pratiche commerciali abusive

Contratti software, attenti alle prassi che gonfiano i costi a clienti e cittadini

Il mercato dei software è gravato da condotte molto penalizzanti per i clienti, che generano costi in larga parte immotivati, i quali finiscono per riverberarsi sui cittadini. Ecco quali sono le prassi contrattuali e commerciali più gravose e unfair e per le quali sarebbe necessario un parere dell’Autorità

Pubblicato il 02 Feb 2022

Gabriele Faggioli

CEO Gruppo DIGITAL360

Annamaria Italiano

Partner di Partners4Innovation

Carlo Scarpa

professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Brescia

software

Gravano molte prassi contrattuali e commerciali sui contratti software, imposte dai vendor, che molte aziende ritengono eccessivamente gravose e unfair se non – e su questo sarebbe auspicabile un parere da parte delle Autorità – addirittura illecite.

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L’articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea

Partiamo da un presupposto: l’articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che “è incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.

Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;”. L’ordinamento giuridico italiano, e in particolare l’articolo 3 della legge 287/1990 “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” recepisce lo stesso principio, con una formula del tutto analoga, quasi una parafrasi del Trattato.

La valutazione di un presunto caso di abuso di posizione dominante viene svolta attraverso un iter di cui, ai fini della presente analisi, interessano solo due passaggi, rimandando ad altri contesti la visione complessiva del tema, e cioè:

  • la valutazione circa la sussistenza o meno di una posizione di dominanza in capo all’impresa verso cui si procede;
  • la valutazione in relazione al fatto che una specifica condotta tenuta da detta impresa costituisca o meno sfruttamento illegittimo della posizione di dominio (e, quindi, un abuso).

Definizione di posizione dominante

Rispetto al primo profilo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella causa C-85/76, Hoffmann La Roche / Commissione, con la sentenza 13 febbraio 1979, ha definito la posizione dominante come una “situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti e in ultima analisi, dei consumatori”.

Secondo la Commissione[1], nell’effettuare tale valutazione, dovrà aversi riguardo, tra le altre cose, alla struttura concorrenziale del mercato (barriere all’entrata, il rispetto di eventuali normative, le caratteristiche dei prodotti, etc.) e alle pressioni imposte dalla forza negoziale dei clienti dell’impresa (viene valutato, infatti, il grado di indipendenza rispetto al potere contrattuale dell’acquirente).

La posizione di (possibile) dominanza delle software house

È evidente che, nella contrattualistica afferente al software, sia con riferimento ai prodotti on-premise, che rispetto all’offerta di servizi di cloud computing, i fornitori appaiono estremamente indipendenti dai loro clienti nelle scelte commerciali che adottano e nell’adozione degli standard contrattuali che propongono al mercato, che, di fatto, sono non negoziabili. Questo non vuol dire automaticamente che ogni software house si trovi in una situazione di posizione di dominanza sul mercato, ma non è improbabile che, in alcuni casi, una Autorità chiamata a valutare la posizione ricoperta da talune software house potrebbe ritenere sussistente tale condizione.

Venendo al secondo profilo, occorre chiedersi quando le condotte possano essere valutate abusive e, a tal fine (oltre alle condotte “escludenti” verso i concorrenti, meno rilevanti ai fini dell’analisi che stiamo conducendo), occorre concentrarsi sulle condotte con effetto di sfruttamento, vale a dire, su quei comportamenti con cui l’impresa dominante sfrutta il proprio potere di mercato nei confronti dei propri contraenti (fornitori e clienti), al fine di realizzare profitti sopra-competitivi (per esempio, prezzi o condizioni contrattuali eccessivamente gravosi; pratiche discriminatorie nei confronti delle proprie controparti commerciali e via discorrendo). Alcune ipotesi tipizzate sono l’imposizione di prezzi eccessivi o l’imposizione di condizioni di transazione non eque o ingiustificatamente gravose).

Anche sotto questo profilo, determinate condotte attuate dai vendor sul mercato suscitano più di una perplessità, tanto da auspicare una pronuncia delle Autorità competenti.

