzando un valore conoscitivo molto maggiore. Con questo diviene possibile rispondere a una legittima preoccupazione: per poter estrarre informazioni dai big data servono tecnologie e conoscenze innovative. Le amministrazioni pubbliche, le Asl, le banche cooperative, le università e i musei, ossia le istituzioni passibili di trasformarsi in banche della virtù sono piccole, rispetto alle piattaforme commerciali, e meno attrezzate ermeneuticamente, dunque sono destinate a soccombere nel confronto. Ma se, come abbiamo visto, le banche della virtù, diversamente dalle grandi piattaforme commerciali, dispongono di dati ordinati (i correntisti di una banca, i soci di una cooperativa), non hanno bisogno di ricorrere esclusivamente agli algoritmi per calcolare i dati social dei loro affiliati, riducendo l’aleatorietà dei processi abduttivi. Quanto alle tecnologie e alle conoscenze innovative, si possono, anzi si devono, sviluppare, valorizzando l’intelligenza dei ricercatori e delle università che sosterranno le banche della virtù nella elaborazione dei canoni ermeneutici di cui, per fortuna, né la Silicon Valley né Shanghai possiedono l’esclusiva.

Il corrispettivo senso allegorico nella ermeneutica dei dati è quello conseguito dalla correlazione, ossia dalla trasformazione del capitale sintattico in un capitale semantico, tra i dati SQL e i dati no SQL. Se l’unica cosa che si capisce in una classificazione di animali distinti in “appartenenti all’Imperatore”, “dipinti con un pennello finissimo” o “che hanno rotto un vaso”, è che la classificazione è illogica, quando si dispone di miliardi di dati riferiti ai comportamenti e alle emozioni di milioni di persone si possono trovare correlazioni impensabili. E, per esempio, scoprire che c’è una correlazione fra il tabagismo e le lunghe soste in autostrada, tra la fitta messaggistica con il partner e la prossimità di una crisi familiare, tra il modo in cui si tossisce e la positività o meno a un certo virus. Le regole della correlazione, che costituiscono il nocciolo della cosiddetta “data science”, costituiscono una mescolanza di precetti ermeneutici ed epistemologici[16]. La struttura generale che sta alla base del processo di allegorizzazione o di contestualizzazione è il ricorso a un metodo abduttivo, cioè nella formazione di un sillogismo in cui la premessa maggiore è certa e la premessa minore è probabile, sicché la conclusione risulta solo probabile: ci sono molti telefoni fermi in un certo luogo (maggiore); quando molti telefoni sono fermi e concentrati ci può essere un ingorgo stradale (minore); Google Maps segnala un ingorgo, ma non necessariamente è così, magari c’è un concerto in piazza. Ma se oltre agli algoritmi per calcolare i dati sintattici si dispone, come nel caso delle banche della virtù, di banche dati ordinate, l’abduzione gode di una probabilità molto più alta.

Il corrispettivo del senso morale nella ermeneutica dei dati è quello che compete all’applicazione dei dati. È in riferimento all’applicazione che ha luogo la produzione di valore, giacché il valore è relazionale, e consiste in un passaggio dal dato al senso e dal quantitativo al qualitativo, che hanno senso soltanto entro un contesto umano, ossia nel quadro della antroposfera che costituisce l’origine e il fine della docusfera. In questo non c’è nulla di peculiare nei dati, e riflette i caratteri della genesi del valore in un contesto economico: il petrolio vale solo in una economia che sappia ricavarne energia, un Caravaggio vale solo in un mondo che sa cosa è l’arte, e i colpi di tosse dell’umanità o le posizioni del deretano degli automobilisti valgono solo se ci sono gli strumenti per registrarli e trarne vantaggi diagnostici o incrementi del confort di guida. La differenza non sta nel dato, ma nel fatto che nel caso delle piattaforme il valore è determinato dal mercato solo nel caso delle vendite pubblicitarie, ma non in quello della profilazione e della automazione. Occorre creare uno strumento di misura partendo dalla creazione di una teoria generale del valore come relazione, applicabile tanto in ambito morale quanto in quello economico.

