La proposta

Marchiori: “Italia Digitale 2020, le cose da fare”

Quattro punti che il nuovo governo deve sviluppare, per evitare il disastro da qui al 2020. Banda larga ovunque, investire davvero in startup e ricerca, open big data. Il punto di vista del noto scienziato

Pubblicato il 01 Apr 2013

Massimo Marchiori

università di Padova

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Italia, anno 2013: Dall’ultima classifica sull’innovazione risulta che l’Italia è scesa al ventiquattresimo posto, è al trentaquattresimo posto per concentrazione di ricercatori, ed al cinquantaseiesimo posto per livello di istruzione.

Italia, anno 2020: Dall’ultima classifica sull’innovazione risulta che l’Italia è scesa al quarantaduesimo posto, è al quarantunesimo posto per concentrazione di ricercatori, ed al sessantottesimo posto per livello di istruzione. La fuga dei cervelli ormai è la costante, l’innovazione tecnologica made in Italy praticamente inesistente, non sembra più esserci nessuna prospettiva. Si salvi chi può!

E’ questo il futuro che vogliamo? Dove saremo tra sette anni, e dove saremo ancora oltre?

Occorre una forte spinta per uscire dalla crisi tecnologica che attanaglia il nostro paese, ed occorre farlo ora avendo in mente le prospettive, per non ritrovarsi nel 2020 definitivamente tagliati fuori dal mondo, digitale e non, che conta.

Cosa occorre fare? Tante cose, certamente, ma occorre guardare al futuro, non all’anno prossimo o semplicemente alle cose più evidenti.

La banda larga, certo. La velocità della rete è una necessità, che si fa sempre più forte man mano che il nostro mondo analogico diventa sempre più digitale. E quindi, ben vengano le risorse per la banda larga. Ma attenzione a non pensare che basti la banda larga per risolvere i problemi digitali del nostro paese. Fare questo equivale a pensare che siccome la “barca Italia” è una lumaca, basta darle un motore più potente: il motore serve, ma se manca la benzina, o se la barca fa acqua, allora non si va proprio da nessuna parte, e verremo man mano superati da tutti.

Ecco quindi che serve ragionare a tutto tondo, e pensare alle prospettive a lungo termine, a come sarà il mondo che ci aspetta e a come dovremo affrontarlo. Ed allora, qualche spunto di riflessione, nella forma di alcuni punti strategici che dovrebbero essere considerati ora, prima che sia troppo tardi.

In questa prima parte cominciamo con quattro punti proattivi (“cose da fare”), nella seconda parte parleremo di alcune cose da non fare.

1. La Copertura

Il mondo del futuro sarà sempre più digitale, ed andremo verso l’always-connected, l’essere sempre connessi, portando a classi di applicazioni sempre più pervasive, e sempre più integrate con la realtà circostante. Per fare questo però occorre la copertura, cioè avere l’accesso alla rete disponibile in ogni parte del territorio. Da questo punto di vista, la banda larga serve a poco: inutile essere superveloci nel centro di Milano ma poi non avere connessione se sono in campagna. Per questo è essenziale focalizzarsi sulla copertura di rete: a velocità anche basse, ma la rete deve essere disponibile in parti sempre più estese del nostro territorio, puntando alla copertura totale. Con ogni operatore privato (eventualmente supportato dal pubblico per le coperture problematiche, pure se a bassa velocità appunto).

Perché l’importante è essere connessi, sempre ed ovunque.

2. Startup Zero

Si parla sempre più di startup, imprese innovative, e qualcosa è stato fatto per renderle qualcosa di più snello, ma c’è ancora tantissimo da fare. Soprattutto, non bisogna ragionare con la vecchia logica, che vede una startup come un’impresa normale. La startup innovativa non ha bisogno di agevolazioni, ha bisogno di essere riconosciuta per qualcosa di completamente diverso. L’agevolazione fiscale implica la startup abbia costi che poi magari ricevono qualche sconto o rimborso, ma la startup non deve avere costi: costo zero, ed eventuali “debiti” verranno ripagati solo se la startup ha successo. Perché una startup è un investimento in innovazione, ed occorre fare ogni sforzo per curare la fase critica, quella iniziale, quando si cerca di costruire qualcosa. Se poi questo qualcosa avrà successo, se questo seme si trasformerà in pianta, allora potremo anche prendere qualche frutto, ma non si spreme un seme!