Alcune prassi contrattuali tipiche del mercato del software

Già in un precedente articolo abbiamo avuto occasione di analizzare la richiesta, da parte di talune software house, di una “transfer fee”, vale a dire la corresponsione di un corrispettivo – ulteriore e distinto dal prezzo di acquisto delle licenze – specificamente legato alla possibilità di trasferire, da una società a un’altra, il parco applicativo compravenduto (e, dunque, utilizzato in forza di licenze perpetue); pratica che gli scriventi ritengono commercialmente discutibile e, in ultima istanza, giuridicamente non legittima.

Vediamo di seguito alcune altre prassi contrattuali tipiche del mercato del software:

  • Sono richieste “transfer fee” nel caso di cessione del parco applicativo: se anche si volesse sostenere che astrattamente la “transfer fee” sia legittima, per il vendor essa si sostanzia in un ritorno economico non equo, poiché correlato all’obbligo, imposto al cliente, di versare una somma di denaro cui non corrisponde alcuna prestazione da parte del vendor medesimo. In altre parole, essa appare come una extra remunerazione del tutto immotivata (oltre che di dubbia tenuta giuridica con particolare riferimento al software licenziato a tempo indeterminato, il quale deve ritenersi a tutti gli effetti compravenduto).
  • Non è consentito interrompere il supporto da parte del vendor solo su una porzione del parco applicativo del licenziatario. In buona sostanza, al licenziatario sarebbe inibita la possibilità di fare interruzioni o attivazioni parziali del servizio di supporto e tale imposizione appare come iniqua ed irragionevole, non solo perché il prezzo della manutenzione è sempre commisurato al complesso delle licenze acquistate e non invece al loro effettivo utilizzo (laddove, tuttavia, un cliente ben potrebbe non avere più interesse ad utilizzare parte del parco applicativo originariamente acquisito), ma anche perché tale regola gioca sempre solo a sfavore del cliente (cioè nell’ipotesi in cui il suo fabbisogno diminuisca), atteso che, nell’ipotesi contraria di un aumento del fabbisogno applicativo, il costo della manutenzione va invece ad aumentare, essendo commisurato alla dimensione di tutto il set di licenze acquistate.
  • Tutte le licenze appartenenti ad un medesimo set devono essere portate alla stessa versione con identica manutenzione. Il fornitore obbliga infatti all’acquisto del supporto tecnico del medesimo livello per tutte le licenze all’interno di quel set, e consente di cessare il supporto per un sottoinsieme di queste licenze solo se si accetta di cessare definitivamente anche l’utilizzo di tali licenze. Si tratta di una pratica chiaramente perlomeno unfair e irragionevole, perché, a fronte del fatto che un cliente ben potrebbe decidere di non usare parte del set applicativo, la perdita del diritto di utilizzare licenze a carattere perpetuo che non vengano manutenute contrasta con la natura del diritto acquisito rispetto a tali licenze, diritto che è equiparabile ad un diritto di proprietà (anche se la compravendita viene mascherata da licenza d’uso perpetua). Fatte le dovute proporzioni e per esemplificare l’irragionevolezza di tale pratica commerciale e contrattuale imposta dal vendor, sarebbe come se il produttore di un’auto potesse obbligare l’acquirente alla sua rottamazione in caso di mancata manutenzione.

Conclusioni

Si tratta solo di alcuni esempi che sono, tuttavia, indicativi dell’esistenza di una serie di condotte gravemente penalizzanti per i clienti, i quali spesso sono destinatari di richieste economiche di cui non comprendono il fondamento, di cambi di sistemi di calcolo, di imposizioni irragionevoli o percepite come inique che, in ultima analisi, mirano a far aumentare i ricavi dei vendor ovvero a impedire che si possa configurare una diminuzione dell’impegno economico da parte del cliente.

Sono condotte all’interno di un mercato che vale miliardi di euro e che genera costi che in larga parte immotivati, perlomeno ingiusti, e che, in ultima istanza, verosimilmente si riverberano sui cittadini che acquisiscono prodotti e servizi delle aziende costrette a sottostare a queste imposizioni.

Ci si augura che, prima o poi, anche le Autorità preposte aprano una fase di verifica di questo mercato, per fissare, una volta per tutte, quali sono le regole alle quali tutti devono attenersi.

Note

  1. Cfr. Comunicazione della Commissione “Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del trattato CE al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti” del 24.02.2009

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