Il senso anagogico, ossia la teleologia che deve guidare l’interpretazione, si declina, nell’ermeneutica dei dati come progettazione. Qui l’idea di fondo del Webfare, che riprende proposte già presenti nel dibattito economico[17] è che la metrica del benessere non sia semplicemente finanziaria, e che si tratti di introdurre altri parametri, come la felicità, l’educazione, la sicurezza e l’equa distribuzione dei beni, in mancanza dei quali ogni progresso sarebbe solo di facciata. Ci sono fattori come la quantità e qualità di tempo libero disponibile, la fiducia nelle istituzioni, la qualità delle strutture di sostegno sociale, che non vengono computati nel Pil, il che rende altamente problematica l’identificazione tra benessere economico e benessere sociale. Quello che potrebbe apparire come una semplice esortazione può trasformarsi in una concreta realtà proprio attraverso questa ermeneutica anagogica applicata ai dati. Il nuovo patrimonio, infatti, si ottiene intercettando un valore nuovo e intrinsecamente collettivo, un patrimonio dell’umanità che non ha grande valore quanto alla produzione di ogni singolo, ma che poggia su una correlazione di dati che potenzialmente investe tutto il genere umano. Così, la vera origine del valore va cercata non nel singolo, ma nella umanità, compresa quella che non ha niente, e a questa va restituita. Questa circostanza è decisiva, ed è per l’appunto la via che ci permette di aggirare tanto l’immane ingiustizia di un genere accomunato dai bisogni e differenziato dalle risorse, quanto l’astratto risentimento di chi, per mancanza di immaginazione crede che il mestiere di pensare si riduca alla critica dell’esistente.

Capitalizzazione

Diversamente che nella ermeneutica tradizionale, l’interpretazione non si limita alla esplicitazione di un senso, ma comporta la creazione di un valore, cioè appunto alla formazione del patrimonio dell’umanità. In altri termini, lo scopo della acquisizione e della interpretazione è la creazione di una capitalizzazione alternativa che si può articolare in intermediazione, approfondimento, investimento ed efficientamento.

Quanto alla intermediazione, occorre osservare una circostanza cruciale. La restituzione dei dati ai soggetti della mobilitazione costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente equivalendo, in grande, a conservare tutti i biglietti dei treni, gli scontrini dei negozi, le cartoline dal mare: cosa ce ne facciamo, a parte riandare ai bei tempi che furono e che interessano solo noi, quando va bene? Oltre che inutile, l’operazione appare sciocca, perché in quel pagliaio di like, di comportamenti, di bioritmi ci vorrebbe una pazienza inumana, quella di un computer, per trovare non dico un valore, ma un senso qualsiasi. Se i dati non valgono per noi ma per le piattaforme dipende dal fatto che queste, aggregandoli con milioni di altri dati e interpretando le correlazioni, li rendono significativi e dunque capitalizzabili appunto in quanto fonte di proventi pubblicitari, profilazione e automazione. Nessuno di noi, infatti, è costretto a cercare di capitalizzare individualmente i propri dati, perché – lo ripeto – ad aver valore non sono i dati individuali, ma quelli aggregati, a meno che la piattaforma non sia governativa, e dunque interessata a comportamenti individuali, o abbia caratteristiche specifiche. Del pari, anzi, meno che mai, nessuno di noi è costretto a improvvisarsi piattaforma aggregatrice chiedendo (a che titolo poi?) dati altrui. L’intermediazione costituisce dunque la struttura che permette la trasformazione dei dati in valore. Questo è vero in ogni caso, GAFAM come per BATX, e deve valere dunque anche per le banche della virtù.

