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Automazione: sì, no, quale? Le due facce della Fabbrica 4.0

Il libro “Il lavoro operaio digitalizzato” appena uscito – esito di una ricerca sul campo nell’industria metalmeccanica bolognese – ci riporta ai temi e alle due facce della Fabbrica 4.0

Pubblicato il 01 Mar 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

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Il tema – il problema – ci insegue dall’inizio della rivoluzione industriale ed è quello della relazione/conflitto tra uomo e tecnologia, tra lavoro umano (vivo) e lavoro morto delle macchine (apparentemente morto, ma generativo di crescenti incrementi di produttività, di intensificazione dei tempi-ciclo, di efficienza macchinica, quindi di profitto/plusvalore capitalistico), lavoro a sua volta diviso tra nuova occupazione tecnologica e disoccupazione tecnologica (pensiamo ai luddisti di inizio Ottocento).

Il tutto legato al sempre maggiore peso, oggi, di automazione e digitalizzazione, della cosiddetta intelligenza artificiale, con una conseguente e crescente delega dell’organizzazione, del comando e della sorveglianza su lavoro e persone a sistemi automatici/automatizzati – quindi alla crescente alienazione dell’uomo da sé stesso e dalla propria intelligenza e consapevolezza di ciò che sta facendo.

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Negli ultimi anni (pre-pandemia), molte sono state le previsioni da sfera di cristallo sull’impatto che la cosiddetta quarta rivoluzione industriale avrebbe avuto sul lavoro – che quarta non è, perché è sempre la medesima rivoluzione industriale da allora ad oggi, perché sempre è basata sulla sua immodificabile legge ferrea (divisione del lavoro umano e macchinico e sua successiva integrazione/totalizzazione in un sistema di uomini e macchine); dove a cambiare nel corso del tempo è solo la tecnologia di connessione usata per integrare il lavoro prima suddiviso: ieri la catena di montaggio e il taylorismo, oggi il digitale e il taylorismo digitale.

Automatizzarsi o restare umani

Un libro appena uscito – esito di una ricerca sul campo nell’industria metalmeccanica bolognese – ci riporta a questi temi. Titolo: “Il lavoro operaio digitalizzato” , pubblicato da Il Mulino, e curato da Francesco Garibaldo (Direttore della Fondazione Sabattini di Bologna) e da Matteo Rinaldini (che insegna Sociologia del lavoro e dell’organizzazione all’Università di Modena e Reggio Emilia). Dalla ricerca emerge una realtà a due facce della Fabbrica 4.0, anche se nella nostra lettura della ricerca la prima faccia (quella negativa e critica) è molto più presente, pesante e disumanizzante (per le persone occupate) della seconda (quella che trova comunque, nei processi di digitalizzazione del lavoro, degli aspetti positivi e di miglioramento).

Dal lato negativo vi sono infatti – e già chi usa un pensiero critico e riflessivo sui temi dell’innovazione lo sapeva, ma la conferma è importante e ci è utilissima – “i processi di standardizzazione delle attività lavorative, di densificazione dei tempi e di aumento dei ritmi lavorativi, di riconfigurazione delle gerarchie interne, di trasformazione delle competenze degli operatori non necessariamente verso l’alto (anzi, in alcuni casi è stato riportato dagli intervistati un processo di impoverimento delle competenze), e poi di diffusione di sistemi premianti (o sanzionatori) sul piano individuale e di monitoraggio della prestazione individuale sempre più stringenti e pervasivi”. Standardizzazione, densificazione/intensificazione dei ritmi lavorativi, nuove gerarchie, eterodirezione: appunto, siamo sempre in pieno taylorismo e in pieno capitalismo di sfruttamento del lavoro, semmai aggravato dalla digitalizzazione.

Per contro – è appunto l’altra faccia della medaglia – si avrebbero “significativi miglioramenti degli ambienti lavorativi sul piano della salute e sicurezza e dell’ergonomia delle postazioni e degli strumenti di lavoro” (qualcosa che in realtà dovrebbe avvenire a prescindere dalla Fabbrica 4.0). Per alcune figure professionali – ma solo per alcune – si sarebbe verificato anche “un aumento di responsabilità e un parallelo incremento della discrezionalità” del lavoratore, sempre però “all’interno di uno spazio etero-regolato, nello svolgimento della propria attività di lavoro, a cui tuttavia non sembra corrispondere affatto un aumento di autonomia intesa come capacità di regolare (nei modi e nei contenuti) il proprio processo di lavoro”[1].

