transmedia storytelling

Da aziende a media company: come devono cambiare i piani di comunicazione

Oggi un prodotto non si presenta, lo si racconta e, soprattutto, lo si fa raccontare comunicando valori, idee e impegni che l’azienda (o il brand) assume nei confronti della società nella quale opera. Ma come trasformarsi da azienda in media company? strategie ed esempi

Pubblicato il 03 Mar 2023

Alessio Pecoraro

coordinatore PAsocial Emilia-Romagna, marketing & communication manager

Why-Story-Telling-Matters-branding-science-01

L’attuale periodo storico presenta alcuni, importanti, elementi di novità che impongono una revisione dei modi (e dei metodi) con cui le aziende comunicano, e si relazionano, con i propri clienti.

Le aziende si sono a poco a poco trasformate da imprese il cui unico obiettivo era vendere e spiegare al pubblico il proprio prodotto a vere e proprie media company, aziende che in un contesto di saturazione e indifferenziazione di contenuti provano a emergere con un valore in più.

Lo storytelling da solo non basta più: perché le aziende devono diventare (anche) media company

Un prodotto non si presenta, si racconta

Le aziende, oggi, oltre a mettere sul mercato prodotti e servizi sempre nuovi lavorando – tramite il marketing – per costruire nuove necessità hanno bisogno, al tempo stesso, di un rapporto, una relazione, con la propria audience di riferimento e per farlo sempre più spesso devono affidarsi a veri e propri prodotti editoriali.

Non si presenta più quindi semplicemente un prodotto o un servizio, lo si racconta e, soprattutto, lo si fa raccontare e più in generale si comunicano valori, idee e impegni che l’azienda (o i brand) assume nei confronti della società nella quale opera.

La diffusione del web 2.0 e delle tecnologie digitali ha consentito la creazione di una infrastruttura reticolare fatta di new media e smart object che sono la base di un nuovo sistema sociale: la network society.

Il pubblico diventa co-creatore

Il pubblico non è quindi più solo passivo come accade da decenni ma neanche solo attivo, è un co-creatore di contenuti. Le aziende devono prendere coscienza che il controllo dei brand (e della loro immagine) sta passando dalle loro mani a quelle dei consumatori.

Gli uffici marketing devono essere pronti ad abbandonare le vecchie regole e progettare narrazioni coinvolgenti capaci di prevedere forme differenti di engagment per le diverse piattaforme secondo il modello del transmedia storytelling come lo definisce il sociologo statunitense Henry Jenkins nel suo testo del 2006 Cultura convergente. “Un processo in cui elementi integrali di una storia si diramano sistematicamente attraverso molteplici canali con l’obiettivo di creare un’esperienza di intrattenimento omogenea e coordinata”.

Il transmedia storyelling

Ma quali sono i punti di forza di questo storytelling? Nel transmedia storytelling, una storia è spalmabile, cioè viene raccontata su più piattaforme.

Non si tratta però di una espansione verticale del contenuto, ma sviluppare molteplici storie e punti di vista collocati nello stesso contesto narrativo.

Per stare al passo e vincere le sfide del presente e del futuro il vecchio piano editoriale, da solo, non basta più. Ormai lo diamo come assunto, la comunicazione – soprattutto quella aziendale – necessita di pianificazione. Il piano editoriale è un documento che serve a pianificare la pubblicazione di contenuti per esempio sui social, sui siti o su un blog, manualmente o con l’ausilio di software tipo Hootsuite creato da Ryan Holmes nel 2008.

L’azienda diventa media company

In un mercato saturo di informazioni e scarso di attenzione le aziende devono quindi trasformarsi in media company. “Al prodotto che un’azienda propone si deve associare un ulteriore servizio, sempre meno opzionale, l’informazione. E per raggiungere l’obiettivo non basta più la vecchia struttura di comunicazione di cui in genere si forniscono le imprese”. A dirlo è Diomira Cennamo, giornalista, esperta di comunicazione e marketing digitale autrice de “L’azienda media company” (2020, edizioni Hoepli).

Come ha sottolineato però Michael Brito, stratega dei social media, “non è che possiamo accendere il pulsante ‘media company’ e cambiare le operazioni da un giorno all’altro.

Serve un cambiamento radicale: di atteggiamento, comportamento, di processo e di modelli di governance; così come la tecnologia, che grazie al digitale, può facilitare la trasformazione indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda e del budget a disposizione.

Il brand journalism al servizio del marketing

A servizio del marketing quindi non ci sarà più solo la comunicazione, ma un concetto più ampio: il brand journalism, una forma ibrida tra giornalismo tradizionale, marketing e pubbliche relazioni.

Accanto allo storytelling (in versione transmedia) e il brand journalism c’è l’organizzazione che non può essere lasciata al caso nel percorso verso la media company.