Il valore ricavato dalla interpretazione può essere anzitutto conoscitivo. L’incremento, ossia l’uso dei dati per accrescere le conoscenze scientifiche, è largamente presente nelle piattaforme commerciali e in quelle nazionalizzate, ma il copyright e il segreto di stato fanno sì che tesori di conoscenza restino sepolti. Di qui un primo ruolo caratteristico delle banche della virtù: il rendere di dominio pubblico non i risultati delle ricerche, che vanno allocati sul mercato creando profitto, ma le modalità di trattamento, interpretazione e capitalizzazione dei dati, creando una coscienza diffusa tanto del loro valore quanto delle metodiche di rielaborazione. In altri termini, appare del tutto ragionevole che una ASL ceda a una azienda biomedica i risultati delle correlazioni tra i dati SQL e i dati no SQL, stabilendo così preziose connessioni fra stili di vita e patologie; così come è perfettamente ragionevole che l’azienda biomedica tenga per sé le conoscenze che ha comprato nel periodo in cui ne sfrutta commercialmente il valore. Resta tuttavia che l’interpretazione dei dati avrà fatto crescere le conoscenze e le capacità della sfera pubblica, con un vantaggio immediatamente percepibile e utile per la collettività.

L’investimento, in questo quadro, costituisce l’esito speculativo dell’incremento. Ciò che da una parte è un acquisto teorico, ossia una migliore conoscenza del mondo naturale e sociale, può dall’altra diventare un investimento pratico, ossia generare delle opportunità di investimento. Se nell’esempio dell’ASL la monetizzazione consisteva nella vendita dei dati a una azienda biometrica, si può pensare anche ad azioni più nettamente speculative. In concreto, una banca può servirsi delle proiezioni ricavate dall’interpretazione dei dati social dei propri clienti per ricavare informazioni di mercato, prospezioni di borsa, stime dell’aumento del valore di terreni edificabili. In questo modo, la banca accrescerebbe enormemente le proprie conoscenze sugli andamenti dei mercati, recuperando il gap che si è venuto a creare, attualmente, tra banche e piattaforme, dove le prime, che un tempo avevano delle conoscenze privilegiate (i flussi di capitali) oggi sono sfavorite rispetto alle seconde, che hanno conoscenze estremamente più ricche e informative, ossia i flussi di dati.

L’efficientamento, infine, costituisce l’esito non speculativo dell’incremento, e consiste nell’uso delle conoscenze acquisite attraverso l’interpretazione dei dati per il miglioramento di pratiche e di processi, trasferendo, per esempio, nell’ambito dell’amministrazione pubblica i vantaggi delle piattaforme commerciali. Non c’è alcun motivo perché una amministrazione pubblica non sia efficiente come Amazon, se non il fatto che, diversamente da Amazon, non sa adoperare in maniera efficiente i propri dati, e questo perché, in molti casi, non ne ha ancora compreso il valore. La creazione di un mercato dei dati, in questo quadro, sarebbe un passo indispensabile affinché le istituzioni, gli umani che le compongono e gli umani a cui si indirizzano, prendano coscienza della natura e del valore del patrimonio dell’umanità.

Ridistribuzione

Veniamo infine alle forme di ridistribuzione dei proventi della capitalizzazione alternativa. Questo, in definitiva, è il punto più delicato e che richiede maggiore discernimento politico. Qui, escluse le vie della nazionalizzazione e della privatizzazione, occorre avviare in prima battuta un processo di mutualizzazione, e in seconda battuta un processo di capitalizzazione.

Il perché si escluda la nazionalizzazione dovrebbe essere chiaro. Lo Sato, qualora assumesse il controllo delle piattaforme, si trasformerebbe in un incubo panottico. Qui si apre un grande problema che per il momento mi limito a indicare come tale: è possibile includere nelle banche della virtù anche le amministrazioni dello Stato? Non si rischierebbe di porre le basi per uno Stato di sorveglianza? Non ho risposte a questi interrogativi, che mi limito a indicare come tali.

