Molti analisti si concentrano sul mercato del cloud guardando alle dimensioni delle aziende che lo dominano come se fosse una lotta tra due giganti pianeti gassosi (i.e. Google Cloud e Microsof Azure) ed una stella con una massa migliaia di volte superiore a quella di tutti gli altri (Amazon AWS). Si ignorano, quasi sempre, tutti gli altri pianeti del sistema, i loro satelliti, la materia oscura che li unisce e li separa.
Quanto carburante bruciano i pianeti più grandi? Miliardi di dollari. Che tecnologie producono o comprano? Ad esempio, cosa accade quando uno di questi gitanti assorbe intere altre aziende competitor? Seguendo questo ragionamento, ci accorgiamo subito che la forza di attrazione gravitazionale, in economia, è ben rappresentata dagli effetti rete diretti e indiretti. Gli utenti vanno dove hanno interesse ad incontrare la maggior parte degli altri utenti. Ed i produttori si concentrano sui player più grandi.
In nome del cloud sovrano: le sfide della strategia italiana viste dal mondo della ricerca
Ma in tutto questo, ci siamo chiesti dove stanno riposti i nostri dati personali? E quelli aziendali? Li potete spostare da un pianeta all’altro? Quale forza li continua a tenere legati una volta che avete deciso di cambiare pianeta?
Proviamo a dare alcune risposte a queste domande.
Il mercato geografico di riferimento
Ogni buona analisi antitrust deve partire e non può non partire dal mercato geografico di riferimento, al fine di valutare possibili distorsioni della concorrenza. Uno studio del 2012 – su cui si sono basate finora le autorità indipendenti europee nel valutare la competizione dei fornitori di servizi di cloud computing – mostra un mercato distribuito entro i 50km dal data center o dalla sede dell’azienda. E questo, ovviamente, genera più di qualche perplessità a distanza di 10 anni, perchè il settore si sta espandendo in termini infrastrutturali e di servizi con dei numeri che non sono facilmente riscontrabili in altri settori merceologici e di servizi.
È certo che la capacità di mercato di un operatore locale, potrebbe essere in primis destinata alle aree adiacenti alla sua azienda. E tutto questo è un fatto che potrà bensì essere emerso nell’analisi puntuale di un singolo contesto economico, ma siamo sicuri che il parametro della distanza dal data center possa valere ancora a qualificare il mercato di riferimento di un cloud provider che opera a livello globale, o nazionale, o in alcuni Stati dell’Unione Europea? Senza andare ad allargare l’elemento di indagine che in questo articolo vogliamo analizzare, il Consorzio Italia Cloud ha pensato di sollecitare l’attenzione delle autorità su questo tema.
Mercato italiano del cloud: non riduciamolo alle due macroaree Nord-Sud
Occorre avviare anche in Italia un’analisi di mercato sulla scia di quanto sta accadendo in Francia ed in Inghilterra. Anche la nostra Autorità Italiana per la Concorrenza e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni potrebbero avviare un’analisi congiunta per il settore del cloud computing. Questo perché potrebbero emergere delle specificità del nostro Paese e restituirci l’immagine di un mercato italiano del cloud computing che non si può ridurre a due macroaree Nord e Centro-Sud. La questione è complessa.
Alla base del concetto di Cloud-sovrano c’è la volontà di mettere a fattor comune un insieme di reti, infrastrutture fisiche, layer applicativi, implementazioni, professionalità proprio per rendere disponibile sul mercato interno un servizio innovativo ad una massa di clienti. Si tratta, lo sappiamo, di storage e capacità di calcolo ma stavolta ci troviamo di fronte ad un modello di fruizione completamente diverso dai vecchi modelli cd. “on prem”, in quanto si rende possibile l’accesso – senza ingenti investimenti – a risorse potenzialmente illimitate, scalabili nel tempo, gestite da altri e condivise.
Un accesso democratico quindi ai servizi Cloud, apre la via a servizi tecnologici ormai indispensabili per ogni realtà economica, diventando a sua volta il vero abilitatore di nuovi paradigmi che definiscono una competizione a livello globale. Messo su questo piano il cloud è quindi sempre meno un concetto astratto e si candida ad essere il terreno dove si sta svolgendo, oggi, la vera battaglia sui dati, sulla governance, sulla sicurezza nazionale e sulla libertà individuali e di impresa.
La sovranità digitale e il ruolo del PNRR per lo sviluppo del settore cloud italiano
Alcuni temi sono già sotto i riflettori da tempo, tuttavia solo alcuni di essi sono capaci di determinare il futuro ed il peso globale dell’Europa in ambito tecnologico e dell’Italia come Paese che vuole coglierne appieno le opportunità. In primo luogo c’è la sovranità digitale. Viene posta come un obiettivo strategico europeo ma – in alcuni casi – è sembrato quasi venire a mancare la convinzione necessaria per perseguirla. Sono mancati i piani necessari per attuarla. Si parte sempre da un’osservazione: le soluzioni tecnologiche in uso nel vecchio continente sono nella quasi totalità extra europee. Più segnatamente, i servizi Cloud sono distribuiti per il 75% tra hyperscaler americani e cinesi. Una dominanza tecnologica che cresce anno su anno, a volte anche a discapito dei player europei che emergono o quantomeno ci provano, a competere con gran fatica – proprio perché non possono avvantaggiarsi di economie di scala e di scopo come i giganti globali.
