L'accusa

DigitItalia, vecchia Italia

Il divario digitale è dentro ognuno di noi. L’Agenda è un modello di pura digitalizzazione dell’esistente che tende a conservare le logiche di potere presenti nella pubblica amministrazione. Grillo? Non aiuta. La riflessione del noto sociologo delle nuove tecnologie

Pubblicato il 16 Gen 2013

Giovanni Boccia Artieri

Università di Urbino Carlo Bo

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Riflettere sullo sviluppo del digitale in Italia significa scontrarsi con un’inevitabile pars destruens che ha a che fare con un’arretratezza del dibattito e con un divide sociale che è culturale prima che tecnico-strutturale. Ci troviamo infatti di fronte a tre tipi di limite che si spalmano culturalmente nelle pieghe politiche ed amministrative e che hanno tangenzialmente a che fare con lo sviluppo infrastrutturale del Paese: la realtà è che il divario digitale in Italia è dentro ognuno di noi, ha a che fare con il nostro modo di pensarci con/nel digitale, con i nostri atteggiamenti culturali nei confronti della Rete e con un limite socio-antropologico del potere, tradizionalmente refrattario all’innovazione e propenso piuttosto ad affidarsi a cure di stampo “gattopardesco”: cambiare tutto per non cambiare nulla.


Eppure il primo limite è proprio di tipo infrastrutturale ma il suo senso più profondo è ancestrale non ha a che fare solo con le difficoltà di connessione e di velocità di trasmissione nel Paese. L’infrastruttura IT non viene considerata una priorità per essere cittadini e infatti non viene ricompresa nelle opere di “urbanizzazione primaria”, quelle per intenderci obbligatorie nello sviluppo di un territorio, come il diritto ad avere infrastrutture idriche od elettriche adeguate. Questa posizione politico-normativa, e quindi culturale, è così radicata che nemmeno l’Agenda Digitale appena varata la riesce a scalfire. Quindi innoveremo nella P.A. o nelle scuole costruendo slogan che inneggiano al mobile, agli Open Data, a device smart che poggeranno sul vuoto infrastrutturale. Come spiega in modo lucido Michele Vianello siamo di fronte ad un modello di pura digitalizzazione dell’esistente che tende a conservare di fatto le logiche di potere presenti nella pubblica amministrazione, con buona pace delle forme eterarchiche e peer del social networking e della necessità di ristrutturazione organizzative che principi di cloud computing introdurrebbero. Un passaggio radicale verso la dimensione del digitale marcherebbe invece una discontinuità delle forme organizzative. Per questo ogni riforma su cui si è lavorato finora si è ammantata di un’idea dell’innovazione come esercizio linguistico, di superficie, mantenendo però un atteggiamento conservatore di fondo.


Il digitale contiene quindi un senso di resistenza implicita nel nostro Paese e rappresenta un terreno di conflitto sociale e politico in cui si gioca il passaggio ad una idea diversa di cittadinanza che è supportata in modo corrispondente da un’amministrazione statale differente. Solo che si tratta, appunto, di un conflitto esplicitato poco e male culturalmente, con la conseguenza di un dibattito pubblico massmediale spesso superficiale. Difficilissimo trovare rappresentate nei talk show televisivi o nelle pagine principali dei quotidiani posizioni informative e consapevoli, a meno di non invitare un esperto a cui riservare il ruolo del geek per fare da contraltare a posizioni meno che competenti e populiste rappresentate dal conduttore o a titoli che rimandano al mondo dello strano-ma-vero di un futuro che non ci appartiene veramente.


E proprio perché ci troviamo di fronte ad un campo di conflittualità così trattato, un secondo limite con cui ci scontriamo lo possiamo individuare osservando le retoriche che accompagnano la penetrazione del digitale in Italia. Siamo spesso di fronte ad una tensione tra linguaggi da tecno-invasati e neo-inquisitori. Da una parte abbiamo sotto gli occhi le vulgate del populismo digitale, quello inscenato ad esempio da Beppe Grillo con affermazioni del tipo “abbiamo una popolazione vecchia che non usa la rete, che non usa i social network. Oggi siamo governati da parassiti dilettanti. Non sanno nulla”. Buono per raccogliere l’attenzione ed il sostegno del proletariato digitale, quello infooperaista rappresentato da uno stuolo crescente di informatici e tecnici che lavorano nel mondo ICT di tutte le imprese e nelle strutture pubbliche, o per raccogliere demagogicamente l’attenzione dei più giovani – non chiamateli “nativi digitali”, quelli saranno i loro figli!, fa parte della retorica anche questo – che hanno visto crescere la polarizzazione della comunicazione online, abituandosi ad usare strumenti e grammatiche del digitale in una società ad alto tasso analogico.