Se è chiaro il rischio della nazionalizzazione, non meno chiaro dovrebbe essere il motivo di esclusione della privatizzazione dalle forme di ridistribuzione, appunto perché la privatizzazione e l’uso proprietario dei dati si limiterebbe a riprodurre, su scala minima, lo stile appropriativo delle piattaforme. Se lo menziono è tuttavia perché costituisce un pericolo non troppo teorico e una possibile minaccia al buon funzionamento del Webfare.

L’ostacolo al Webfare, in questo caso, dipende non dalle nequizie del capitale, ma dall’egoismo degli esseri umani, usi a rimproverare le piattaforme ma pronti a comportarsi come loro appena possono. L’egoismo di chi dirà che i mille euro all’anno li vuole per sé e non per chi non ha soldi e ha aperto un conto in dati. O l’egoismo di chi già oggi si rallegra per la nascita di piattaforme non centralizzate, basate sulla tecnologia della blockchain, contando di privatizzare il patrimonio dell’umanità trasformandolo in un patrimonio individuale, oltretutto modesto giacché sprovvisto di quel valore che deriva dall’aggregazione dei dati. E facendo sfumare l’enorme risorsa di un capitale completamente nuovo, nato dall’umanità e a essa destinato, e con l’aggravante, rispetto ai conquistadores, di non avere neppure attraversato il mare, riconosciuto un tesoro, prese delle decisioni, usato il cervello, corso dei rischi.[18]

Venendo ora alle azioni positive, la prima deve consistere nella mutualizzazione. Come abbiamo visto, la vita umana è il momento genetico e il fondamento ultimo del valore[19]; il principio guida della ridistribuzione del valore consiste dunque nell’attuazione del principio “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Il che significa che tutti gli umani connessi con il Web producono valore, ma solo coloro che non hanno altri redditi percepiscono i dividendi della capitalizzazione. La ratio di questa attribuzione, diversa dai redditi universali, o di cittadinanza, che si sono proposti negli ultimi due secoli e con una crescente intensità negli ultimi decenni (ossia in concomitanza con i problemi occupazionali posti dall’automazione: reddito sociale digitale[20], reddito contributivo[21], lavoro sociale[22]…) poggia, così, su un principio di mutualizzazione. Per “mutualizzazione” si intende solitamente la ripartizione di un debito tra molti soggetti; in questo caso, abbiamo invece a che fare con una mutualità che poggia non sul debito, ma sul credito. Tutti i soggetti implicati nel processo di capitalizzazione creano valore, ma coloro che dispongono già di una fonte di reddito rinunciano volontariamente ai loro profitti per ridistribuirli, in maniera più sostanziosa economicamente perché non si tratta di una ridistribuzione a pioggia, a coloro che non dispongono di reddito ma hanno fornito i loro dati. Facciamo l’esempio della banca. I correntisti che danno mandato alla banca di recuperare e capitalizzare i loro dati social soldi ne hanno già; tanto è vero che hanno un conto in banca. Si suppone anche che siano persone generose, visto che imprecano contro l’avidità dei conquistadores, delle piattaforme commerciali che tengono per sé profitti che a rigore appartengono all’intera umanità. Sarebbe dunque il colmo che pretendessero un bonifico risultante dalla capitalizzazione dei loro dati, anche perché l’aspetto interessante dei dati è che valgono tanto di più quanto più numerosi sono gli umani che forniscono dati. A meno che siano degli ipocriti e dei fanfaroni nelle loro tirate antiliberiste, si suppone che saranno dunque ben lieti se, poniamo, il miliardo di euro della capitalizzazione non sia ridistribuito tra il milione di correntisti (farebbe mille euro all’anno, ossia meno di cento euro al mese) ma consentisse di versare diecimila euro a centomila poveri che non hanno un conto in banca, ma che possiedono un telefonino, e che hanno aperto un conto in dati presso la banca, aumentandone il capitale di dati e avviano un percorso di cittadinanza sostanziale e non solo formale. Perché i diritti e al limite i documenti sono ben poco, sino a che non si hanno anche dei soldi. In compenso, la rinuncia volontaria alla propria parte di capitalizzazione non ha un carattere forzoso o illiberale, dal momento che tutti coloro che hanno aderito al processo di capitalizzazione alternativa lo hanno fatto spontaneamente, restando per loro pienamente aperta la via di non aderire, e quindi o di non capitalizzare i propri dati, o di capitalizzarli nella forma della privatizzazione.