E sottolineiamo: etero-regolato e assenza di una reale autonomia dei lavoratori – così smontando una volta di più[2] tutte le retoriche delle scuole di management e delle business school che favoleggiano di un management finalmente dal volto umano per garantire una prestazione di lavoro davvero creativa, autonoma e responsabilizzata e che si realizzerebbe ora proprio nel e grazie al lavoro digitalizzato/Fabbriche 4.0 e nel capitalismo delle piattaforme; tutto risolvendosi piuttosto e invece – come sosteniamo da tempo – in una digitalizzazione del vecchio/nuovo taylorismo e nella semplice riverniciatura (è un ennesimo management-washing, come avvenuto per tutto il Novecento) del più vecchio management. E che si esprime anche e sempre più in una organizzazione, in un comando e nel controllo centralizzati (le nuove gerarchie) e digitalizzati, come nella vecchia fabbrica novecentesca ma accentuati e accresciuti però quanto a pervasività e invasività – come appunto evidenzia anche questa ricerca. E all’interno dell’intensificazione dei tempi-ciclo, “la variabile che la fa da padrona è una richiesta di alta velocità di prestazione”, che era l’esigenza/obiettivo ricercato anche da Taylor e dalla sua continua ricerca della one best way. Per la fabbrica e il capitale, non certo per i lavoratori.

Di più e peggio, per ciò che riguarda libertà e democrazia: invertendo la rotta verso una democratizzazione della fabbrica iniziata dalla metà del Novecento, il digitale/nuove tecnologie (che avevano promesso di essere libere e democratiche in sé e per sé[3]), insieme con il neoliberalismo stanno riportando appunto l’impresa sempre più verso la monocrazia/autocrazia del passato, concentrando di nuovo il suo governo nelle mani della proprietà e della direzione aziendale. Inoltre, continua la ricerca, i lavoratori hanno “la percezione di  despecializzazione  e sostituibilità della propria mansione”, elemento ulteriore che va a smontare di nuovo le retoriche/propaganda del management e delle business school sui lavoratori che sarebbero diventati collaboratori dell’impresa e dell’imprenditore, sul manager come leader e non più come capo, sui manager della felicità eccetera eccetera.

Ancora la ricerca bolognese: “Allo stesso tempo, nonostante l’evidente incremento dell’adozione delle tecnologie 4.0 lungo i processi produttivi di tutte le imprese studiate, risulta evidente l’importanza che continua a rivestire la componente umana nel processo di lavoro, la sua capacità critica di azione e decisione, senza la quale la macchina si fermerebbe, con buona pace dell’idea della fabbrica a luci spente che tanto ha affascinato e in certa misura continua ad affascinare intellettuali e divulgatori”[4]. Peccato che questa capacità critica di azione e di decisione venga poi contraddetta appunto dalla crescente introduzione delle tecnologie 4.0, dalle nuove gerarchie digitali, dall’impoverimento complessivo delle competenze dei lavoratori e della conoscenza – e la distinzione tra conoscenza (sempre meno) e competenze (sempre più impoverite) ma sempre più richieste è fondamentale, ma è sempre dimenticata dell’impresa. Perché la tecnologia e il capitale – il tecno-capitalismo – per propria essenza tendono progressivamente ad escludere la componente umana, sostituita da macchine e/o gestita sempre più da algoritmi, sia per quanto riguarda organizzazione, comando e controllo del lavoro, sia per quanto riguarda la qualità del lavoro.

Disoccupazione tecnologica. Una questione antica

Scriveva John Maynard Keynes nel 1930 – è una conferenza tenuta a Madrid nel giugno del 1930 (quella, famosissima Sulle prospettive economiche per i nostri nipoti) e pubblicata poi nell’ottobre dello stesso anno[5]: “i miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente nella storia. Negli Stati Uniti la produzione pro capite dell’industria, nel 1925, superava del 40% quella del 1919. In Europa, ostacoli contingenti ci hanno intralciato il cammino […]. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni nei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire, la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impeghi per la stessa manodopera”. Come ancora oggi.

Ma questa – continuava Keynes, sbagliando previsione, vista con gli occhi di oggi, quasi cento anni dopo – “è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. […] Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori”.

E aggiungeva: “per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato per vivere bene, piacevolmente e con saggezza. […] Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”[6].