Dall’altra parte troviamo le resistenze alla costruzione di un dibattito che fino a qualche anno fa si limitavano a contrapporre le forme analogiche ad un digitale che avrebbe prodotto oggetti culturali comunque carichi di minore senso: vi ricordate dei dibattiti libro vs. ebook? O enciclopedia vs. wikipedia? Oggi che la portata trasformativa del digitale è più densa e visibile – basti pensare al mercato editoriale e pubblicistico – la posizione più radicalmente oppositiva viene riservata alla critica della ragione digitale o meglio alla costruzione di una retorica che freni il pensiero del cambiamento attraverso una divulgazione costruita a colpi di letteratura critica che sceglie sapientemente gli intellettuali più alla moda in questo campo. Basta osservare la narrazione che viene costruita attorno allo sfumarsi dei confini tra pubblico e privato e come al digitale venga di fatto ricondotto un possibile conflitto generazionale: “I teenager equipaggiati di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti in formazione e formati all´arte di vivere in una società-confessionale, una società notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava pubblico e privato, per aver fatto dell´esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle”, scrive con il solito tono apocalittico Zigmunt Bauman.
In mezzo abbiamo il tentativo di un dibattito competente ed illuminato (vorrei dire “illuminista”) che viene però schiacciato nella morsa di queste due retoriche o confinato ad esprimersi negli interstizi di blog – anche molto letti – o nella timeline dei social network ma che scala veramente la comunicazione solo quando può essere declinato da una parte o dall’altra.

Un terzo limite ha a che fare con le abitudini e le attitudini di consumo mediale degli italiani e con la relazione fra queste e la costruzione di una propria opinione sulla realtà.

Solo la metà delle famiglie italiane, dati Istat , ha un accesso alla rete (55.5%) e quasi 6 su 10 possiedono un personal computer (59.3%). Siamo al ventiduesimo posto nelle classifiche internazionali in compagnia della Lituania. Ma, anche qui, quello che dobbiamo chiederci è perché esista questo divario con gli altri Paesi e così scopriamo come le motivazioni abbiano motivazioni culturali (di cultura mediale) profonde: per 4 famiglie su 10 dipende dall’assenza di competenze nell’utilizzo di Internet, in pratica un “non so come usarlo” che riguarda il del 43.3%; e per quasi 3 su 10 dal fatto che la Rete non sia né utile né interessante, perciò non serve nemmeno la connessione (26.5%). D’altra parte l’Italia è un Paese massmedia-centrico o, per sintetizzare meglio, tv-centrico, che ha sviluppato le sue forme di informazione ed intrattenimento in particolare attorno allo schermo domestico. E lo è per sua storia culturale e politica, con una stretta linea di continuità che va dalla scelta in epoca paleotelevisiva da parte di DC e PCI di farne un medium educativo fino allo sviluppo neotelevisivo gestito attraverso l’avvento della televisione privata e che, come molti saggi mostrano, ha prodotto l’humus culturale adatto allo sviluppo della politica degli ultimi venti anni. Le opinioni degli italiani passano ancora molto attraverso la televisione, quindi attraverso forme verticali di comunicazione e tendenzialmente passive – escludendo il televoto, per dirla con una certa ironia. E basta guardare i trending topics su Twitter provenienti dall’Italia per vedere come siano frutto della pratica di social television che, al di là delle straordinarie possibilità di messa in connessione dei pubblici, ci descrive una realtà in cui l’agenda dei social media è dettata fondamentalmente dalla televisione.


I tre limiti di cui abbiamo parlato richiedono allora di ripartire costruendo una narrazione diversa sul digitale che non contrapponga il vecchio (analogico) e le sue esigenze al nuovo (digitale) e i suoi limiti o il potere del popolo del web a quello della politica e dell’amministrazione, che non si nasconda né dietro a tecno-specialismi né dietro a mitizzazione taumaturgiche dell’innovazione (pensate al racconto delle LIM nel mondo della scuola o a quello delle startup come nuova buzzword nell’economia). Il digitale ha in Italia bisogno di una politica di storytelling che sappia rigenerare il racconto a partire dall’informazione e dalla cultura, dall’educazione e dai luoghi di lavoro. Una narrazione che riparte dalla consapevolezza che i diritti di cittadinanza passano oggi anche da qui, che la conoscenza trova in Rete un luogo naturale per conservarsi, svilupparsi e diffondersi, che nuovi modelli economici e valorizzazione progettuale trovano nelle forme e nei linguaggi del web (peer, free, open, partecipativi, ecc.) interessanti vie di sviluppo senza le macchie di un gattopardo.

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