Conclusioni

Venendo infine alla capacitazione, si tratta dell’obiettivo più ambizioso del Webfare, e consiste nel porre le basi per la trasformazione dell’homo faber in homo sapiens, o, più limitatamente ma realisticamente, nella educazione dell’homo consumens in quanto homo valens. Il futuro dell’umanità, liberata dal peso della fatica e della ripetizione, sarà caratterizzato da un ruolo crescente dell’educazione, proprio come gli ultimi diecimila anni sono stati assorbiti dalla produzione. Le risorse ci sono, solo si tratta di riconoscerle e di investirle con una cooperazione tra valore economico, valore culturale e valore morale capace di creare un circolo virtuoso. Creando così una situazione in cui gli spiriti animali dell’umanità, presenti da che umano è umano ma oggi trasformabili in dati e in valore, costituiscano una risorsa che ci accompagni nel passaggio infinito, ma doveroso e definitorio della natura umana, dalla scimmia all’uomo, dall’odiatore al formatore, e magari anche dal pensatore negativo al pensatore propositivo. Si tratta però di un tema così ampio e importante che vi dedicherò il prossimo (e ultimo!) intervento di questa serie.

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Montes, R., Sand-Zantman, W., & Valletti, T. (2019). The value of personal information in online markets with endogenous privacy. Management Science, 65(3), 955–1453.

Provost, F. e Fawcett, T. (2013). Data Science and its Relationship to Big Data and Data-Driven Decision Making. Big Data, vol. 1, n. 1, 13.2.2013: 51–59.

Romele, A. (2019). Digital Hermeneutics: Philosophical Investigations in New Media and Technologies. London: Routledge.

Rossi, S. (2022). Indagine sul futuro. Roma-Bari: Laterza.

Stiegler, B. (2015). La Société automatique, 1. L’avenir du travail. Paris: Fayard.

Stiegler, B., Kyrou, A. (2016). Le revenu contributif et le revenu universel. “Multitudes” 2(2): 51-58.

Tirole, J. (2017). Economics for the common good. Princeton: PrincetonUniversity Press.

Van Parijs, P., Vanderborght, Y. (2005). Il reddito minimo universale. Milano: Egea 2006.