Inoltre, capito il senso di una startup (fare innovazione), diamo libero accesso a tutti. L’idea buona può venire a diciotto come a venticinque come a trentacinque anni e oltre, a seconda del momento storico e tecnologico in cui si vive e delle persone che ci sono dietro. Non togliamo potenziale limitando la composizione di team efficaci, quello che conta per il futuro è piantare i semi dell’innovazione, da dovunque essi vengano, più sono e meglio è. L’unica metrica di definizione e di successo per una startup, o qualunque altro nome trendy ci sarà in futuro, sono le nuove idee che cerca di realizzare, e per quello occorre azzerarne i costi: per permettere a chiunque abbia un’idea di provarci, e piantare quel seme.

3. Ricerca e Conoscenza

Le startup da sole non bastano, perché quello che conta è a monte: ricerca ed innovazione, oltre che cultura. Non si può pretendere che l’innovazione sia sempre un atto artigianale, fatto in casa: occorre preparare le persone, dargli il meglio delle risorse e della conoscenza. Occorrono luoghi dove si faccia ricerca ai massimi livelli, senza il limite dato dal dover vendere un prodotto, e che quindi siano in grado di dare supporto all’innovazione, in grado di spaziare liberi e poi eventualmente di trasformare quell’innovazione in qualcosa di ancora più concreto nel mondo del lavoro, in sinergia con aziende, giovani, privati. In altre parole, occorre una Università che funzioni.

La nostra Università va avanti a colpi di buona volontà individuale, ma la prospettiva futura è disastrosa. Guardando al futuro, l’Università è morta, punto. Perché aver tagliato sulla ricerca e umiliato chi già c’era o chi vuole entrarci, senza neanche dare un posto fisso o un salario competitivo, implica che i giovani con qualche talento non sceglieranno l’Università italiana per fare ricerca: andranno direttamente in azienda, o andranno a fare ricerca all’estero. Sta già succedendo. Che significa appunto che è solo questione di tempo: con gli occhi del futuro, andando avanti così il destino dell’Università è segnato, con tutte le conseguenze disastrose che si hanno quando si tagliano le radici di un albero.

4. Open Big Data

Il futuro del digitale sta nelle reti, ma anche e soprattutto in quello che ci si potrà fare. E per fare qualcosa, occorre del carburante. Il carburante del futuro sono i dati: con i dati si riesce a fare, ragionare, costruire, e quindi proporre, magari tramite la rete appunto. Chi avrà più dati vincerà la battaglia del futuro.

Ma di dati ora ne abbiamo tantissimi, sempre di più, prodotti ad esempio dalla pubblica amministrazione, dati che riguardano tutti. Questi dati sono sepolti, pepite d’oro solo in attesa di essere riscoperte. Ecco quindi che è essenziale una strategia degli Open Big Data, aprendo progressivamente questi dati al pubblico, e permettendo così che si usino, che diano valore aggiunto, che siano la benzina accesa dal fuoco delle idee di tutti, con un potenziale dato solo dalla nostra immaginazione. Senza Open Big Data, saremo tutti connessi, ma l’interazione con il mondo, reale e virtuale, sarà limitata e sempre incompleta, e questa mancanza sarà fatale al progresso complessivo. Inoltre, avere una strategia a lungo termine per gli Open Big Data obbliga a pensare alle cose che questi dati rappresentano, porta a nuove connessioni ed a ottimizzazioni dei processi, porta ad un futuro dove i dati sono lo specchio lucido di un sistema informativo che funziona. In altre parole, ci porta al vero futuro dell’informazione.

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