Per iniziare la trasformazione dell’azienda in un editore è necessario assumere e organizzare le persone con le giuste competenze in un team editoriale centralizzato, qualcosa di molto simile alla redazione di un magazine o di un canale tematico. Il team editoriale sarà responsabile della strategia, dell’esecuzione e dell’analisi delle iniziative di contenuto.

Bisogna poi creare lo storytelling del brand oltre alla content strategy (la strategia dei contenuti). Come?

I dati per lo storytelling del marchio

I dati sono fondamentali. I feedback dei clienti, i dati sulle ricerche e sul comportamento durante la customer experience, ma anche la messaggistica interna è molto importante. Come spiega Brito: “Lo sviluppo narrativo non può essere fatto solo da un gruppo di lavoro o da un’agenzia di comunicazione. È un’iniziativa che richiede una moltitudine di stakeholder, vari livelli di competenza e da una fattiva collaborazione aziendale”.

L’ascolto infine è fondamentale per monitorare il coinvolgimento del brand, ricercare idee per creare contenuti su argomenti di tendenza in un settore specifico (o in settori affini) ed analizzare il ciclo di notizie quotidiane. Come scrive l’esperto di statistica Nate Silver il rumore sta crescendo molto più che il segnale. Un team capace di intercettare i segnali si assicura un vantaggio considerevole. Oltre allo storytelling, quindi, è importante anche lo storylistening.

L’esempio di Red Bull

Un esempio eccellente di azienda che ha operato una transizione in media company è Red Bull che oltre alla produzione della sua bevanda energetica, ha puntato sul digitale per creare contenuti ed esperienze per continuare a trasmettere i valori del brand ad un pubblico sempre più vasto.

Nel 2007 infatti l’azienda austriaca ha creato la Red Bull Media House una media company multipiattaforma distribuita a livello globale che produce contenuti destinati a old e new media: da “The Red Bullettin”, il giornale aziendale, fino a Red Bull TV e un canale di gaming online su Twitch. Un impegno nella produzione di contenuti di qualità che lascia molto sullo sfondo la pubblicità del prodotto che resta il core business dell’azienda ma capace anche di generare entrate.

Il Coca-Cola Journey

Un caso degno di nota per quanto riguarda il brand journalism invece è il Coca-Cola Journey, il magazine online di Coca Cola, ideato e prodotto da una vera e propria newsroom interna all’azienda. “Abbiamo lavorato nell’intento di avvicinare e appassionare tutti i nostri interlocutori e l’interesse ricevuto dimostra come il brand abbia compreso la mutazione della relazione tra marca e consumatore, sempre più dominata da dinamiche orizzontali di conversazione e narrazione” così Vittorio Cino ex Direttore Comunicazione e Relazioni Istituzionali di Coca-Cola, dal 2021 Direttore di FederVini.

Come trasformarsi in media company

Per lavorare nella direzione della media company le aziende devono prima di tutto definire quale storia vogliono raccontare e come farlo (linguaggio, format, testimonial). Le grandi medie company sono grandi narratori.

Attenzione al contenuto, la qualità è (e sarà sempre di più) un fattore determinante. Non basta più solo esserci bisogna riuscire a distinguersi. La creatività deve essere un punto cardine delle strategie della media company.

I contenuti, tutti, devono essere portatori di valore aggiunto. Ogni contenuto deve avere una mission definita: informare, aiutare, intrattenere i potenziali clienti.

Multicanale e onnipresento, le aziende che puntano a diventare media company devono creare prima di tutto una piattaforma capace di essere un contenitore riconoscibile (ad esempio il sito web) e poi evolvere il piano di comunicazione, che va superato ma che non va sostituito, in palinsesto multicanale. Le aziende media company devono essere ovunque, on line (blog, social media, etc…) e off line (eventi live).

La struttura della media company deve essere, come già detto, organizzata, solida, ma al tempo stesso agile. A volte non si hanno tutte le risorse in casa per sviluppare una content strategy efficace, è bene quindi farsi contaminare dalle possibilità che vengono dall’esterno. Collaborazioni e contaminazioni sono fondamentali, anche con mondi apparentemente distanti dal core business o dall’ambiente dove è collocata l’azienda.

 Conclusioni

In sintesi, per le aziende l’evoluzione in media company passa dall’ identificare i valori con i prodotti e i prodotti in storie. A dare una grossa mano alle aziende che non hanno a disposizione budget importanti la tecnologia, con un approccio digital first anche le piccole e medie imprese possono avviare – senza grandissimi investimenti – la transizione verso la media company, partendo dal proprio piano editoriale.

I risultati? Non sono determinabili in maniera teorica, ma se il brand riesce a fare un “passo indietro” per risultare interessante anche ai “no-addict” allora la corporate strategy sarà davvero quella di una media company e non una pubblicità mascherata.

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