  1. “il cliente possiede la proprietà dei dati creati e raccolti su di lui con la possibilità di ‘investirli’ per ottenere denaro – guadagnando anche migliaia di euro nel giro di un anno” Ansa 2022.
  2. Rossi 2022: 9.
  3. “L’interessato ha il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati personali che lo riguardano forniti a un titolare del trattamento e ha il diritto di trasmettere tali dati a un altro titolare del trattamento senza impedimenti da parte del titolare del trattamento cui li ha forniti”.
  4. Génération Libre 2018.
  5. Lehdonvitra et al. 2016.
  6. Goolsbee 2019; Tirole 2017.
  7. Bolognini, De Michelis 2018.
  8. Mayer-Schönberger, Ramge 2019.
  9. Bolognini & de Michelis 2018; Montes, Sand-Zantman & Valletti 2019.
  10. Matsuda 2021.
  11. EU Commission 2021.
  12. Casilli e Bouquin 2020. Casilli 2018. Lehdonvitra et al. 2016.
  13. Ferraris 1988.
  14. Romele 2019
  15. Arp, Smith, Spear 2015.
  16. Eccone alcuni, a titolo di esempio (Provost e Fawcett 2013): seguire del processi espliciti, verificabili e ripetibili; tenere conto del contesto di produzione dei dati; scomporre analiticamente il problema da risolvere attraverso i dati; considerare che entità che si assomigliano sotto aspetti noti possono assomigliarsi anche sotto aspetti ignoti; non generalizzare le conclusioni tratte da un insieme di dati troppo limitato, o analizzato a un livello elevato di dettaglio; cercare di non trarre conclusioni condizionate da fattori esterni ai dati che si esaminano.
  17. Stiglitz, Sen, Fitoussi 2010; Stiglitz, Fitoussi, Durand 2019.
  18. Va osservato tuttavia che le caratteristiche della Blockchain rendono molto difficile la realizzazione dei sogni di capitalizzazione su larga scala. La prima caratteristica saliente è la tecnicità. Mentre per navigare su un sito non occorrono né competenze né motivazioni, quando si accede alla Blockchain lo si fa per un motivo e disponendo di competenze tecniche in mancanza delle quali non si può fare niente. Questa caratterizzazione suggerisce che la maggior parte delle azioni compiute dalla Blockchain saranno, almeno sino a che non si troveranno delle interfacce davvero semplici, mediate da tecnici. La seconda caratteristica è la semanticità. Sulla Blockchain non si producono dati sintattici, i metadati che costituiscono il grande capitale del XXI secolo, ma soltanto dati semantici, i risultati di atti coscienti e di per sé significativi, e questo per l’ottimo motivo che la Blockchain salva esclusivamente ciò che noi vogliamo che salvi – dunque non la nostra geolocalizzazione, i nostri colpi di tosse, il nostro sgranare gli occhi, bensì l’acquisto di un Non-Fungible Token o una transazione in criptovaluta. Questa caratteristica, da sola, suggerisce che molto difficilmente la Blockchain potrà sostituire le piattaforme tradizionali, che sono molto moderatamente interessate alle nostre idee e ai nostri atti deliberati, e puntano sui nostri comportamenti e sentimenti. La terza caratteristica, quella cruciale, è la privatezza. Ci siamo accorti da tempo che la privacy non è un problema perché alle piattaforme commerciali importano i dati aggregati, non quelli individuali. La Blockchain costituirebbe, invece, un elemento di privatizzazione del dato che ridurrebbe il potenziale universalistico e umanitario del web: proprietari dei dati, gli utenti li terrebbero per sé e proverebbero a investirli individualmente, annullando le possibilità di un uso benevolo e benefico del web, che è tale solo nella misura in cui si tratta di autorizzare l’investimento di dati che, come quelli dei social, sono nostri, ma non in nostro possesso perché vanno richiesti alle piattaforme. Le regole rigide e irreversibili della Blockchain contrastano l’enorme possibilità di ridistribuzione del valore a vantaggio della intera umanità che si apre con il capitale documediale. Dunque, non è solo questione di piattaforme, ma di orientamento politico, così da superare una possibile deriva egoistica del capitale documediale. La somma dei nostri dati è un valore che può andar disperso alla nostra morte, ma andrebbe sprecato, o sarebbe sottoutilizzato, se non venisse disperso, ma a goderne fossero solo i nostri eredi diretti, come avviene per ogni altro bene. Visto che, come abbiamo visto, il valore dei dati nasce dalla loro correlazione, dunque da una interazione tra il singolo e l’umanità, è giusto vedere in quel valore un possesso collettivo, ossia un monte da trasmettere non solo e non tanto ai nostri eredi diretti, ma, collettivamente a coloro che, altrimenti, sarebbero dei diseredati. Perché combattere le piattaforme commerciali in nome dell’egoismo individuale?
  19. Il “salario a vita”( Friot 2012) va dunque concepito come un salario per la vita, come un salario di mobilitazione, ossia, se vogliamo, di sopravvivenza non perché sia finalizzato a farci sopravvivere, ma perché il valore è frutto della nostra sopravvivenza.
  20. Casilli 2019.
  21. Stiegler e Kyrou 2016.
  22. Stiegler 2015.

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