L’equilibrio geopolitico di cui abbiamo goduto negli ultimi decenni ha rassicurato i decisori europei e assopito il legislatore italiano, mitigando il rischio percepito. Si tende a considerare i Paesi alleati come fornitori affidabili, con una sorta di “delega in bianco” o un sacrificio necessario e senza costi, senza tener conto della salvaguardia della nostra capacità produttiva, della nostra capacità di far crescere i nostri talenti formati in Italia, di creare le opportunità di sviluppo. Che non mancano. Prova ne sia la commessa pubblica legata al Piano Nazionale di Ripresa e Resilenza. Quella si potrebbe accelerare, ancora adesso, la nostra industria italiana del Cloud computing.
Abdicando a questo ruolo di stimolatore di crescita di aziende nazionali, non solo cediamo quote di mercato e ci precludiamo occasioni di sviluppo, ma stiamo cedendo parte della nostra sovranità, della nostra privacy, della governance delle nostre aziende e delle nostre vite private.
Il perimetro normativo che definiscono alcuni Stati alleati, non coincide infatti con quello europeo che a fatica sta cercando – ancora oggi – un quadro di regole uniformi e costretto dall’emergenza determinata in parte dagli effetti del conflitto in Ucraina, si focalizza oggi sulla sicurezza nazionale e sull’equilibrio interno. In attesa della definizione di un perimetro di regole certe, comuni, consolidate da una buona applicazione delle stesse, ci accorgiamo ben presto che la tecnologia non si arresta. Ed il mercato continua a svilupparsi in nostra assenza. O nel silenzio degli abusi commessi e denunciati al Giudice Europeo.
Per questo è sempre conveniente conoscere a fondo il mercato nazionale, comprenderne le sue sfaccettature. Cercare in altre parole, di ridurre la dipendenza industriale senza armare una difesa protezionistica del mercato, ma andando a raccogliere le istanze e le difficoltà, con tutte quelle problematiche, note ai tecnici (non solo ingegneri, ma giuristi ed economisti) che pongono al centro il valore delle nostre specificità aziendali.
Cloud: l’Italia fuori da giochi?
Alcuni studi privati ci mostrano ricorrentemente una situazione allarmante. La quota di mercato nel cloud computing di pochi player esteri, ha continuato a crescere negli ultimi anni, mentre quella degli europei ha, allo stesso tempo, continuato a diminuire, con cifre che vedono l’Italia fuori da ogni classifica. Basterebbe questo a chiedersi quantomeno chi siamo. A valutare il problema mettendolo su una bilancia.
Una bilancia che non deve avere pesi differenziati. Non si può ridurre il Cloud alla mera disponibilità di un data center. I data center a loro volta, non coincidono nemmeno con i dati e sicuramente non coincidono con la governance e la disponibilità degli stessi.
Dobbiamo avere maggiore consapevolezza che dietro ai giganti del Cloud ci sono in primo luogo delle aziende che producono software, dalle quali siamo totalmente dipendenti o da cui siamo vessati per effetti di un lock-in tecnologico difficile da spezzare. Questo meccanismo, ha portato ad un approccio nichilistico nel recente passato. Si è detto che l’Italia non è in grado di apportare quei livelli di innovazione. Nemmeno – a detta di alcuni – potrebbe contribuire a farlo. È l’approccio più sbagliato a questi temi.
Perché l’Italia non deve rassegnarsi al ruolo di rivenditore di servizi extra-Ue
È un percorso tracciato quello che ci vede rassegnati alla pura rivendita di servizi creati e gestiti al di fuori del nostro contesto nazionale. Gli operatori italiani afferenti al Consorzio Italia Cloud lo sanno bene, e sono decisi a far valere le nostre competenze e le risorse per vedersi riconoscere il proprio ruolo in questa partita. Un obiettivo possibile, dovrebbe orientare il Paese verso un migliore uso delle risorse disponibili in ambito tecnologico e Cloud per generare un ecosistema indipendente italiano a supporto della nostra sicurezza, dell’economia e dei servizi della Pubblica Amministrazione.
L’iniziativa privata italiana deve essere supportata, valorizzata e – a questo punto – addirittura conosciuta fino in fondo. Anche per questo riteniamo necessario si avvii un’indagine di mercato. È un’opportunità che il Governo può cogliere per promuovere, attraverso le risultanze della consultazione, iniziative di sviluppo dell’industria, anche per dare ai cloud provider italiani l’attenzione che meritano, nel rispetto dei più alti standard europei di transizione verde e digitale. Non da ultimo, per la sicurezza del nostro Paese e per un’adeguata protezione dei dati.