Su La Repubblica del 3 novembre Alessandro Penati, da liberale, scrive che è assurdo che Telecom Italia venda la sua rete, che è assurdo che la venda a una società di cui abbia il 51% (e qui potrei essere d’accordo) e che è il massimo dell’assurdità che la Cassa Depositi e Prestiti sia il compratore della rimanenza. Vorrei sostenere, da liberale, un’opinione diversa. E questo è anche il pregio dei liberali: essere d’accordo sui principi ma divergere talvolta sulla loro applicazione: sarebbe peggio il contrario: di essere d’accordo nella pratica ma divergere sui principi.
Argomenta Penati che se la fibra delle nuove reti Ngn viene portata solo fino al marciapiede (perché portarla fino a casa non sarebbe economico) non c’è più ragione di vendere la rete. Farei un passo indietro: la soluzione tecnologica prospettata da Telecom, come del resto dagli altri operatori dominanti in Europa (ma non in Asia), danneggia seriamente la concorrenza fra operatori, che era stata faticosamente conquistata con il cosiddetto ULL, o disaggregazione del doppino di rame dell’ultimo miglio. Questo evento, da liberale, dovrebbe preoccupare Penati perché si tornerebbe al monopolio naturale, dove sarebbe strano lasciare la rete alla mercé del monopolista, come era strano che la rete elettrica di Terna fosse lasciata alla mercé del monopolista Enel.
Naturalmente per ovviare a questo problema si possono adottare varie soluzioni, fra cui quella della cessione della rete a una società in cui siano presenti i vari operatori, compresa Metroweb che ora appartiene alla Cassa DDPP dopo l’insensata cessione a suo tempo fatta dal Comune di Milano al fondo Sterling Square Capital, che aspettava solo il momento di lucrare un beneficio finanziario. In questo senso sarebbe corretto che la Cassa apportasse Metroweb, in quanto operatore di rete, ricavandone una quota. A mio giudizio sarebbe opportuno che questa rete fosse passiva e che si trattasse della rete di accesso, cioè dell’ultimo miglio e venisse affittata ai vari operatori, Telecom compresa, a prezzi non discriminati. Naturalmente la remunerazione dell’affitto potrebbe essere regolata dai principi RAB (Regulated Asset Base), cioè basata sul capitale netto investito rivalutato annualmente. Ma qui entriamo in aspetti regolatori che potrebbero complicare il discorso. All’atto dello scorporo Telecom riceverebbe una quota proporzionata al capitale trasferito, depurato della parte di debito anch’essa trasferita, e poi potrebbe liberamente quotare in Borsa la quota eccedente una percentuale di riferimento, da definire in modo che nessun operatore possa disporre a sua mercé della rete comune.
Ma Penati si preoccupa della sopravvivenza di Telecom senza rete, considerata prossima all’eutanasia. Ma, come abbiamo visto, lo scorporo della rete nasce più da problemi regolatori che di gestione aziendale; e comunque Telecom, alleggerita di una parte (metà?) del suo debito potrebbe tornare a investire in applicazioni, per recuperare il gap strategico che attualmente la separa dai cosiddetti OTT (Over The Top), i produttori di contenuti come Google, Apple, Amazon, Yahoo che si stanno impadronendo della parte più remunerativa del business, lasciando alla società della rete (sotto l’occhio vigile del regolatore) l’onere di spingere gli investimenti per assicurare ai famigerati OTT una banda sempre più larga per soddisfare le loro esigenze multimediali.