Le cose, come è evidente, sono andate in tutt’altro modo. Non abbiamo risolto il problema economico, le disuguaglianze stanno crescendo, tempo di lavoro e di consumo e tempo di vita sono ormai la stessa cosa e non abbiamo un tempo veramente libero, viviamo male e senza saggezza anche se ci divertiamo molto, siamo soggetti produttivi e consumativi h 24, la disoccupazione tecnologica si ripropone sempre e sempre più grave e non è mai transitoria ma ormai endemica.

Ma soprattutto, deleghiamo a macchine sempre più automatizzate il governo della vita intera dell’uomo e delle società umane.

Intelligenza artificiale. Forse

E concludiamo allora questa ricognizione su tecnica e/o libertà, arrivando a Kate Crawford e al suo saggio sull’intelligenza artificiale, “Né intelligente, né artificiale[7]. IA che non è solo qualcosa di immateriale ma è una megamacchina che sfrutta risorse naturali, uomini e lavoro, distruggendo quella privacy che era la base e l’essenza vera della libertà individuale; IA e che quindi minaccia l’eguaglianza, la libertà e la democrazia. Perché l’IA richiede infrastrutture gigantesche, cavi sottomarini, risorse minerarie fisiche, data center energivori, centri logistici – altro che pensare di risolvere la crisi climatica grazie al digitale… – e allo stesso tempo influenza pervasivamente la vita di miliardi di persone, al di fuori o contro le regolamentazioni esistenti e soprattutto – Crawford in perfetta sintonia con quanto sosteniamo da tempo, anche su queste ‘pagine’ – senza un controllo democratico: il che significa che oggi non siamo più in sistemi democratici, ma sempre più in una megamacchina tecno-capitalista, anch’essa autocratica, totalmente sfuggita al controllo umano.

Ha commentato Teresa Numerico, docente di Logica e filosofia della scienza a UniRoma3 e autrice di “Algoritmi e Big Data[8]: “I sistemi dell’intelligenza artificiale si manifestano per quello che sono: potenti strumenti di potere e di discriminazione, nascosti appena sotto il tappeto del dispositivo tecnico, asettico e ritenuto affidabile, senza ulteriori verifiche. Gli esseri umani e le loro capacità di riconoscimento ed elaborazione di categorie per includere e per discernere tra oggetti, eventi ed emozioni sono messi al lavoro dal sistema algoritmico per l’organizzazione del mondo. L’intelligenza artificiale è finanziata da un vorace sistema capitalistico che, in alcuni casi è connesso con le strutture di controllo degli stati, e manifesta la volontà di regolare, riconoscere e rinominare il mondo secondo criteri prestabiliti e ideologici. […] Non sappiamo se queste macchine siano intelligenti. Secondo Crawford, non lo sono […]. Ma la questione è anche più complessa: chi decide cosa è intelligente, una volta che la capacità cognitiva umana viene estratta dalle macchine e non c’è modo di controllare quello che suggeriscono? […] Il rischio di questo regime di potere, reso possibile dalle tecnologie digitali, è che rendendo obsoleta la ragione umana, potrebbe escludere il dissenso e la legittimità stessa di un processo di verifica dei risultati ottenuti”[9].

Note

  1. F. Garibaldo – M. Rinaldini (a cura di), “Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese”, il Mulino, Bologna, 2021, pag. 193-194
  2. Si legga questa ricerca con quelle svolte da Matteo Gaddi sull’Industria 4.0 milanese e veneta, in particolare: M. Gaddi, “Industria 4.0. Più liberi o più sfruttati?”, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2019
  3. Sempre utile rileggere il fondamentale: Gruppo Ippolita, “La Rete è libera e democratica. (Falso!)”, Laterza, Roma-Bari, 2014
  4. F. Garibaldo – M- Rinaldini (a cura di), “Il lavoro operaio digitalizzato”, cit. pag. 194
  5. Presente in diverse edizioni, qui ci rifacciamo a: J. M. Keynes, “La fine del laissez-faire e altri scritti”, (Introduzione di Giorgio Lunghini), Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pag. 61.
  6. Ivi, pag. 64 e 65
  7. K. Crawford, “Né intelligente, né artificiale”, il Mulino, Bologna, 2021
  8. T. Numerico, “Algoritmi e Big Data. Prospettive critiche”, Carocci, Roma, 2021
  9. T. Numerico, “Atlante di un nuovo potere”, il manifesto del 30/01/2022

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